Natale (forse... ora... questo...) |
||||
"Ciò che non ha termine non ha figura alcuna" Leonardo Da Vinci Natività Ancora tace il mistero del lume, ed il buio si attarda sulla soglia di questo posto angusto e di confine dove si smorza il suono ed il colore. Scende dai monti il cielo, lentamente, al fianco del bandito e del pastore, col volo largo dell'aquila reale e con l'ansia veloce della lepre. Alla finestra s'è appoggiata un'ombra che ne sfiora la lastra con le dita. La vacca aspetta, aspetta l'asinello. Cornelius Lathbury |
||||
Mi
è sempre piaciuto il Natale. Parlo proprio di Ebenezer Scrooge, della "La vita è meravigliosa" di Frank Capra, di "I'll be home for Christmas" e di Rudolph la renna dal naso rosso. Ho creduto ciecamente a Babbo Natale e solo tardivamente ho smesso di farlo; non senza traumi, per altro (e sempre che, beninteso, io abbia effettivamente smesso di crederci). Dalle mie parti però, quand'ero piccolo, l'albero di Natale non lo faceva nessuno. Il presepe dominava incontrastato, e non per scelta (come può succedere anche oggi, ragion per cui il presepe, dato che lo puoi "scegliere" non vuol più dire nulla) ma, al contrario, proprio perché scelta non ce n'era. Natale e il presepe coincidevano perfettamente. Così il Natale, che adoravo con piglio celtico, da perfetto pagano, s'innestava come un puntale di cristalli luminosi su quell'altro natale che invece mi raccontava della nascita di un dio. La luce inebriante di quello scivolava su questo proprio come l'alone del puntale scivola sull'albero. Era una gioia che planava lieve e canora come un passero e atterrava sempre su qualcosa di silenzioso e di soffice. Prima di tutto c'era il rito della preparazione del presepe, che era appannaggio degli uomini (nel frattempo le donne facevano i buccellati: quelli di fichi e quelli di mandorle, che si conservavano e si consumavano durante tutto il periodo natalizio e anche oltre). Io stavo a guardare e quando era finito salivo sopra una sedia per vederlo meglio. L'osservavo tenendo la testa diritta e, successivamente, inclinandola a destra e a sinistra. Poi da lontanissimo (per quello che mi permettevano le pareti della stanza) e, infine, da vicinissimo. Lo annusavo. Sapeva di muschio e di vernice, e anche un po' di muffa. Lo abitavo ogni giorno. Ma solo fino a quando la piccola culla dentro la mangiatoia (o la grotta) rimaneva vuota. Non appena si riempiva per me era finita. Quell'ingombrante presenza in mezzo alla casa cominciava ad infastidirmi. Gesù bambino arrivava (a mezzanotte in punto, la notte di Natale) ed io sloggiavo. Mi rendo conto di dire una cosa che magari ad un credente potrebbe perfino apparire blasfema, ma le cose stanno così e non posso farci nulla. C'erano ancora i due terzi delle vacanze, c'era da godersi i regali e c'erano un mucchio di serate da trascorrere giocando a carte insieme ai miei cugini... ciò che mi veniva a mancare non era, dunque, la festa. Era l'attesa e, con essa, il Natale. Ne rimaneva soltanto l'odore, che avrebbe aleggiato ancora per qualche giorno tra il soggiorno e la cucina. Quello che m'incantava, nel presepe, era allora proprio quella specie di sospensione. In essa in mi pareva di cogliere qualcosa che normalmente sfugge via e non si lascia osservare. Vedevo riflessa nel presepe l'essenza distillata della vita d'ogni giorno, ma come sfolgorante di una luce imprevista e sconosciuta. Nel presepe incontravo la mia vita quotidiana e la sentivo parlare. Sotto i miei occhi non c'era nulla ed era più di quanto potessi concepire. "Stava" per accadere qualcosa, anzi qualcosa accadeva proprio in quella sospensione. In una piccola mangiatoia si rifletteva la luce dell'universo con tutti i suoi pianeti ma, lì accanto, la lavandaia stendeva i panni e il ciabattino batteva le sue suole. Il presepe non mi diceva altro che questo: vedi? Non sta accedendo nulla che non ti accada ogni giorno. Ma me lo raccontava come si racconta una fiaba. Lasciava così emergere in tutta la sua fragranza l'accadere semplicissimo dello straordinario nell'assolutamente ordinario. Tutto vi risplendeva d'intimità così che, per quanto ogni cosa si svolgesse all'aperto, esso mi appariva come l'epifania della dimora. Che un dio stesse per nascere nella quotidianità, che egli stesse per prendere dimora non nella Casa del Dio, non nel Tempio, ma qui dove lavorano il fabbro e il falegname, e dove il pastore ritorna col suo gregge, che stesse per rinunciare al suo essere Dio, tutto questo faceva sì che il mondo (alberi, rocce e pietre) nell'attesa divenisse dimora: allora dimorare acquistava il suo senso. Non so bene se fu allora che io cominciai ad immaginarmi dimore, ma quello che so è che l'attesa di un dio che nella sua piccolezza e nella sua debolezza doveva essere accolto e accudito, di un dio che chiedeva ospitalità mi faceva dono del senso dell'abitare. La parola presepe viene dal latino praesepium, "greppia", che a sua volta è parola composta da prae, "davanti", e da saepire che è "cingere con una siepe". Non è una recinzione di pietra, quella del presepe ma la tenue separazione della siepe. Dal presepe alla nostra vita d'ogni giorno non esiste in realtà che quell'esiguo confine. È dunque la nostra stessa vita, nel presepe, che ci sta di fronte. Solo, cintata da una piccola siepe. Noi possiamo abbracciarla con lo sguardo. La sua piccolezza è importante, per questo i presepi a scala umana falliscono. Ciò che conta è cogliere con uno sguardo la nostra stessa vita e trovarci per un attimo in una condizione che è, insieme, quella dell'aquila e quella del bambino. Con ali d'aquila ed occhi di bambino, tu acquisti una specie di percezione angelica del tutto indifferente ai rapporti scalari. Nei presepi comuni (che sono gli unici veri presepi, perchè i cosiddetti "presepi d'arte" per quanto perfetti restano rappresentazioni scenografiche del tutto impertinenti) c'è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la veduta e, in particolare, con la veduta prospettica. La casa vicina può essere molto più piccola del pastore lontano e la gallina che razzola nell'aia, più grande del cammello che s'accosta alla mangiatoia. In passato i pezzi del presepe si accumulavano nel corso della vita di più di una generazione, pezzi di gesso e fil di ferro che avevano attraversato due guerre e che mostravano le loro ferite si accostavano ad altri, nuovi e già di produzione industriale, dai contorni netti e perfettamente levigati e dai colori vivissimi. Il muschio raccolto in campagna era utilizzato insieme alla bambagia, che era la neve; carta stagnola e pezzetti di specchio si combinavano nel lago sulle cui rive pescava un pescatore la cui canna da pesca poteva senz'altro sopravanzare lo stagno in lunghezza. Ma, da bambino, mi sono perso mille e mille volte tra quelle rive. Pochi giorni fa ho ripreso tra le mani un libro che, qualche anno addietro, mi ha regalato un amico. Questo libro contiene il disegno che vedete. È un disegno di Giovanni Michelucci. Risale a qualche giorno prima della sua morte, è forse il suo ultimo disegno ed è dedicato al Natale. C'è un albero senza foglie, in alto a sinistra. Uno strano albero che tende i rami secchi verso il cielo. Un albero fiammeggiante e sotto di esso una gran porta si apre in un muro ciclopico. La porta è divisa da una linea grossomodo centrale. Questa linea è ambigua: non riusciamo a capire se si tratta di un ricorso del muro che prosegue, come un architrave divisorio, nel vano della porta dividendola in due porzioni di cui una inquadra il cielo (dove, proprio adesso volano forse due uccelli) e l'altra la terra, oppure se essa non è altro che l'orizzonte, lontano, dove le colline s'impastano e si sovrappongono in linee trasparenti. Inquadrate dal vano della porta due figure: entrano? escono? Non lo sappiamo e non c'importa... come sospese sulla soglia, esse rimarcano il passaggio, l'atto del passare attraverso. Tutta la parte destra del disegno è occupata da una grande albero o perlomeno da qualcosa che sarebbe difficile interpretare a spiegarsi se non come un albero. Ma, ce n'accorgiamo subito, non è un albero che ha consistenza vegetale. Cos'è, per esempio, quello strano vuoto sul margine destro, proprio al centro del disegno, su cui sono disposti quattro conci, come una piattabanda su un'apertura e, ancora più su, quella strana forma vagamente triangolare che quasi ci ricorda la Porta dei Leoni a Micene? In realtà è un muro che si sta trasformando in albero sotto i nostri occhi. Eppure quest'albero-roccia-muro, pur con tutta la sua massiccia corporeità e pur trovandosi in primissimo piano, possiede delle strane imprecisioni che non ci spieghiamo. Esso sembra mutare in albero al prezzo di uno sforzo enorme, che riusciamo a percepire e, quasi, a toccare. Un albero costruito faticosamente e con le mani, un albero che lotta con la gravità e che il vento non soccorre. Un albero inusitatamente tettonico. Sembra che con quest'incantesimo estremo Michelucci abbia voluto mutare in albero l'architettura stessa affinché rimanga ancora con lui, il cui tempo è ormai così breve, sulla soglia. Non chiesero a Zeus, Filemone e Bauci, per rimanere insieme, che il dio li mutasse in tiglio e in quercia? Albero e muro, così, rimangono tanto intimamente intrecciati, al punto che non possiamo più distinguere tra l'uno e l'altro. Nell'albero si aprono dei varchi, al cui contorno si solidificano architravi e piattabande, mentre il muro si sgrana in fogliame. Alla fine albero e muro sono una cosa sola. Questa solidificazione del vegetale, o questa desquamazione del tettonico è quello che per tutta la vita Michelucci ha perseguito, ma in quest'ultimo disegno mi sembrava ci fosse qualcosa di non dichiarato. Qualcosa che aleggiava su tutto come un sorriso. Un sorriso ormai fuori del tempo, così come accade nei quattro ultimi lieder di Richard Strauss: un gesto estremo di saluto e, insieme, il sigillo del proprio artigianato. Così sono stato a guardarlo a lungo. Aspettavo, come ultimamente mi capita sempre più spesso e come mi capitava un tempo davanti al mio presepe. Tenevo il disegno sotto gli occhi, la mano sulla guancia e la testa leggermente inclinata. Così ho notato qualcosa che prima mi era sfuggita: proprio nel centro del disegno, al suo margine destro. Ho girato il disegno di novanta gradi verso destra e l'ho guardato di nuovo. Ed ho visto ciò che altrimenti non avrei potuto scorgere. Il disegno dettagliato di una mangiatoia. Il solido arco in primo piano, la greppia sul fondo. In alto, fiammeggiante, una cometa che la sovrasta e si flette e si torce nella sua direzione. Ma la greppia è vuota. La vita, questa vita quotidiana che continua solo perché finisce, trova proprio nell'attesa la sua definizione. Ed un uomo che non può più pretendere un futuro lo sa, sospetto, meglio di chiunque altro. Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
[24dec2005] | |||