home > lanterna magica

Lanterna Magica

Palermo felicissima







Dico queste cose nel modo più diretto e più semplice, anche perché credo che il primo compito della critica (trascurando il quale ogni critica si trasforma in un'attività inquinante, intossicante e deleteria) sia quello di dire: "sì" e "no", "bello" e "brutto", e prima ancora: "reale" o "irreale".
Alfonso Berardinelli



Sarà bene dirlo subito e con franchezza: detesto Palermo.
È un'antipatia di vecchia data che ho coltivato con diligenza fin dal primo anno di università e che, con il tempo, si è imbrunita acquistando una patina bronzea che, sinceramente, mi dispiacerebbe molto scalfire.
Ho un'età in cui le antipatie vanno coltivate con affetto, visto che invecchiando si tende a scivolare nelle fauci odiose di quel leviatano che viene giornalisticamente definito "ceto medio riflessivo" il quale, accarezzando le mezze tinte e limando indignazioni e antipatie, fagocita intelligenza e caca conformismo.
Oggi non detesto solamente l'ottusa, oleosa, opacità attuale di questa città, che ingoia qualsiasi lucentezza ne venga a contatto, ma ne trovo disprezzabile anche il ricordo.
Non è solo la Palermo della seconda metà del secolo scorso che m'infastidisce bensì anche la cosiddetta "città storica".
La Palermo arabo-normanna si salda a quella rinascimentale e barocca confluendo nella città dei Basile (padre e figlio) senza soluzione di continuità: e quel serpentone mi è intollerabile.
Per non parlare, naturalmente, della città ultima, che tuttavia conserva il conforto della statistica e non è molto peggio delle altre città italiane.
Ne detesto il clima, che nella sua brutalità, mi pare abbia qualcosa di osceno e inconfessabile; ipocrita e falsamente classificato come mite (in realtà di una violenza spietata) impone ai suoi abitanti una specie di torpore cerebrale che non lascia scampo.
Dopo una permanenza protratta vi si acquisiscono caratteristiche antropologiche che fanno pensare, per quel che attiene il regno animale, all'appiccicosa consistenza del mollusco e per quanto riguarda quello vegetale, all'autoreferenzialità insidiosa del ficodindia.

[5 agosto 2010]
Sarà per questo che il panormita presenta caratteristiche ibride mescolando (anche, probabilmente, per questioni genetiche) la cialtroneria levantina all'arroganza normanna.
Il colore dei suoi manufatti, inoltre, è spaventoso, almeno quanto la porosa sporcizia dei suoi vicoli.
Dell'odore preferisco non parlare.
Che i suoi abitanti se ne vadano in giro per panelle e sfincionello incuranti della mondezza che li sommerge e nella quale (a breve) affogheranno, non fa che confermare quanto appena detto.
Il cialtrone arrogante è, infatti, spesso anche stupido e in questo consiste forse l'apporto autoctono (scrivo con cognizione di causa, da un luogo non lontanissimo da Palermo che per autonoma cialtroneria, arroganza e stupidità non è secondo a nessuno...).
Tutte queste cose sono però divenute letteratura e, col tempo, mutate in altrettanti attestati di qualità per cui il turista va matto: gadget, articoli di consumo.
Immondizia, criminalità, traffico e corruzione sono ammennicoli, interessanti, lo ammetto, ma, per quel che mi riguarda, non decisivi; quello che di Palermo mi fa nausea è proprio la glassa: di ciò che c'è sotto s'interessino pure giornalisti, assistenti sociali, esperti di marketing e operatori culturali; a me basta quella.
Allora perché scrivere di un paio di progetti che, in fondo, non fanno altro che attestare il destino di una città e, silenziosamente, riproporne il carattere fatuo e dozzinale con un lezioso travestimento alla moda?
In effetti, i progetti in questione sarebbero, in sé, trascurabili, ma presentano caratteristiche tali da renderli rappresentativi.

Gli autori sono due architetti italiani quasi coetanei e, se non vado errato, discretamente noti: Flavio Albanese e Italo Rota. Il primo ha, se non erro, anche rilevanza editoriale, avendo diretto per qualche tempo una rivista storica dell'architettura italiana.
Ambedue, ad ogni modo, possono vantare un ottimo pedigree professionale.
Rota, peraltro, si è già distinto in ambito locale per aver disposto una serie impressionante di birilli sul lungomare di Palermo con risultati esilaranti. Si trattava (dissero gli ottimisti...) di un divertissement che, del resto, non mancava di testimoniare un'erudizione enciclopedica: il profilo del birillo s'ispirò infatti (come si affrettò a dichiarare l'autore per rassicurare gli indigeni) nientemeno che al celebre busto di Eleonora d'Aragona di Laurana.
Dunque tutto a posto, si restava nell'ambito delle tradizioni locali e della cultura alta.
Ad ogni modo questa del birillo d'Aragona l'avevamo ormai archiviata... che volete che conti, nel mondo dorato dell'architettura, una stronzata in più o in meno dal momento che, ormai, le stronzate le importiamo a container?
Il medesimo autore, ci propone invece adesso un altro bellissimo prodotto di scambio per il quale l'aborigeno non mancherà di rallegrarsi.
Si tratta del progetto per la biblioteca e l'archivio storico della Regione Siciliana nell'ex oratorio Sant'Elena e Costantino.
È un lavoretto coi fiocchi, metaforicamente e anche letteralmente.
La temperie neo futurista dell'autore vi si sposa con quanto di meglio si è prodotto nell'ambito dei centri estetici, delle parrucchierie e delle residenze per couturier.
La coerenza di questo tappezziere è esemplare e i birilli ci sono sempre; solo che si sono adeguati all'occasione diventando alti alti, come i papaveri della canzone, e restando, però, pur sempre papere. Sono adesso, ahimè, ancora più lucidi e riflettono, oltre alle facce di impiegati e avventori, anche le povere ossa dell'oratorio, mai così defunto e tuttavia imbellettato come il caro estinto del romanzo di Waugh.

Chiedersi il perché di tutto questo macabro e fosforescente cretinismo marinettiano, che qualche inguaribile ottimista aveva creduto al macero, è, comprendo, perfettamente inutile.
Come si dice: non ci si può opporre ai tempi. E i tempi questo sono e questo vogliono.
Vero è.
Si dà il caso, però, che la critica non possa fare altro che questo (perciò, ora che ci penso, anche la critica è andata fuori produzione, non aveva mercato... io che vi parlo con questa voce cavernosa lo faccio infatti senza alcuna possibilità di essere accolto tra i Critici perché risiedo nella zona fantasma dove, tuttavia, alla faccia di Nembo Kid, me la spasso insieme a Faora, la moglie del generale Zod, fino a che non ci scopre lui, ché dopo saranno guai...).
Il progetto del signor Albanese appare, va detto, modesto e senza pretese (cazzo, la rima...).
In realtà, come Uriah Heep, cela in quel proclamarsi umile, qualcosa d'infido: cita infatti (letteralmente) un grande progetto (quello di Carpintieri in via Ruggero Settimo) e, distorcendone il senso, lo mette alla berlina conciandolo come il vetrinista un manichino.
Quello che rende bella e intelligente l'architettura di Carpintieri è infatti proprio il suo fierissimo affermarsi come massa attraverso quei medesimi tagli che la metterebbero, come tale, in discussione.
Non solo, ma nell'offrire al passante, con sobrietà, non una superficie semiriflettente che gli rimandi il nulla della sua faccia da fesso ma un volume compatto e segreto con cui confrontarsi. Nel solco, davvero, dell'architettura islamica e non della sua olografia (Zisa e Cuba sono a due passi).
Qui invece tutto finisce, come usa in Berlusconia, a barzellette sconce.

E quella che dovrebbe essere un volume diventa una caramella elastica appena scartata, una gigantesca "Big Bubble" al lampone, fatta però di plastica traslucida, serigrafata, schifosamente riflettente e tendente a baluginare come un albero di natale: simbolo di niente, certificazione di allegria senza motivo, perennemente fuori tempo e fuori luogo (inoltre a Palermo, preciso, il Natale non esiste che come sforzo del cervello e ipotesi improbabile, solo le decorazioni lo attestano, clima e atmosfera se ne infischiano, più o meno come a Los Angeles).
Una maschera calafatata a furia di iniezioni al botulino, una superficie untuosa come il parrucchino di Berlusconi, e, come quello, fasulla a cominciare dal colore.
Nella citazione di Laurana, da parte di Rota, e in quella di Carpintieri, da parte di Albanese, c'è, insomma, la stessa furbizia mercantile di chi vende perline ai selvaggi facendole luccicare al sole. Un atteggiamento colonialista che sarebbe il caso, mi pare, di rispedire al mittente: a Milano c/o Formigoni Roberto e Moratti Letizia, oppure, magari, direttamente al padrone della baracca che così "ghe pensa lù".

Ugo Rosa
u.rosa@awn.it
 

la sezione Lanterna Magica
è curata da Ugo Rosa


laboratorio
informa
scaffale
servizi
in rete


archit.gif (990 byte)

iscriviti alla newsletter gratuita di ARCH'IT
(informativa sulla privacy)







© Copyright DADA architetti associati
Contents provided by Image