Le
pietre di Estirel |
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"Sono stato una lancia aguzza e dorata ...sono stato una goccia di pioggia nei cieli sono stato la più lontana delle stelle sono stato la luce della lampada. Per un intero anno fui un lungo pontile, su tre ventine di fiordi. Sono stato camino e fui aquila, sono stato battello da pesca sul mare, sono stato cibo al festino, goccia nel temporale e sono stato spada nella stretta delle mani. Sono stato scudo nella battaglia, sono stato corda di un'arpa, ...Fui albero dal legno misterioso." Taliesin "Nessuno, fra gli dei, volle donarmi la stellata occasione della sera. Dovetti ipotizzarne l'esistenza e, ogni volta, immaginarne i lumi. Questo vizio sottile m'ha estenuato, senza lasciare spazio ad altri affanni. E, dunque, non crediate che cantassi qualcosa di diverso dalla notte quando, sui flutti ebbri di riflessi, io conducevo Ulisse nei suoi viaggi e spezzavo le lance degli eroi contro scudi splendenti sotto il sole" Epigrafe funeraria greca nota come "La confessione di Omero" (liberamente tradotta da C. Lathbury) |
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Definire
Jacobus Petrus Estirel uno scultore, oggi, richiede il solo sforzo dell'emissione
vocale. Non fu così quando egli visse (1467-1560) e continuò
a non essere così, per molti e molti anni ancora, dopo la sua
morte. A quel tempo il bizzarro scultore bretone era variamente definito
ma quasi mai con riferimenti alle sue capacità artistiche. Si
andava dal perentorio "pazzo" a costruzioni casistiche più
raffinate e articolate come "mentecatto, ubriacone vocato alla
truffa, porco diabolico privo di senso morale", con tutte le immaginabili
variazioni che intercorrono tra l'ingiuria lapidaria e l'argomentazione
demolitoria a scopo d'edificazione morale. Ancora nel tardo Settecento il polemista e filosofo Pierre Jacques Leriste ce ne fornisce questa pacata ma micidiale silhouette: "Vecchio rimbambito (vieux bête) misticheggiante, la cui sola affinità con la scultura doveva consistere nel suo essere ottuso come un masso". Perché mai un artigiano così schivo, e di cui non ci sono pervenuti dati biografici tali da giustificare un simile trattamento, possa essere incorso in queste imbarazzanti recensioni non è chiaro. Probabilmente ciò che infastidì i suoi critici dovrebbe essere rintracciato nei caratteri stessi delle sue sculture. Egli rappresentò, in effetti, un modo di intendere l'arte del tutto anomalo che non potrebbe neppure definirsi sorpassato o venire classificato come un attardamento gotico ma piuttosto una sorta di sopravvivenza primitiva in pieno Rinascimento. Difficilmente la sua arte avrebbe potuto essere compresa da chi oramai aveva dimestichezza con Luca della Robbia e Donatello, ma neppure gli scultori delle cattedrali avrebbero potuto comprendere il suo tratto così eretico ed apparentemente lontano da ogni propensione religiosa. Neppure nei due secoli successivi egli poté incontrare il favore degli intenditori: cosa aveva da spartire, questo silenzioso alchimista della pietra con i rutilanti virtuosismi barocchi e, poi, con le misurate levigatezze neoclassiche? Neppure l'Ottocento con la sua fiducia nell'andamento lineare e progressivo della storia aveva nulla da spartire con lui. Perciò bisognò attendere il secolo scorso per ritrovarlo a far capolino nelle storie dell'arte e nei panegirici di qualche teorico della nouvelle vague in vena di riscoprimenti salottieri. L'opera di Estirel è costituita da un numero indefinito di pietre scolpite minutamente e, presumibilmente, in successione. Ognuna di queste sculture è assolutamente identica alla precedente tranne che in un solo, insignificante, e a volte quasi invisibile, dettaglio. Avviene così che la prima scultura e, poniamo, la decima, differiscano tra loro in alcuni particolari, mentre la centesima conservi solo qualche similitudine, o nessuna, con quelle. Pare infatti che Estirel fosse interessato a cogliere e ad indagare il passaggio attraverso cui si verifica la mutazione definitiva che rende assolutamente diverse due opere tra loro. Questa, almeno, è la versione avvalorata dai pochi storici dell'arte che se ne sono occupati. Un particolare tuttavia confonde e rende quasi illeggibile questo schema: l'ultima pietra, scolpita da Estirel a novantatré anni, e la prima, che scolpì a quattordici, sono assolutamente uguali! Delle altre dodici pietre che conosciamo e che possiamo con certezza attribuirgli, nessuna, inoltre, è identica all'altra e, tuttavia, nessuna differisce dalle altre per un qualche insignificante dettaglio, bensì in maniera sostanziale. È vero, però, che tutte conservano come una misteriosa parentela, un'aria di famiglia che le apparenta e che non può venire banalmente ridotta a un mero fatto di stile. Ad ogni modo, e nonostante la scarsità di prove documentarie, lo storico Peter J. Steiler ha sostenuto ("Stones of Estirel", in "Oxford's revue of Arts" settembre 1898) che una sottile simmetria colleghi ed unisca tutta l'opera di Estirel: "È possibile azzardare l'ipotesi di un'assoluta simmetria nell'opera di quest'artista che, da un punto centrale s'irradia in una sorta d'uguaglianza parallela e bipolare delle sue sculture nel tempo. In altre parole: denominando x quest'opera centrale e considerando tutte le altre disposte in successione temporale prima e dopo questa io sostengo che le sculture (x-1) ed (x+1) siano identiche fra loro e appena diverse da x, così (x-2) ed (x+2), (x-3) ed (x+3) e così via sino a giungere ad (x-n) ed (x+n), che sono termini noti ed indicano la prima e l'ultima delle sculture estirelliane, ancora uguali ma del tutto diverse da x..." È inutile aggiungere che questa suggestiva ipotesi non potrà essere provata, almeno finché non conosceremo che una parte infima della sconfinata produzione di Estirel. |
[23jan2005] | |||
Riportiamo,
per concludere, quest'aneddoto (riportato dal professor G. Pertiles
che afferma di averlo trovato in un poco conosciuto manoscritto fiammingo
della fine del XVI sec.). Si dice che ad un giovane apprendista, il quale gli faceva notare l'identità delle sue opere estreme, Estirel avrebbe risposto così: "Può darsi che esse ti appaiano identiche, ma certo non è vero che esse appartengano ad uno stesso artefice, bensì a due diversi e nessuno di loro sono io. La prima l'ha scolpita un inesperto fanciullo di quattordici anni appena capace di usare lo scalpello, in un tempo e forse in un luogo troppo lontani per me; l'altra, neanche, mi appartiene. L'avrò forse scolpita qualora dovessi vivere tanto da esserne capace, ma questo, lo vedi tu stesso, è ormai improbabile." Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
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