Un
sabato, a novembre |
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"We sailed for parts unknown to man, where ships come home to die No lofty peak, nor fortress bold, could match our captain's eye Upon the seventh seasick day we made our port of call A sand so white, and sea so blue, no mortal place at All" ("navigammo per luoghi sconosciuti all'uomo, dove le navi vanno a morire né vetta orgogliosa, né vigorosa fortezza eguagliò l'occhio del nostro capitano. Al settimo giorno di mal di mare, trovammo il nostro approdo, una sabbia così bianca, un'acqua così azzurra, un posto che non aveva nulla di mortale.") A salty dog (Brooker/Reid) |
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Parcheggio
l'auto sul lungomare. È sabato, ma novembre è un mese che evidentemente scoraggia anche il turista più agguerrito; gli scampoli dell'estate sono già andati in liquidazione e, per rimettersi in moto, i rompicoglioni aspettano Natale. Così posso fare due passi in pace. C'è un vento che muove le onde e spazza il cielo. Guardo la rocca che incombe sul mare. Vengo dal cuore dell'isola dove l'acqua non è che un'idea (con la quale fare, letteralmente, i conti) e mi chiedo che cosa abbia mai significato essere cresciuti con quelle onde negli occhi e il loro rumore nelle orecchie; quando della parola "ferie" qui non si capiva bene il significato e questa distesa azzurra e grigia era vita o morte, non s'era ridotta a recitare travestita da "vacanza", scorza vuota e rinsecchita. C'è un uomo sulla spiaggia, un vecchio. Se ne sta lì e si guardano: lui e il mare. Si specchiano l'uno nell'altro: il vecchio indossa un maglione grigio e, sopra, una giacca marrone, stinta e troppo larga. Ha i capelli bianchi e la barba di quattro giorni. Il mare, grigio e imbolsito anche lui, trascina a riva sporcizia e detriti. A vederli così non sembra che siano mai stati diversi. Invece il mare è stato liscio come il velluto e azzurro, sfolgorante sotto i raggi del sole, e anche per il vecchio ci sarà stato un tempo, forse, in cui su quella spiaggia aspettava che i pescatori tornassero, per andarsene a casa con suo padre. Nella vita si scelgono i mestieri più strani. Sei figlio di un pescatore e finisce che fai il maestro di scuola, tuo padre è muratore e tu ti metti a fare il notaio. Io ho solo inciampato in quello che faccio adesso (sempre che, in effetti, io faccia qualcosa di definibile...) e mi chiedo ogni volta, con curiosità, cosa spinga un bambino a scegliere di fare, da grande, un mestiere anziché un altro. Perché mai un ragazzo che è nato così vicino al mare decide di fare l'architetto, mestiere di pietre e di terra? Quel vecchio là che mestiere ha fatto? Suo padre che mestiere faceva? Mentre me lo chiedo una giovane donna s'affaccia ad un balcone con la mano tesa davanti agli occhi, come se scrutasse lontano. Poi si alza in punta di piedi ed incrocia le braccia. Sembra bella, ma io non ho occhi buoni e sbaglio spesso. Che strano movimento, però. Le braccia conserte, in punta di piedi, davanti alla ringhiera. Come se volesse traguardare il mare. Eppure il mare è lì davanti, disteso sotto i suoi occhi. Allora è questo che mi viene da pensare: lei guarda il mare dalla sua casa. Si alza in punta di piedi e incrocia le braccia come a dire: io qui sto, e là c'è il mare. Il mare non è altro che un dono della casa e lei se lo guarda così, sporgendosi in fuori ma rimanendo dentro. Poi, rabbrividendo un poco, come fanno i bambini, magari gioca a spaventarsi immaginandosi un punto lontano, all'orizzonte. Sicura della sua casa. Sicura nella sua casa. Penso di nuovo al ragazzo che è cresciuto qui, quando le onde facevano da tappeto al silenzio, a quante volte deve aver visto una donna guardare il mare in questo modo, da un balcone. A guardarla senti che non c'è mare possibile senza una casa alle tue spalle. Lo senti, più che capirlo, come si sente questo vento sulla faccia. Non c'è mare, né viaggio, né avventura senza un balcone a cui affacciarsi: "Io sto qui, nella mia casa. E guardo il mare". Sì, mi sembra una buona ragione per decidersi a fare l'architetto. Guardo di nuovo il vecchio, e, di nuovo, guardo lei. Più in là c'è un caldarrostaio, guardo anche lui che rimesta la carbonella e attizza il fuoco. La cosa, per un momento, mi sorprende: le caldarroste e questa spiaggia, nella mia testa, viaggiavano su binari separati. Metto in conto questa separazione alla vacanza ed ai suoi idiotismi divenuti linguaggio corrente: come se in un posto come questo la vita, a ottobre, sparecchiasse, per riprendere a giugno. Eccomi invece qui, a novembre, ed ecco lì un vecchio, solo, sulla spiaggia, una donna in punta di piedi e un venditore di caldarroste: mentre il vento spiega al mare le sue ragioni, ed il mare gli risponde. Sto andando ad un funerale. Me lo ripeto ma non ci credo veramente, ci sono uomini che si fa fatica a immaginare morti. "...magari muoiono un po' meno degli altri...", mi dico. Ma non lo penso sul serio, è un pensiero che caccio subito via. Sono quelle cose che si pensano per restare ancorati e non prendere il largo, dove è pericoloso andare. Si muore tutti uguale, invece e in fondo è giusto. Solo che poi ci ricordiamo di qualcuno e di altri no. Questo, però, riguarda noi, non chi muore. Per lui niente più donne affacciate al balcone in punta di piedi, né vecchi soli davanti al mare, né caldarroste in una limpida, ventosa, giornata di novembre. Tuttavia è qui, per noi, davanti al mare e a quella donna e al vecchio che lo guardano, che il ricordo sembra avere un senso. Forse dobbiamo ricordare proprio perché morire è il nostro destino, ma vivere è una scelta quotidiana: una minuscola decisione che prendiamo ogni giorno. Scegliamo di credere nel tempo. Che il tempo esista veramente. Che sia una realtà concreta che finisce per ucciderci. L'evidenza è con lui: noi invecchiamo ogni giorno che passa, moriremo e ogni cosa finirà insieme a noi. Scegliamo di credere nello spazio. Che lo spazio esista veramente. Che sia una realtà concreta dentro la quale ci muoviamo. Siamo in mezzo alle cose ma non c'identifichiamo con esse. Noi siamo qui, loro là. Per toccarle ci spostiamo attraverso qualcosa che non sembra avere sostanza e che non vediamo, ma la cui esistenza ci è detta dal nostro stesso muoverci. Ma che cosa sono tempo e spazio non lo sa nessuno. Noi lo sappiamo di dover morire, naturalmente, e d'essere qualcuno (e solo quel qualcuno) perduto in un naufragio che di tanto in tanto ci porta a toccare altre cose e qualcun altro. Eppure ci sono persone a cui tu leggi negli occhi che, nonostante tutto, la vita è bella. Io ne ho conosciuta qualcuna. Non parlo di quelle che lo dicono, di quelle ce n'è tante. Persone, invece, a cui non serve dirlo, non è necessario: le vedi e sai che loro sono nate per testimoniare questo. Io, che questo dono non ce l'ho, ne rimango sempre incantato. Ora una di queste persone così rare se n'è andata via per sempre ed, in questo sabato di novembre, mi è sembrato giusto venire a salutarla. Così ho visto quel vecchio, quella donna, l'uomo delle caldarroste davanti al mare mosso dal vento, sotto la rocca e so che lui aveva ragione. Però, se salutandolo potessi dirgli qualcosa (ogni tanto ci provavo gusto a contraddirlo e adesso mi piace pensare che lui lo sapesse...) allora gli direi: "...non è che la vita non sia bella. È che si muore". So già come risponderebbe. Lui mi guarderebbe, come faceva sempre, da sopra gli occhiali e si fermerebbe un attimo prendendomi per un braccio. Poi, facendosi serio all'improvviso, alzando la testa e guardandomi dritto negli occhi mi direbbe (indicando con l'altra mano il mare, la rocca, la spiaggia, la giovane donna, il vecchio e le caldarroste): "...però guarda quanta bellezza rimane". E l'ultima parola sarebbe sua, come ogni volta che ci è capitato d'incontrarci. Ugo Rosa u.rosa@awn.it | [27nov2006] |
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