Il tocco di Venere |
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"...nel grande atto del filosofare anche le punte delle dita pensano, ma non sono più capaci di tastare." Martin Buber |
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Le storie dell'arte sono strane. Privilegiano, sempre, un solo senso: la vista. La stessa denominazione delle arti che vi trovano posto lo tradisce. Parliamo, infatti, di arti "figurative" e, dicendo così, pensiamo di intenderci, perché immediatamente colleghiamo ciò che definiamo "figura" agli occhi, con cui ne percepiamo contorni e colore. In realtà la parola "figura" (generata direttamente dal latino fingo, che vuol dire "formare") proviene dalla radice sanscrita dhigh (attraverso la mutazione della dh originaria nella th greca e finalmente nella f latina) che significa tastare, maneggiare, palpare. Prendiamo la statuetta che campeggia spesso all'inizio di tutti i libri di Storia dell'arte: quella detta "Venere di Willendorf". Già denominarla così la dice lunga sul nostro modo di intendere l'arte come una specie di appendice temporale che si estende come un rizoma (in avanti e all'indietro...) da un grasso, ricchissimo, grumo terroso, collocato, all'incirca, verso il IV secolo avanti Cristo: un grumo piovuto dal cielo che dà senso e giustificazione a quel che viene prima e che verrà dopo. Ma, soprattutto, un grumo visivo: il trionfo degli occhi. Le rotondità e le proporzioni di questa Venere, tuttavia, più che rispondere a criteri puramente contemplativi sembrano, a mio avviso, derivare da esigenze che definirei funzionali: come in una maniglia progettata da un buon designer contemporaneo, esse si adattano perfettamente alla presa della mano. Il pollice può sistemarsi tra i due seni, e può scorrere, se lo vuole, lungo il profilo del ventre fino a insinuarsi nell'incavo appena pronunciato del pube a sfiorare, tra le cosce, la vulva, mentre il palmo contiene perfettamente i glutei; le altre quattro dita combaciano con le attaccature: tra collo e spalle, tra schiena e natiche, tra natiche e cosce, tra cosce e polpacci. Essa perciò, non appare davvero fatta per essere vista ma per essere, invece, toccata: e allora non ci dice nulla sulla concezione primitiva della bellezza muliebre né, dunque, sulla differenza che intercorrerebbe con la nostra, moderna, "immagine" ideale del corpo femminile. Ci conferma, piuttosto, l'irremovibile sensualità del tatto, che, rispetto alla vista, ha bisogno di maggior volume e, letteralmente, di più corpo. Chi ha scolpito questa statuetta l'ha fatto con le mani ma, soprattutto, per le mani: il leggero rilievo dei capelli e la stessa conformazione dell'acconciatura, forse non sufficientemente precisata per gli occhi ma perfettamente calibrata per le dita, lo conferma. La pietra è lievemente friabile, spugnosa, piacevolmente ruvida; tutte le giunture sono morbidamente delineate, i polpastrelli possono insinuarsi nelle pieghe del corpo e accarezzarle; ogni parte della Venere si offre all'indagine delle dita: seni, pancia, cosce, vulva, natiche, non solo non si oppongono a un'esplorazione tattile e a un'inchiesta, ma le rispondono offrendosi ad essa con magnifica opulenza. Possiamo benissimo immaginare il conforto che derivava all'uomo cui essa apparteneva, dal sentirsela, tiepida, tra le dita, mentre, seduto presso il fuoco, tentava di scaldarsi durante le gelide, interminabili, notti d'inverno, o quando vegliava all'addiaccio aspettando la preda. Ben lontana dallo stabilire una distanza incolmabile tra noi e lui, la Venere di Willendorf ci accosta e ci rende contemporaneo e fratello chi una volta l'ha scolpita e poi, per tutta la vita, l'ha tenuta con sé come amica. Attraverso questa piccola Venere possiamo percorrerci a ritroso spostandoci al margine della catena evolutiva, per ritrovare noi stessi, accovacciati in una tana, a guardare da lontano, nel buio, la piccola luce, ancora lontanissima, di quella che chiamiamo la nostra Storia. Stringendo tra le mani, con affetto e paura, questa piccola cosa. Ugo Rosa u.rosa@awn.it |
[27 luglio 2009] | |||
la
sezione Lanterna Magica laboratorio
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