Uta (Coro della cattedrale di Naumburg, 1260 c.ca) |
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"Il contrasto tra estate e inverno era più netto... così come quello tra la luce e il buio, tra il silenzio ed il rumore. La città moderna non conosce più il buio assoluto e il silenzio assoluto, l'effetto di un singolo lumicino o di una singola voce lontana" J. Huizinga, L'autunno del medioevo |
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La
prima volta l'ho vista sfogliando un piccolo libro di Gombrich. Uta, affiancata al suo uomo e più lontana di una stella. Lui che appoggiandosi allo scudo, gli conferisce qualcosa d'inevitabile: quasi fosse un'escrescenza delle sue stesse ossa che assieme alla spada fa sì che egli non s'accasci al terreno. Lei che non si appoggia a niente e quasi scompare in un gesto che non dice di guerra o di dominio, quanto piuttosto della volontà di allontanarsene, di farsi da parte, di non rispondere alla voce di quel destino che, pure (è evidente) la sta chiamando. L'uomo è qui, presente a se stesso e alla storia, Uta non c'è; non c'è il suo sguardo, perduto verso un orizzonte che neppure riusciamo ad intuire, non c'è il suo corpo, ritratto in quel mantello infinito che lascia apparire soltanto una mano, un lembo di spalla ed il viso. Ogni parte che appare è ornata da un oggetto prezioso, ed è questo che sembra conferirle quell'effettualità che in realtà le manca: un anello, un fermaglio, una corona. Sposa e regina: pare. Ma Uta non ci si rivela così. Si manifesta invece, se lo fa, nel gesto autunnale del ritrarsi. Dolorosamente lontana perfino da se stessa lei è, per me, la strana metafora della sola architettura degna di questo nome: quella che non è metafora di niente. Da ragazzo c'era qualcosa che mi sbalordiva sempre. Guardavo una bambina con i capelli lunghissimi e neri, storpiata dalla poliomielite che si trascinava penosamente dalla porta del panificio fino a quella di casa, poi guardavo le case, la chiesa e l'acciottolato, guardavo il palazzo barocco, opulento e magnifico, indifferente. Mi indignava che nulla, nessun dolore, nessuna pena riuscisse ad incidersi sull'architettura, che nulla la coinvolgesse, che ogni evento le scivolasse addosso come pioggia. La compassione, che rende tali la poesia, la pittura, la scultura, la musica, in architettura, infatti, non ha corso. Più tardi, quando ho conosciuto gli architetti e le loro miserie (che non sono sostanzialmente diverse da quelle altrui, ma involgarite dalla dimestichezza quotidiana col potere, dalla dipendenza assoluta da questo, dalla necessità vitale di procacciarsene il favore ogni giorno che passa) mi sono reso conto che quest'assenza di compassione è la sola cosa che permette all'architettura di non andare in frantumi. Che è quest'impassibilità, in fondo, a renderla esattamente ciò che è, a far sì che essa ci comprenda, sempre, mettendo noi, invece, nell'impossibilità di comprenderla. Così l'architettura ci tiene grandiosamente, e forse pietosamente, in scacco. Credo di averla odiata, in qualche punto della mia anima, per quest'algida indifferenza, prima di capire che è così che essa ci aiuta a sopravvivere. Le costruzioni degli iperattuali mi appaiono compiutamente idiote per ragioni che, probabilmente, esulano perfino dalle loro caratteristiche estetiche (che pure trovo, il più delle volte, francamente detestabili). Mi sembrano insopportabili perché mi è impossibile rimetterle a se stesse come invece faccio con le cose nel mondo, come ho fatto con Uta. Sembra impensabile che ci si possa passare accanto senza imbracciare la macchina fotografica come un'arma (di difesa o d'offesa, non saprei). |
[20may2006] | |||
Nessuna
di queste costruzioni, in altri termini, si esime da quella ipocrisia
insulsa che, priva del coraggio, della ferocia, della dignità
e della capacità di pensarle come architetture, le vuole adesso
oggetti "espressivi". Espressivi di cosa? dell'"Interiorità" dell'autore? delle sue "Idee"? del suo "Pensiero"? del suo "Modo di vedere"? Quella forma di dominio trans-figurante che pretende loro ad immagine dell'uomo o della natura e l'uomo e la natura a loro immagine, in un continuo rimando metaforico che rende ogni cosa qualcos'altro e gli fa perdere, in questo incarognirsi nel travestimento, ogni possibilità di rimanere in sé. Un grattacielo si fingerà canyon, un museo farà finta d'essere una collina e una tettoia imiterà lo scheletro di un dinosauro, la casa mimerà la frana e la valanga perché "viviamo in un mondo complesso e pluralista". Leggo da qualche parte questo delizioso ritratto: "...è architetto ma anche ingegnere, pittore e scultore, è uno dei progettisti più conosciuti al mondo. Ha realizzato 40 ponti e otto stazioni ferroviarie oltre che edifici di ogni genere. È una archistar che non veste di nero, come tanti suoi colleghi. Anzi, a vederlo, si direbbe un bel caballero spagnolo elegante, sorridente e gioviale. Unico particolare trendy, un braccialettino di cotone, di quelli brasiliani, al polso destro. Conosce molto bene Roma, che visita spesso e dove ha passato l'ultimo Capodanno con la famiglia. Giorni fa, in una lectio magistralis nell'aula magna di Valle Giulia, ha strappato applausi a scena aperta quando ha disegnato -con riproduzione sullo schermo- quei corpi umani che spesso gli danno ispirazione per i suoi progetti. E una colonna vertebrale diventa magicamente un grattacielo ritorto su se stesso". Dove non si sa se quel che abbaglia di più è la lectio magistralis che fa il paio col braccialettino di cotone trendy mentre Dudù il gagà s'accoppia con il professor Cutolo oppure quella colonna vertebrale che si ritorce su stessa nel nome della bellezza muscolare: una forma d'incontinenza verbale che neppure si rende conto di metaforizzare il teratologico e preconizzare la spina bifida come nomos della prestanza fisica. Le parole, mestamente, vanno in cerca delle metafore come le scenografie cui si riferiscono e, in questo forsennato andazzo, perdono perfino il loro, già al principio poverissimo, senso. Sfilano, internati nel lager a lustrini: "quaranta ponti, otto stazioni ferroviarie e edifici di ogni genere" mentre miagolano i violini dell'orchestrina mediatica. E Uta invece, la mia Uta, lontana, indifferente e luminosa come Betelgeuse, tace. Ugo Rosa u.rosa@awn.it | ||||