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Lanterna Magica

Pensiline







"Vizi, vermi, tarli, bradipi e puzzole –tutto questo sì, in massa, in serie, a puntate, al cento per cento, sempre nuove edizioni– ma un piccolo dio che allevi due alberi?"
"...questa società è, bisogna dirlo, positiva. Nonostante le guerre e le battaglie, nonostante distruzione concettuale e mancanza di prospettive politiche, oggi l'umanità nel suo insieme è euforica."
Gottfried Benn



Francesco Dal Co, sull'ultimo numero di Casabella dà al ministro degli esteri Massimo D'Alema una lezione di diplomazia internazionale e gli spiega, per interposta persona, com'è che ci si dovrebbe regolare quando si va a cena con Condoleeza Rice e il discorso, malauguratamente, cade sulla base americana di Vicenza.

Scrivendo intorno all'hotel Marqués de Riscal di Frank Gehry egli imbastisce un meraviglioso saggio di savoir faire citando Gottfried Benn e tirando fuori dal taschino dello smoking il monocolo del nichilismo per non dire quello che, pure, è inevitabilmente sotto gli occhi di tutti: essere il suo progetto una STRONZATA.

Un altro si sarebbe arrovellato il cervello tre giorni, avrebbe fatto telefonate e inviato fax, saggiata la possibilità di darsi malato, indagata l'eventualità di passare l'incombenza a qualcuno del comitato di redazione e il risultato sarebbe stato quello di peggiorare la situazione con lo spelling: S come Savona, T come Torino... S-T-R-O-N-Z-A-T-A.
Incidente diplomatico.
Lui invece: "Lo smalto sul nulla".
Magari significa la stessa cosa, però messa così potresti anche dirlo al commensale mentre sorseggia l'aperitivo senza farglielo andare di traverso, anzi addolcendogli la giornata. È per questa ragione che io, lo dico senza alcun ritegno, voglio bene a Francesco e lo ammiro oltre ogni dire.
Prendete uno come me, per esempio.
Che avrei scritto, che avrei detto in una situazione simile?
Il meno che poteva capitare era la convocazione dell'ambasciatore italiano a Washington forse il richiamo di quello americano a Roma, nonché una richiesta di pubbliche scuse, da parte della giuria del Pritzker, in sede pubblica e accademicamente riconosciuta.

Invece Gehry, dopo aver letto (forse) l'articolo e non averci capito un cazzo, ha telefonato a Dal Co ringraziandolo di cuore e invitandolo a cena a Los Angeles, tutto a carico del committente felicissimo, per parte sua, di insufflare ancora una volta linfa vitale nelle sclerotiche vene delle arti e della cultura.
Ecco perché lui è Francesco Dal Co e io, invece, no.
Ma detto questo (e poiché definire qualcosa con il termine più adeguato non basta ancora, purtroppo, a configurare quello che viene correntemente definito un "pensiero critico") è forse necessario approfondire un poco la questione.

Siccome non sono proprio d'accordo sul fatto che, in questo caso, siamo in presenza di un "Gioco da prestigiatore, trucco da funambolo, nulla e, sopra, smalto", non fossaltro che perché dire questo sarebbe ancora, fornire, cortesemente, dignità a ciò che non ne possiede affatto.
Siccome se anche quello "smalto sul nulla" significasse "stronzata" occorrerebbe allora ribadirlo a chiare lettere affinché capiscano anche i sordi. (Perché?! Ma perché è delle nostre strade, delle nostre piazze, della nostra vita che stiamo parlando, non di una festicciola al Billionaire, e perché una critica d'architettura dall'encefalogramma piatto da anni non fa che "prendere atto" dell'esistente e cinicamente tace, oppure nicchia, o, peggio suona i pifferi, su cose che gridano vendetta al cielo).
Siccome non credo si dovrebbe abbandonare con troppa signorilità la capacità di indignarsi, soprattutto in architettura, perché qui i costi delle stronzate (soprattutto se acclamate) trascendono, e di molto, quelli puramente monetari e perfino quelli immediatamente quantificabili socialmente.
Siccome, se è vero che c'è chi ha pagato profumatamente di tasca sua per farsi confezionare la stronzata è però altrettanto vero che la sua azione devastante non si limita al cervello del proprietario, ma si estende anche a quello di chi, per sciropparsela, non ha sborsato una lira.
Siccome, insomma, come dicevano quei cucchi dei nostri nonni, "l'architettura è un'arte civile" (ho difficoltà a digitare, la tastiera del mio computer fa resistenza: forse si vergogna).
Allora vorrei provarmi a spiegare perché mai questa particolare stronzata, trascenda la sua minuta stronzaggine stagliandosi marmorea nel cielo platonico degli archetipi.

Misuriamo la caratura della sua capacità di rappresentazione.
Che cosa è una stronzata (bullshit qualora, per avventura, questa cosa capitasse sotto gli occhi di Mr. Gehry)?
Per comprenderlo leggiamo un esperto, Harry G. Frankfurt, che all'argomento ha dedicato un saggio da cui non si può prescindere ("Stronzate, un saggio filosofico", Rizzoli, 2005, euro 6,00):
"Chi racconta stronzate può benissimo non ingannarci, e nemmeno volerlo fare, né riguardo ai fatti, né riguardo alle sue credenze su quei fatti. La cosa su cui, di necessità, intende ingannarci è la sua attività. L'unica sua indispensabile caratteristica distintiva è che in un certo modo offre una falsa rappresentazione di ciò che sta facendo... È impossibile che una persona menta se non crede di conoscere la verità. Produrre stronzate non richiede questa convinzione... (chi produce stronzate) non si preoccupa che le cose che dice descrivano correttamente la realtà. Le sceglie, o le inventa, perché si adattino ai suoi scopi... Per questa ragione, dire bugie non inficia la capacità di dire la verità quanto invece il raccontare stronzate... (chi lo fa) non rifiuta l'autorità della verità, come fa il bugiardo, e non si oppone ad essa. Non le presta attenzione alcuna. A causa di ciò, le stronzate sono un nemico della verità più pericoloso delle menzogne.".

Con cosa abbiamo a che fare in questo edificio?
Abbiamo qui a che fare con una pensilina. Solo essa conta.
Dietro c'è, fortuitamente, un albergo; ma questo è irrilevante dal punto di vista funzionale tanto quanto da quello formale. Potrebbe esserci qualsiasi altra cosa, costruita in qualunque altro modo, o niente del tutto.
Questa pensilina serve forse a riparare dal sole e dalla pioggia?
Per niente, o in misura, ancora, irrilevante.
Temo proprio, anzi, che quelle superfici metalliche riflettenti siano micidiali, quando picchia il sole estivo, e che dentro le camere, in fondo a quei riccioli, si avrà bisogno degli occhiali da sole e i condizionatori, in estate, avranno di certo il loro da fare (il che, lo capisco, non rappresenta un problema, visto che chi è disposto a pagare parecchie centinaia di euro per ficcarsi lì dentro si merita questo e altro).
Allora abbiamo qui una pensilina che pur essendo tutto è anche niente.
È tutto, perché se la toglieste non rimarrebbe nulla, e quel che si vedrebbe sarebbe più penoso di un bradipo tosato.
È tutto, perché è con questa cosa che, volenti o nolenti, dobbiamo confrontarci.
La pensilina fagocita la "presenza" che dovrebbe invece "rappresentare". Questa presenza ("l'hotel") diviene insignificante e, strutturalmente indebolita, sparisce, mentre è la rappresentazione (un tempo circoscritta e bene identificata, la pensilina dei depliant pubblicitari, "il sorriso dell'albergo"...) ad assumere il calibro ontologico della presenza.
La povera presenza, quella che una volta avremmo definito tale, l'albergo, non è più nulla: si fa da parte e si nasconde dietro questa maschera spocchiosa che adesso ha liquidato il volto e si presenta come tale.

D'altra parte, però, chiediamoci anche: questa pensilina assolve ancora il suo compito, la sua (omiodio... che paura... solo a dirlo tremano i polsi...) funzione?
Assolutamente no.
Essa non serve più a nulla. Neppure a far da pensilina.
Dunque è anche niente.
Le sue raccapriccianti convulsioni non "servono" ad altro che ad attestare il nome del progettista che l'ha ideata.
Non è solo che, qui, la forma non segue la funzione. E non è vero neppure l'inverso, che, cioè, la funzione sia subordinata alla forma.
È solo che la funzione è, meravigliosamente, dislocata.
La pensilina "serve" a qualcos'altro da quello a cui una povera pensilina dovrebbe servire.
A che serve? Serve solo a nominare il creatore.

Eppure è in questa maschera, che come ogni maschera è tutto e niente, che "consiste" questa architettura e in null'altro. E qui, e non nel suo "corpo" ormai atrofizzato e ridotto a nulla, patetico e modesto fino al ridicolo, mantenuto per puro accanimento terapeutico e oramai del tutto privo di senso e di vita, che quest'opera è giocata.
L'albergo che ci sta dietro avrebbe potuto essere un miserabile contenitore prefabbricato e non sarebbe cambiato nulla. Ci sarebbe pur sempre stata la pensilina, fattore decisivo.
Del resto provateci pure: potete applicare col pensiero questa pensilina ad uno qualunque degli edifici di cui pullulano le strade delle nostre città. Il risultato non sarebbe diverso. Un coso (caserma, albergo, cesso pubblico, parcheggio o altro) progettato dal geometra Pertugi o dall'ingegner Batracomio con questa mise diventerebbe immediatamente soggetto da rivista.

Solo che Francesco, su quel nulla, di smalto non ce ne spalmerebbe neanche un pochettino. Benn e il nichilismo rimarrebbero a sonnecchiare sullo scaffale più alto, dove, monumentali, riposano gli Adelphi in bella schiera, amorevolmente accuditi, da un lato, dal professor Severino e, dall'altro, dal professor Cacciari.
Sento già l'obiezione dei cantori della fluidità in movimento: essere cioè, codesta stronzata, non già una pensilina ma "ben altro" (scultura, materiale in movimento, segno dei tempi, bellezza a passeggio, arte pura, cosa turca...). A costoro non si può rispondere nulla. Dirò appena che il famoso movimento, per errore ritenuto oramai comunemente ambito di pertinenza del progettista di immobili, vi si monumentalizza (letteralmente) in posa: com'è inevitabile, giacché è, appunto, l'immobile, la verità dell'architettura. Sbugiardato dai fatti, precipita poi dalla semplice sciatteria alla farsa, fino all'autoparodia più demenziale. Appesa lì, questa ferraglia, non fa che ripetere il nome del padrone delle ferriere come farebbe il pappagallo ammaestrato: segnale idiota dell'epoca e del suo stile.

L'hotel Marqués de Riscal è dunque senzaltro una stronzata nell'accezione che ne dà il professor Frankfurt. Essa non mente: ignora la verità dell'architettura e, così facendo, la nullifica. Ma in nessun'altra opera iperattuale, devo ammettere, questo gioco miserabile e idiota è così palese da diventare paradigma.
Perciò quest'opera meriterebbe un premio speciale: quello di stronzata cruciale dell'ultimo decennio. È un opera, mi sembra, a cui le altre iperattuali dovrebbero guardare come una copia guarda l'originale. O forse come l'originale, dati i tempi, finisce sempre per guardare la sua copia.
Gehry fu, una ventina d'anni fa, un discreto architetto, in grado di fare, nelle sue prove più riuscite, della sua verve legnosa e sgraziata e della sua assoluta assenza di talento una bella virtù.
Il poco di cui era dotato per natura lo usava con intelligenza e senza protervia. Mi piaceva molto.
Adesso rimane un mestierante modesto il cui ego s'è gonfiato fino all'osceno. Poiché, tuttavia, il mestiere oramai non gli serve più (altri se ne accollano il peso a prezzo ragionevole) ciò che resta, e si vede, è solo il suo ego.
Questa stronzata ne incide oggi, indelebilmente, i contorni.

Il Gottfried Benn che gli si adatta è, secondo me, un poco meno conciliante di quello che figura nello scritto di Francesco:
"Sì, si può passarli una buona volta in rivista, questi fronti tenuti insieme da un mastice tutto speciale: i numeri giustificano le proporzioni, e le proporzioni giustificano le leggi, e le leggi giustificano di nuovo i numeri, e la matematica giustifica la fisica, e la fisica giustifica la chimica, e la chimica giustifica di nuovo la matematica –detto figuratamente: un menare per il naso, un barare ufficialmente, un gioco di bussolotti, che nessuno smaschera perché sono tutti lì a segnare i dadi" [...]

[20feb2007]
"...se evidentemente la forza produttiva della sua razza consisteva ormai solo nel salutare periodicamente un'epoca sempre nuova con un pathos sempre nuovo, in una sorta di ballo di san Vito di svolte cosmiche, una sorta di tenia di liete novelle, se ora essa arrivava addirittura a inserire l'irrazionale, il vago, il fondo creativo come nient'altro che un nuovo affare nella sua terapia costruttiva senza senso e senza meta – allora, via da questo ambiente! allora, via da questo metodo di pensiero, che non era poi altro che una nevrosi pensionistica, sviluppata in una secolare latenza degenerativa."

Ugo Rosa
u.rosa@awn.it

la sezione Lanterna Magica
è curata da Ugo Rosa


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