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Colma,
l'acqua, l'anfratto ed il bicchiere,
fredda e stellata, in esaustivo amplesso.
Confine di seta, abita il bere
e, trasparente, esiste solo in esso.
Non l'ho mai vista, non la posso avere,
mi sfugge sempre: balenio convesso
nel cui sussurro s'addensa un tacere
vecchio e nodoso, ostinato e spesso.
Su lei rifletto e me, riflesso, vedo
ma se mi cerco trovo terra e cielo
l'uno all'altra tessuti in tenue velo.
Ipotesi improbabile a cui credo
come si crede al vento; questo dio
che passa tra le foglie in un brusio.
Una
delle prime manifestazioni dell'intelligenza speculativa fu la meravigliosa
affermazione che ogni cosa è fatta d'acqua. La dobbiamo a Talete,
il quale affermò pure che la terra intera galleggia sull'acqua.
Se la terra galleggia sull'acqua (ed essa stessa è fatta d'acqua...)
se persino l'aria non è che acqua, noi ci troviamo a trascorrere
(il termine acquista in precisione) la nostra esistenza in una sorta
di liquida e azzurra placenta attraverso la quale osserviamo, parliamo,
deambuliamo (in realtà nuotando): noi stessi null'altro che
acqua. Ciò a cui ci riferiamo oggi con la parola "spazio"
sarebbe dunque, in questo primo pensiero, solo acqua, ed acqua tutto
quanto in esso trova luogo.
Così scrive Aristotele: "Talete... dice che quel principio
-il principio, cioè, di tutte le cose- è l'acqua
(per questo afferma anche che la Terra galleggia sull'acqua), desumendo
indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento
di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera
dall'umido e vive nell'umido. Ora, ciò da cui tutte le cose
si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse
dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di
tutte le cose hanno una natura umida e l'acqua è il principio
della natura delle cose umide".
Si tratta di un pensiero, insieme, selvatico e raffinato che tiene
quasi la storia a distanza. Esso sembra scaturire dalla roccia più
antica dell'umanità, quella nei cui anfratti si annidano i
muschi più segreti e odorosi. Gli strumenti che lo stesso Aristotele
utilizza per esaminarlo appaiono troppo ricercati e, insieme, eccessivamente
rudimentali. Io non credo che Talete abbia "desunto" questo
pensiero, perché esso non è un pensiero "secondo".
Occorre pensarlo d'un colpo o non pensarlo per nulla. È un
tuffo nel mare, mentre da Socrate in poi, si preferisce, prima d'entrare
a mollo, bagnarsi poco a poco. Acclimatarsi, per così dire.
Gaston Bachelard, più di duemila anni dopo, ha affermato che
"Le antiche cosmogonie non organizzano pensieri, sono audacie
della rêverie e per dar loro vita bisogna imparare nuovamente
a sognare" e, dopo, ha scritto anche, citando Franz Von Baader,
"La sola prova possibile dell'esistenza dell'acqua, la più
convincente e la più intimamente vera è la sete".
Il primo sogno dell'uomo riflettente è stato proprio un sogno
d'acqua. Una riflessione, naturalmente, che fu anche un riflesso:
il sogno che l'universo intero fosse fatto di una materia la cui esistenza
non può essere afferrata e posseduta da nessuno dei nostri
sensi. Da qui il riflesso, appunto, che l'universo fosse della stessa
sostanza dei sogni. Ora, nella sezione del nostro trattato anonimo
dedicata ai materiali dell'architettura l'acqua segue alla luce, materiale
primo, e le si accosta.
È in un riflesso di luce e d'acqua, sembra dirci il trattatista,
che nasce l'architettura.
Ma se, per quanto riguarda la luce, il pensiero è immediatamente
accessibile ad ognuno, per l'acqua occorre rifarsi a quel sogno sognato
a Mileto, sei secoli prima che nascesse Cristo. D'essere intrisi d'umidità
e addirittura fatti d'acqua, per quanto la biologia l'abbia confermato,
l'avevamo, infatti, dimenticato quasi del tutto. Da noi che abitiamo
luoghi caldi, assetati e sottosviluppati (ciascuno ha le sue disgrazie...)
di quel sogno d'acqua, in verità, qualcosa è rimasto
(...e ciascuno i suoi colpi di fortuna).
Dopo tutto potrebbe non essere un caso se l'architettura che ha avuto
con l'acqua il rapporto più intelligente e più poetico
è stata, probabilmente, quella islamica. Un materiale fatto
della sostanza dei sogni che, distillato ulteriormente nell'alambicco
dell'immaginazione, diviene, grazie alla sua rarità, splendida
icona della dimora e ricordo dolcissimo dei fiumi che attraversano
il paradiso.
Louise Hamilton, raffinata gentildonna anglosassone (poetessa, fotografa,
traduttrice dall'italiano, dal francese, dall'inglese) che si trovò
per ironia del destino ad abitare proprio dalle mie parti tra la fine
dell'ottocento e l'inizio del novecento (aveva sposato a ventuno anni
un signorotto locale pieno di soldi e nel 1900, infatti, tradusse
in italiano un libro inglese intitolato, naturalmente, "Come
essere felici pur essendo maritate"...) scrive dei miei conterranei:
"Acqua: i siciliani ne bevono in grande quantità, in
enormi bicchieri dal fondo piatto, capaci di contenerne mezzo litro".
Il caldo, è naturale, fa venir sete, ma direi che non è
questo il punto.
Il bicchiere in cui si beve deve essere un capiente bacino non tanto
per dissetarci, ma per lasciarci intrattenere un rapporto quanto più
intenso e diretto possibile con la fuggevole materia che contiene:
se all'interno di quel bacino ci è data la possibilità
di ficcare letteralmente il naso va benissimo, non ne sentiremo, per
questo, l'odore, ma ne percepiremo la sacra umidità fino al
cervello e, socchiudendo appena gli occhi, magari dimenticheremo per
un attimo questo sole che spacca le pietre.
C'è di più.
Succede ancora spesso, a chi abita dalle mie parti, di svegliarsi
al suono di una voce di donna che, dal balcone, dice ad un'altra "...c'è
l'acqua!". E subito dopo, ancora in dormiveglia, sentire che
la casa comincia respirare, mentre le sue arterie si riempiono e il
tufo delle sue pareti s'imbeve d'umido dopo giorni e giorni d'astinenza
(perché qui non è come in Svizzera, sapete, e l'acqua
arriva una volta tanto). È così che fanno i cammelli
dell'Africa quando, prima di attraversare il deserto (e dopo) ne sorsano
immense quantità. Ma nel nostro caso la sete c'entra di striscio.
Quello che conta è, scusate le parole grosse, il rapporto rituale
con il mistero dell'umidità prenatale. È forse la stessa
cosa quella che il nostro trattatista ha descritto, riferendosi alla
luce, come "nostalgia del nostro nulla". Riflesso d'acqua
e di luce che ci precede e, forse, ci attende alla fine. Nella tradizione
giudaico-cristiana acqua e luce sono in effetti i materiali primari
della costruzione universale. È vero anzi che, nel libro della
Genesi, Dio, all'atto di pronunciare le fatidiche parole "Sia
la luce", già opera in una sorta di fangoso pastone
acquatico e che da questo si potrebbe dedurre addirittura che l'acqua
preesista in qualche modo alla luce (Genesi 1,2: "La terra
era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito
di Dio aleggiava sulle acque"). È poi in un paesaggio
d'acqua e di luce che si conclude il libro dell'Apocalisse: "...un
fiume d'acqua viva, limpido come cristallo" (Apocalisse 22,1)
presso il quale, per i beati "Non vi sarà più
notte e non avranno più bisogno di luce di lampada né
di luce di sole perché il Signore li illuminerà"
(Apocalisse 22,5). Sembrerebbe insomma che, anche alla fine, ci attenda
una sorta di opalescenza subacquea, un azzurro lucore prenatale. Nel
frattempo, sembra dirci il nostro trattatista, è bene che l'architetto
pratichi con umiltà sacerdotale l'acqua e la luce e, per quello
che può, ne accudisca il mistero... perché sfuggono
da ogni parte, acqua e luce, proprio come il vento, e provarsi ad
afferrarle è vano.
***
Nella stessa pagina
del manoscritto sulla quale trovano posto i versi sull'acqua che abbiamo
riportato sono scarabocchiate queste parole che, ad una prima lettura,
potrebbero apparire sibilline:
"f.w. acqua a cascate ma la casa è impermeabile e muore
di sete... questo yankee non sa niente dell'acqua... l'americano di
sotto invece ha capito tutto... g.h. è intrisa d'acqua".
Riflettendoci, però, interpretazione della prima sigla
e il senso delle prima parte della frase mi sembra abbastanza chiaro.
F.w. dovrebbero essere le iniziali del nome con cui è comunemente
designata la più celebre tra le architetture di questo secolo,
cioè Fallingwater, e lo yankee che non ha capito nulla, ahinoi,
sarebbe in tal caso proprio lui: il leggendario architetto americano
il cui capolavoro più grande consistette nel riuscire a progettare
se stesso come un cocktail perfettamente calibrato tra Gary Cooper
e il bardo Taliesin, e cioè Frank Lloyd Wright. Un pochino
più difficile, forse, l'interpretazione delle parole successive.
Credo, tuttavia, di aver trovato una soluzione convincente: "l'americano
di sotto" non è uno statunitense ma un architetto messicano,
Luis Barragan, perciò le iniziali g.h. dovrebbero riferirsi
alla sua "Gilardi House".
Il fatto è che, dopo aver letto questa fulminea noterella ed
aver messo accanto le foto delle due famose architetture, con tutto
l'affetto per quel caro, vecchio , mi è difficile dare torto
al nostro trattatista. Voi che ne dite? Pensateci... io, intanto,
per finire, vi propongo questi versi di Borges che chiudono una poesia
intitolata El Sur (Il Sud):
"...haber sentido el circulo del agua en el secreto aljibe,
el olor de jazmìn y la madreselva,
el silencio del pàjaro dormido
el arco del zaguàn, la humedad
- esas cosas, acaso, son el poema."
("...aver sentito il cerchio dell'acqua
nella segreta cisterna,
l'odore del gelsomino e della madreselva,
il silenzio dell'uccello addormentato,
l'arco dell'androne, l'umidità
-tali cose, forse, sono la poesia.")
Ugo Rosa
u.rosa@awn.it
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[25oct2004]
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