Un
convegno al Monte degli Ulivi |
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Foto di Graziella Grasso. |
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Andare
al villaggio di Monte degli Ulivi, per quanto non sia lontano da casa
mia, non è una passeggiata come un'altra. Ci vado sempre col
timore del neofita e con la sensazione di essere fuori luogo. Non per
la sua architettura, ma per la sua gente. Mi piacciono le persone che
ci stanno. Leggo nei loro occhi qualcosa che più passano i giorni
e più diventa raro perché è una delle forme della
bellezza. Quella bellezza che deriva da qualcosa che non ha nulla di
estetico, quella strana bellezza che balugina sempre dovunque ci sia
una briciola di verità. Cerco di percepire la presenza di questa
gente in mezzo agli architetti che oggi invadono il villaggio. Si muovono
con la scioltezza di chi non è in visita ad un luogo, ma lo abita.
Gli architetti sono tutti lì, visibili, ingombranti, pesanti,
loro, invece, ci sono e non ci sono. È stupendo come sanno sparire.
Li vedo a cena e non li vedo più. Eppure sono in parecchi. Spariscono.
Con la medesima eleganza con la quale appaiono. Io invece mi muovo tra
quelle pietre come un elefante, e sento di offenderle perché
so di essere un turista. I turisti sono sempre orridi, soprattutto quando
s'immaginano di non esserlo (architetti, storici e critici d'arte e
d'architettura sono specialisti in questa specie di turismo surrettizio.
Magari qualcuno gli chiede e loro dicono "sono qui per ragioni
di studio". Non sanno essere autentici neppure nell'inautenticità.
Fanno sempre finta). Arrivo che è quasi sera, il convegno sta per cominciare. Prima di me, stasera, ci saranno due interventi seri, da parte di due note storiche dell'architettura, poi io, per svagare un pochino le persone, e infine un altro intervento serio di un giovanissimo e bravissimo critico. Alla fine, però, pur facendo da intervallo non sono certo riuscito a divertire i convenuti, il mio intervento è stato, come sempre, breve, impacciato, confuso, digressivo. Non riesco a tenermi al tema, e oramai non mi faccio più illusioni: non credo che riuscirò più a vincere il sottile disagio che provo nel parlare in pubblico (e, per la verità, a parlare in generale). Mi giustifico in qualche modo affermando che non sono uno storico dell'architettura e che, quel che ho da dire di Leonardo Ricci e delle sue architetture siciliane, in fondo l'ho già detto nelle poche righe che ho scritto su di lui. Immagino di aver chiarito a chi mi sta a sentire che non sono altro che un flaneur dell'architettura ma, evidentemente, non è così. Alla fine mi si avvicina uno dei convitati che non conosco e non mi conosce (o saprebbe che non sono professore) che, evidentemente, vuol fare lo spiritoso e mi dice "ah! Ecco er professor Rosa... ma 'sti professori ce fanno sempre 'na lezione". Che mi si possa prendere per un professore è l'ultima delle cose che mi sarebbero potute venire in mente, ma nella vita non si finisce mai di imparare. Naturalmente scoprirò poi che il professore è lui. È soddisfatto della sua trovata e si dondola come il babbo natale della salumeria, con quell'aria che, in Italia, possiedono solo i provenienti dalla capitale. Una specie di spocchia greve e annoiata di se stessa attraverso cui ti parlano come se da un momento all'altro stessero per dirti qualcosa di fondamentale che, tuttavia, non dicono mai. L'aura propria degli insediati intorno al Tevere oramai consiste in questo mortificante alone che loro vorrebbero luminoso ma che da un pezzo si alimenta solo a furia di cerini. Li vedi da lontano e, nella tua mente, i morti e i vivi si schierano in unica legione. Aldo Fabrizi, Alberto Sordi e sora Lella al fianco di Carlo Verdone, Christian De Sica ed er Monnezza tutti sparati via dal cannone del Gianicolo. M'intristisco. Per fortuna siamo a cena e non è obbligatorio intavolare il dibattito. Siedo tra l'amico che ha organizzato il convegno e un fotografo, uno tra i migliori, pare. Parlare con loro, grazie al cielo, è gradevole. Col primo giochiamo da tempo a scambiarci minuscoli doni etimologici, ma lui è molto più bravo di me e mi sorprende sempre con piccole chicche linguistiche (contrariamente a me era bravo, da piccolo, in greco e in latino) che conservo sempre in saccoccia, non si sa mai. Il fotografo l'ho conosciuto adesso, però ci sono due cose che mi piacciono subito in lui: i suoi baffi ed i gesti con cui accompagna le parole, ambedue le cose hanno una specie di grazia rurale che ricordo solo in qualche vecchio contadino. Anche il modo in cui sbuccia i mandarini e li mangia. Mio nonno li mangiava così. Deve essere religioso. Mi fa pensare a Flannery O'Connor, la grande scrittrice cattolica che, a tavola, infastidita dai discorsi "progressisti" di alcuni correligionari esclama: "Ma se l'eucaristia è solo un simbolo allora che vada al diavolo". È per questo che mi piacciono i cattolici veri (non quella pletora di conformisti bigotti da parrocchia che pullulano in giro): riconosco in loro me stesso. Ma con una profondissima venatura d'ateismo che a me, probabilmente, manca. Chissà, forse, se riuscissi ad essere davvero ateo fino in fondo, credo che diventerei cattolico. Oppure no, magari è solo che io sono ateo ma non mi chiedo continuamente perché diavolo lo sono, mentre un cattolico invece se lo chiede ogni giorno. Dice una cosa che m'incuriosisce: lega il senso del paesaggio alla religione, gli chiedo perché, me lo spiega, annuisco. Loos, in fondo, sosteneva la stessa cosa. Il giorno dopo due signore della televisione (una della Rai ed una di Mediaset, per par condicio suppongo) ci mostrano alcuni filmati sull'architettura girati da loro e ci spiegano, in brevi e concise parole, qual è il senso vero dell'architettura e della città iperattuale. Mi tremano le gambe dalla paura. È come se vedessi un film dell'orrore, eppure mi sembra che tutti siano tranquilli. In me deve esserci qualcosa che non funziona. Due donne molto belle, una bionda e una bruna, intelligentissime, coltissime. Una dopo l'altra incedono attraverso le parole con una grazia che incanta, si vede che sono due abituate alle riunioni con quelli che se non fai vedere quello che vali e che gli conviene tenerti, ti cacciano via senza troppe storie. Poco prima, parlando del più e del meno, m'è successo, con una delle due, quella bionda, di citare una vecchia canzone di Caterina Caselli che s'intitola "Insieme a te non ci sto più": ho visto un lampo di tenerezza attraversarle gli occhi. Di questo quando parla non c'è traccia, e non c'è n'è traccia neppure nei documentari che gira. Mi chiedo perché. Mi spaventano i loro argomenti, mi spaventano le loro citazioni: Foucault, una, Derrida, l'altra. Non in se stesse; sono citazioni banali. Qualunque gazzettiere, ormai, è perfettamente in grado di citare questo e molto altro ancora (Heidegger, Wittgenstein, Dionigi Areopagita, Meister Eckhart... figuriamoci, non s'indietreggia più di fronte a nulla, l'erudizione incalza). Ma è la maniera in cui vengono usate che risulta inquietante. La signora bruna che cita Derrida lo fa per sostenere, sorridendo felice, che il video è uno strumento di alfabetizzazione magnifico e incomparabilmente superiore alla scrittura. Naturalmente a Derrida non è mai passato per la testa di sostenere una cosa del genere con lo spensierato ottimismo con cui lo fa lei. Tuttavia non è nemmeno questo il punto. Il punto è che questa bella, intelligente, colta signora cita Derrida nella stessa identica maniera in cui avrebbe potuto citare, indifferentemente, Sant'Agostino oppure Maurizio Gasparri. E se la signora avesse chiesto (in una delle mirabili interviste che ci mostra, dove Isozaki, Rogers e Fuksas stanno messi in fila come le santine intorno all'edicoletta votiva) all'onorevole Vito Schifani perché mai ha improvvisamente deciso di mettersi lo svidol sotto il riporto e farlo scivolare via, l'onorevole gli avrebbe risposto dicendogli esattamente le stesse parole: perché, cara signora, se fossi apparso in video altre sei volte con il riporto attaccato alla faccia non avrei più trovato un cazzo d'elettore disposto a votarmi. E sa perché, gentile signora? Perché, come diceva Derrida, il video è uno strumento d'alfabetizzazione delle masse mille volte più potente della carta stampata. O no? Derrida. La spalla sinistra ricomincia a farmi male, è questa maledetta cosa che mi perseguita ormai da un anno, mi ammazzo di pillole e non se ne va. Nei documentari delle signore il montaggio è fatto in modo da non lasciare spazio al pensiero: non si vede niente, ogni cosa è solo "percepita", le immagini si susseguono come i riflessi stroboscopici di una discoteca, il montaggio è senza respiro e la musica, quando c'è, non è da meno. Tutto è glamour, ha un budget e un target, gioca tra lowbrow ed highbrow, sta lì sempre nel cuore palpitante delle cose, nei bit e nei chip. Ed ho pure mal di testa, cazzo. È così che si fa, spiegano le signore: per questo, racconta la bruna, Shangai col suo coprifuoco serale per via dell'energia che scarseggia e la sua cappa d'inquinamento è così affascinante, affascinante come Beirut, dove l'interessantissimo architetto (anche lui candidato superstar) ha costruito una discoteca in un luogo dove fino a ieri ci si scannava alla grande. Forse, e sorride, sotto la discoteca si stanno pure i morti. Che farci, è la vita che pulsa. Mi chiedo perché mai gli architetti che ha intervistato, escludendo Fuksas che forse è perfino più brutto di me, sono tutti bellocci o comunque sottilmente fascinosi. E poi c'è la mia quotidiana dose di quell'altra maledetta medicina che devo prendere sempre e senza la quale non so bene che mi succederebbe (chissà, magari riuscirei pure a sopravvivere per qualche tempo... dovrei chiederlo al mio medico... mi diverte immaginarmi in situazioni di guerra e in assenza di rifornimenti: io sarei tra i primi a crepare, ma vi sembra un primato da poco? Se non sono per la globalizzazione io...). Ecco, se la vedo da questo punto di vista, la cosa mi appare meno seccante. Perché tutto mi riporta alla stramba concretezza del mio poco esistere. Una specie di concretezza in levare. Quasi quasi me la svigno. Però ci sono due amici che devono parlare e vorrei sentirli. Il secondo dichiara che lui si pone nel solco di De Sanctis e di Benedetto Croce. Dio lo benedica. Io che invece sono cattivo detesto Benedetto Croce. Questo professore napoletano che s'è ingattato per bene durante il fascismo a fare le fusa con tantissima dignità, mentre ad altri toccava l'esilio, il carcere o il confino. Ma non lo detesto per questo. Lo detesto piuttosto perché in lui vedo il responsabile di quella prosopopea verbosa e professorale che sta attaccata alla cultura italiana del Novecento come una mignatta. E lo detesto perchè scriveva come un cane. Non scambierei due pagine scritte da Elena Croce (che dappertutto è indicata come "la figlia del grande filosofo") con tutta la sua tronfia scrittura. E lo detesto, ancora, perché in opere considerate capitali scrive stronzate come questa: "le donne... esseri sommamente affettivi e pratici, che, come sogliono leggere i libri di poesia sottolineando tutto ciò che consuona con le proprie avventure e disavventure sentimentali, così si trovano sempre a loro agio quando sono invitate a vuotare le loro anime; né della mancanza di stile si danno troppo pensiero, perché, com'è stato detto argutamente: "Le style, ce n'est pas la femme". Se solo avesse avuto l'umiltà necessaria a non essere quello che era non gli sarebbe stato difficile capire che tre righe di Jane Austen o due versi di Emily Dickinson avrebbero dovuto fargli passare per sempre la voglia di scrivere come scriveva. E lo detesto, infine, perché due pagine dopo, invece di cadere in ginocchio di fronte ad uno scrittore d'innocenza e di purezza incomparabilmente superiori alle sue si permette quest'infida canagliata: "E sebbene Oscar Wilde abbia protestato contro l'aggettivo "morboso" applicato al sostantivo "arte", la qualità del protestante convalida l'opportunità dell'aggettivo." Questo bacchettone che è stato, rimane e rimarrà il faro dei "moderati" d'ogni categoria e specie, la reginetta di quell'accolita di cialtroni che la politica mantiene caldi caldi nella bambagia e che portano al figlioletto le pasterelle, mentre chi di dovere fa fuori ebrei, rossi, anarchici e garrusi e poi si lavano la coscienza come si lava una camicia sporca con la scusa che "dall'altra parte c'erano i comunisti" e che "comunque loro non si sono compromessi". Il luminoso modello d'ogni italiano che si rispetti. Perciò me ne vado prima della fine. Me ne vado per la mia spalla, me ne vado per il mio mal di testa, perché ho un po' di strada da fare e voglio farla mentre tramonta, me ne vado perché ho voglia della mia camera, dei miei libri, e anche (adesso che si avvicina il Natale) di ascoltare in auto, Judy Garland che canta "Have yourself a merry little christmas", me ne vado perché la mia terra è una gran troia ma a quest'ora precisa, in questa precisa stagione e tra queste colline, si racconta come se fosse una fata. E me ne vado, infine, perché ho paura che poi mi chiamino a parlare e perché, magari, finirei per dire cose spiacevoli e per dirle male. E non voglio dirle, né male né bene. Perché sono uno che non riflette abbastanza, che si lascia incantare dai bagliori e quello che mi rimane in testa alla fine, chissà perché, è la nuvola di tenerezza che è passata negli occhi della donna bionda, quando si è ricordata di quella vecchia canzone: "che bella che era... ma sai che l'ha rifatta Battiato?". Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
[12dec2005] | |||