La
grotta e il teschio |
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Quando un essere nuovo nasce, quando viene al mondo, che sa di se stesso? Nulla, eppure la vita gli sale alla testa... Georges Bataille |
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Quando
parla delle grotte di Lascaux nessuno storico sa bene di cosa sta parlando. Parla d'architettura? Di pittura? Di scultura? Di tutte queste cose insieme? O parla d'altro? Eppure la loro immagine campeggia all'inizio d'ogni storia dell'arte. È proprio da quel punto cieco che si comincia a parlare d'architettura, di pittura e di scultura. E che si comincia anche a parlar d'altro. A Lascaux l'inequivocabile confine che separa le arti non si è ancora prodotto. Non si tratta di una semplice sovrapposizione: è che nel loro stadio aurorale esse ci appaiono veramente indistinguibili, come fuse in unico amalgama e mostrano, in questa mescolanza, potenzialità che nel successivo processo di distinzione andranno completamente perdute. Niente di paragonabile a delle pareti affrescate, naturalmente. La forza che promana da queste immagini appena tracciate è tale da fare impallidire la Cappella Sistina. Nessun ambiente voltato possiede l'impressionante gesto protettivo di Lascaux, la sua particolarissima furia avvolgente, così poderosa da spegnere senza sforzo qualsiasi sensazione di moto, e perciò paradossalmente quieta e silenziosa: un furor pietrificato e immobile. Né si conoscono, infine, opere di scultura in grado di offrire un'immagine tridimensionale così ricca e cangiante, sensazioni tattili ugualmente intense e mutevoli, nessun rilievo, da allora, sarà più sfiorato dalla luce in maniera altrettanto sensuale. La cavità è invasa dalle escrescenze rocciose delle pareti e del soffitto, le cui sagome scultoree trascolorano in pittura; tutto travasa in tutto, mutandosi in una sola, grandiosa, esperienza spaziale che si rivela, oggi, a noi e, badate, a noi soltanto: quest'epifania ha atteso quindicimila anni perché agli stessi autori "l'opera" era ignota. Essi si muovevano tentoni, alla luce di una torcia, sovrapponendo tratti di colore, incidendo, tastando la pietra ed interpretandone asperità e movimenti, che di volta in volta assumevano forme e dimensioni di toro, cavallo, cervo. In questo ventre agivano muti, avvolti dal buio. Nessuna "concezione d'insieme" li ha mai sfiorati, neppure l'ombra di un progetto. Facevano in mezzo alle tenebre quello che, di volta in volta, andava fatto. Nessuna cornice, nessuno sfondo: il tratto arrivava fin dove la mano era toccata dal buio e se l'occhio o le dita sfioravano una forma, essa affiorava lentamente dalla parete e vi si disponeva assieme alle altre, in relazioni decise dal muto dialogare dell'ombra e della roccia, in quest'immobile atmosfera ipogea. Oggi, sotto il riflettore che illumina l'intera grotta, questi movimenti diventano "uno" e noi siamo di fronte ad "una" opera; tremenda perché viva e presente di là d'ogni intenzione. Temibile, infine, perché in essa, ce ne accorgiamo, non è solo la separazione tra le arti a divenire invisibile, ma anche quella tra arte e natura. La natura si fa artificio, l'artificio natura. Questo punto, in cui natura e artificio si sovrappongono e trascolorano l'uno nell'altro, è però, allo stesso tempo, il luogo della biforcazione: a partire da lì avremo natura ed avremo arte. Punto di distinzione e d'amalgama, cespite e rizoma nascosto nella terra, Lascaux è il luogo del puro bagliore dell'evento, la luce puntuale, indefinibile, da cui ogni definizione promana. Il punto più vicino al mistero della creazione che ci sia dato conoscere. L'ultimo, inattingibile, confine. Anche a Gerico, come a Lascaux, arte e natura s'incastrano: lo snodo che riuscirà, un giorno, ad unirle mantenendone intatta la rispettiva identità non è stato ancora inventato, e la prima si spalma sulla seconda come argilla, assumendone la forma. Qui non percepiamo ancora alcun'articolazione, osserviamo un ibrido, che appare arte, ma racchiude natura. La natura è l'osso: ciò che, invisibile, soggiace. L'arte è quello che tocchiamo e che vediamo. La natura è l'incoercibile altro, l'arte il tranquillizzante questo. Il volto di Gerico è invece questo ed altro. Lo spesso strato d'intonaco che copre il teschio, certamente, lo nasconde, ma nello stesso tempo lo rivela, adeguandosi ad esso in una sorta di parafrasi fedele. Non si tratta di una traduzione: il testo originale viene del tutto modificato, punto per punto, e tuttavia rimane il medesimo, la lingua in cui il teschio umano è "scritto" non è, ne può essere, quella in cui verrà "scritto" il volto, e tuttavia abbiamo a che fare, evidentemente, con lo stesso testo. Con la stessa testa. Questa scultura con l'osso, quest'opera vertebrata, ci mormora, osservandoci coi suoi occhi di conchiglia, che nulla è mai sufficientemente morto da poter essere definito "opera dell'uomo", ma anche che nulla, dacché l'uomo esiste, è mai sufficientemente vivo da potersi dire puramente "natura". Ci dice anche un'altra cosa, che questi minimi giocolieri iperattuali, attenti solo ai vernissage, farebbero bene ad imparare una volta per tutte: in questo gioco, signori, ne va della nostra vita. Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
[18sep2005] | |||