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L'atto
del ricordare è spesso associato al movimento del ritorno:
"Tornare con la memoria" o "tornare col ricordo",
si dice, e si assegna così alla memoria un percorso d'avvicinamento
che finirebbe sempre per ricondurci a ciò da cui c'eravamo
allontanati. S'immagina che, ricordando, ci s'incammini sempre sulla
strada del ritorno: "I'm going home" sembra sussurrare
chi ricorda.
In realtà se è vero che, in qualche modo, ricordando,
noi ritorniamo all'oggetto del nostro ricordo è ugualmente
vero che, nel tempo, non cessiamo mai di allontanarcene.
Ciò che ricordo continua ad allontanarsi nel momento stesso
in cui lo ricordo e rimane, di fatto, irraggiungibile. Svanisce continuamente,
si perde all'orizzonte.
Tornare, ricordare, non è raggiungere qualcosa da cui un tempo
ci siamo allontanati, dunque, ma continuare ad allontanarci da essa
pur in questo attuale, apparente, accostarci.
È proprio questo il gioco del tempo: un gioco che in realtà
non consente il ritorno se non come metafora. Un gioco la cui sola
regola è un continuo allontanarsi.
Ci allontaniamo, nel tempo, da quello che noi stessi eravamo ieri
e che siamo oggi.
Abbandoniamo le cose alla loro deriva, e da ogni cosa siamo continuamente
abbandonati alla nostra.
Il ritorno comporta sempre una decisione, un taglio appunto (da caedo,
tagliare) la volontà di imporre una soluzione di continuità
ed un'inversione alla trama del tempo. Decisione continuamente giocata
perché nell'attimo stesso in cui decidiamo per il ritorno noi
ci stiamo già allontanando dal nostro stesso decidere.
Ogni ritorno è un allontanamento e un'avventura, ogni saluto
è un addio.
Tuttavia, così come a nessun luogo noi possiamo fare semplicemente
ritorno, nessun viaggio è un mero allontanarsi, ma trae senso
dalla forma gravitazionale del ritorno. Senza questa forza di gravità
saremmo condannati ad una sospensione priva di consistenza, ad un
limbo senza alcun paesaggio. Come scrive Vladimir Jankelevitch: "In
che modo la Hormé (lo slancio ascensionale) potrebbe
trovare nel vuoto le prese e il sostegno di cui ha bisogno per involarsi
fino al cielo?". L'allontanarsi, dunque, tiene in sé il
ritorno come una perla, mentre, d'altra parte, ogni ritorno rimane
(dolorosamente, segretamente...) un allontanarsi.
Ritorno e allontanamento si conferiscono, reciprocamente, senso e
realtà, si muovono l'uno nell'orizzonte dell'altro. Tornare
allontanandosi e allontanarsi tornando, in questo consiste la danza
della memoria.
Nel corso della nostra vita questa minuscola crepa temporale rimane,
per lo più, invisibile. Partiamo, torniamo... i nostri viaggi
ci appaiono canonici.
Ricordiamo, dimentichiamo... la nostra vita trascura i paradossi temporali
e sembra procedere in linea retta.
Però, talvolta, accade che costeggiando la crepa, senza volerlo,
veniamo sfiorati dalla brezza che ne promana. L'alito della memoria,
allora, ci accarezza e noi rabbrividiamo.
Non è un brivido di paura, piuttosto un piccolo smarrimento
malinconico che, in mancanza d'altre parole, definiamo nostalgia.
Nella nostalgia viviamo questo piccolo paradosso, ineliminabile dal
nostro viaggio esistenziale, questo desiderio struggente, perché
inappagabile, di "finalmente" tornare mentre sappiamo che
non si dà ritorno se non allontanandosi.
Nostalgia (da nostos, che vuol dire ritorno, ed algos,
dolore) è proprio il luogo in cui il ricordo giunge alla dolorosa
consapevolezza di una lontananza incolmabile.
Il ricordo, che pure, come abbiamo notato, è una delle modalità
del ritorno (re-cordis!) si trova qui di fronte all'impossibilità
di "tornare".
Ciò lo allontana dal suo oggetto e, impercettibilmente, lo
porta a non coincidere più neppure con se stesso.
Il ricordo che torna al luogo o al tempo passato, in realtà,
se n'allontana e, così facendo, inscrive proprio dentro il
suo movimento (che sembrava di ritorno) la cifra della lontananza.
La memoria si trova perciò, nella nostalgia, posta di fronte
ad uno specchio che le rivela se stessa come impossibilità
e assenza.
Per questo torniamo sempre all'ombra della lontananza e, per questo,
il ritorno è solo una delle forme dell'allontanamento.
Attraverso la memoria non ci accostiamo che allontanandoci continuamente.
Ogni passo che facciamo, così, ci porta più lontano
dal passato e il gesto del ritorno non è nient'altro che il
gesto d'addio che danziamo, allontanandoci. Ed ecco che nella nostalgia
diveniamo quasi consapevoli di questo movimento paradossale con cui
noi stessi ci veniamo a mancare.
***
Nel suo libro sulla
vita di corte dell'antico Giappone (Il mondo di Genji, il principe
splendente) Ivan Morris ci descrive il senso di un'intraducibile
parola giapponese, questa parola è aware. Cita dapprima
Hisamatsu Senichi: "Lo spirito dell'aware pervade la
letteratura Heian. Si manifesta nei sentimenti che ci ispira una lucente
mattina di primavera, ma anche nella tristezza che ci sopraffà
in una sera d'autunno. Il suo significato primario, comunque, è
una delicata malinconia, che può diventare una vera sofferenza."
Poi aggiunge: "Nella Storia di Genji -il libro di Murasaki
cui il testo di Morris è dedicato- viene usata normalmente
per esprimere il pathos insito nella bellezza del mondo esterno, bellezza
ineluttabilmente destinata a svanire insieme con chi la osserva...
aware non perse mai, infine, il suo semplice valore interiettivo
di "Ah!"... Ogni episodio della Storia di Genji raggiunge
il suo culmine emotivo in questo intreccio di godimento estetico e
sofferenza. E così, quando Genji va di notte a trovare in convento
l'ex imperatore Reizei, e i due gentiluomini seduti nella veranda
discorrono nostalgicamente dei vecchi tempi e delle persone ormai
da tanto scomparse mentre un cortigiano suona il flauto accompagnato
dai grilli fra i pini e la scena è illuminata dalla luna, il
senso di mono no aware è quasi insopportabile".
La parola aware (che forse non è molto lontana da
ciò che in portoghese si definisce saudade...) descrive
perfettamente il movimento del ricordo che, tornando, si allontana.
Nel "Paesaggio fluviale" di Chu Tan questo movimento è
danzato con una grazia inimitabile.
Il nostro sguardo galleggia attraverso il dipinto lungo un percorso
ondulato che, dagli uomini che conversano sulla riva in primo piano
a sinistra, ci conduce alla cascata a destra, agli altri due conversatori
sulle barche al centro e, sulle ali di un piccolo stormo di uccelli,
ai pescatori e ai monti lontani di nuovo a sinistra per riportarci
infine a destra, alla casa ed al picco lontano.
E dai due conversatori in basso che il ricordo si fa strada per tornare
a casa, in quella dimora che appare tra i monti e che tuttavia rimane,
nello stesso tempo, irraggiungibile.
È lì che il ricordo ci vuole, lì nella pura lontananza.
È lì che siamo chiamati e che vogliamo e dobbiamo tornare,
pur sapendo che il nostro viaggio non avrà mai conclusione
e che la lontananza rimarrà tale.
Negli stessi anni, forse negli stessi giorni, in Italia, Giorgione
dipingeva La tempesta.
Anche qui lo sguardo si allontana verso qualcosa di lontano ed inafferrabile,
verso un bagliore che si fa strada tra le nuvole, ed anche qui ondeggia
tra i due lati del quadro zigzagando come il fulmine verso cui si
dirige.
Anche qui si fa largo la nostalgia di una dimora e questa dimora (che
è stata di tutti noi) ci è vicina, a tal punto che possiamo
vederla e toccarla. Ma per quanto ci sia vicina essa rimane inarrivabile.
Qui nessuno conversa, se non con gli occhi: la donna ci guarda, ma
questo non la rende meno irraggiungibile, e se l'uomo che la guarda
scavalcasse il torrente con un passo e la toccasse ella non gli sarebbe
più vicina. La sua distanza non possiamo misurarla in centimetri:
rimarrà incolmabile, per quanto ci si diriga verso di lei.
Tornarci non ci sarà mai concesso: c'incammineremo sempre,
è vero, ma non torneremo a quel seno, così come non
faremo mai ritorno alla piccola casa sulla rupe, da cui Chu tan ci
sorride, vicino eppure lontanissimo.
Ugo Rosa
u.rosa@awn.it
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[06feb2006]
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