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internet forse si addice all'architettura (ma al momento non ne siamo ancora certi) - 3

stefano mirti + walter aprile



anche questa terza parte inizia da un riferimento diretto a de fusco e al suo articolo pubblicato qualche tempo fa.

Che cosa ha portato ad estendere all'architettura gli assunti dell'informatica fino a ritenere che l'informazione sia la "materia prima dell'architettura"?

noi che non siamo degli estremisti (potremmo definirci dei "riformisti") ci sentiamo di dire che l'informazione sia una delle materie che l'architettura usa.
al pari della composizione, della scienza delle costruzioni, delle tecnologie dei diversi materiali.
sempre ammettendo che, nel contesto architettonico, parlare di informazione in astratto abbia un senso.

tra l'altro e' discutibile anche dire che l'informazione sia la materia prima dell'informatica – diremmo invece che l'oggetto dell'informatica e' il calcolo automatico.
l'interpretazione dell'informazione che passa attraverso il calcolo (per esempio, il fatto che i bit controllino dei pixel che formano delle immagini, oppure un altoparlante che produce dei suoni) e' fatto di discipline importanti ma esterne all'informatica.
il cuore dell'informatica e' essenzialmente matematico e, ci sia consentito dirlo, privo di ogni interesse umano.

...ma l'architettura resterà quella di sempre legata alla triade vitruviana.

ecco, forse si.
pero', puo' essere che gli edifici (o magari una parte di essi) forse verranno costruiti in una maniera un pochetto diversa da quella attuale.
(cosi' come si e' fatto per secoli).




secondo altri autori, a causa di una tecnologia in grado di modificare usi e costumi dell'intera società dall'assetto globale, anche l'architettura subirà trasformazioni altrettanto radicali fino al punto da smaterializzarsi e diventare non più sistema di spazi agibili, ma soprattutto un sistema di "informazioni". Le due vie che la riguardano sono sostanzialmente quella di fabbriche effettivamente realizzate e quella di altre destinate a rimanere pure immagini, le une rientranti nel dominio del reale, le altre in quello del virtuale.

su questo punto ci sembra che la distinzione non debba necessariamente essere assoluta.
o meglio, sembrerebbe essere tale,
ma se si procede in questa maniera non si va da nessuna parte.
l'unica possibilita' e' quella di usare le suggestioni e possibilita' che ci arrivano dal virtuale per trasformare il reale.
come gia' detto, noi amiamo il superstudio e gli archizoom alla follia.
ma senza koolhaas e altri che trasformano le loro immagini (pure), tentando il passaggio nel mondo del reale, il tutto sarebbe piu' limitato.

piranesi con le sue incisioni non cambia il mondo in maniera diretta.
ma senza piranesi non avremmo tadao ando.
che e' il campione dell'architettura volumetrica, costruita, fatta di pieni, vuoti, fisicita' assortite.

sempre per rimanere nel mondo delle persone che amiamo molto, pensiamo a sottsass.
tutta l'esperienza radicale, i deserti della spagna, gli aeroporti per millepiedi (e altre cento invenzioni strabilianti) sarebbero insulsi se non fossero messi in tensione dalle esperienze con poltronova, con memphis.
(poi, lo sappiamo anche noi che quando entriamo in un ambiente disegnato da sottsass ci viene male e ci fa stare male. pero', forse, proprio in questo sta la sua grandezza assoluta).
in fondo non sarebbe una caratteristica unica dell'architettura quella di dividersi in un'avanguardia e un corpo principale (e una retroguardia, ma di quella non parleremo qui).

l'avanguardia pubblica gli articoli e fa i convegni con marco brizzi e viene presa a a sassate.

il corpo principale arriva vent'anni dopo e effettivamente costruisce parecchio.
in letteratura, per esempio, ci vogliono joyce e proust e i surrealisti (che non sono oggi e non sono mai stati letteratura di massa), per arrivare oggi a mtv.
poi,
a seconda delle nostre attitudini, c'e' chi preferisce fare l'avanguardista e c'e' chi preferisce fare il commerciale.



per intendersi.
il ventesimo secolo ha due picchi.
joyce e i beatles.
sono due esempi di eccellenza superiore.
il primo legato a concetti molto sottili, che mediamente uno non capisce al volo.
i secondi, legati a processi di comunicazione di massa che tutti capiscono immediatamente.

uno non nega l'altro.
si completano.

il sistema va in tilt quando voi chiedete all'avanguardista di fare l'avanguardista e allo stesso tempo di vendere milioni di copie del suo lavoro.
semplicemente non funziona.



esempio che di nuovo tutti capiscono.
bunuel e dali nel ventisette se ne escono fuori con ‘un chien andalou'.
che e' una roba che guardano in dieci, non se la fila nessuno, gli spettatori bruciano il cinema e tentano di ammazzare gli autori.
il medesimo bunuel ci mette cinquant'anni ad arrivare a ‘belle de jour'.
che e' un film che viene prodotto, visto da milioni di persone, condiviso, discusso, piu' o meno capito.

se a bunuel abbiamo concesso cinquant'anni,
perche' a me dovete rompere i coglioni se non sono in grado di arrivare al prodotto compreso dalla massa in tre settimane?

io penso che potendo scegliere e' piu' interessante fare bunuel o eisenstein (ovvero lavorare sulla trasformazione linguistica pura).
sono felice che intorno a noi ci siano milioni di pastrone (il fatto che molti di voi non sappiano chi sia questo pastrone dovrebbe gia' farvi capire delle cose) che fanno film commerciali.
quello che mi sfugge e' perche' uno non puo' fare i suoi esperimenti in santa pace.



se poi la giuria delle medaglie d'oro della triennale preferisce premiare il "qui e ora" rispetto alle potenzialita' rivolte verso il futuro,
di nuovo,
non e' un nostro problema.
e' un problema della triennale.

(un saluto alle giovani promesse umberto riva & pierluigi nicolin...)

: )

(pero' la stessa triennale ha premiato arch'it, e in quanto complici di marco, ne siamo molto fieri... diciamo che in termini di rivoluzione del linguaggio noi siamo piu' gramsciani che leninisti, per cui non abbiamo particolare fretta, e sappiamo che i processi sono necessariamente lunghi, laboriosi e complessi...)



tornando a noi,
forse c'e' un altro aspetto del virtualizzarsi dell'architettura, piu' sinistro.
l'architettura costruita richiede imperativamente delle relazioni umane.
si puo' abitare da soli, si puo' progettare da soli, ma la fase della costruzione non puo' essere solitaria.
bisogna interagire con un committente (almeno), con degli amministratori pubblici, con dei lavoratori in un cantiere.




le attivita' di fronte al computer, invece, possono essere solitarie (tanto che siamo tutti contenti quando si riesce a fare software mediante un processo collettivo, come si fa per linux).
e quindi richiedono uno sforzo sociale, di confronto con gli altri, molto minore; faccio il mio rendering che articola il mio concetto, lo metto sul mio sito web e chi lo vuole se lo scarica.
piu' che costruire, pubblico!

ed e' vero che poi tutti mi possono scrivere email.
pero' l'interazione e' post hoc e comunque non e' stata necessaria.

Dopo questa esposizione di potenzialita' digitali, indubbiamente vere ma narrate con un compiacimento tra fantascienza e body art, Mitchell "lancia" la paradossale connessione di tutto questo con l'architettura: "una volta aperto in questo modo il guscio della vostra pelle, comincerete a proiettarvi anche nell'architettura. In altre parole, alcuni dei vostri organi elettronici potranno essere incorporati nell'ambiente che vi circonda. Dopo tutto, non vi e' molta differenza tra un computer portatile e un modello da tavolo, tra un orologio da polso e uno da parete, tra un apparecchio acustico inserito nel vostro orecchio e una cabina telefonica pubblica per i non udenti. È solo questione dell'organo a cui è fisicamente applicato; questo ha poca importanza, in un mondo senza fili in cui ogni dispositivo elettronico ha possibilita' di calcolo e di telecomunicazione incorporate. In questo modo, l'"abitare" assumera' un nuovo significato —un significato che non ha tanto a che fare con il parcheggiare le vostre ossa in uno spazio definito architettonicamente, quanto piuttosto con il collegare il vostro sistema nervoso a organi elettronici che si trovano in prossimita'. "La vostra stanza e la vostra casa diventeranno parte di voi e voi diventerete parte di esse" [W.J. Mitchell, La città dei bits, Electa, Milano 1997, pp. 22-23].

qui conveniamo con de fusco che il tutto e' un po' troppo da film di fantascienza di terza categoria. il fatto che un prodotto o un servizio siano tecnologicamente possibili non significa che abbia un senso umano o anche solo commerciale.
si puo' sperimentalmente vedere che la nostra cultura e' molto molto conservatrice per tutto cio' che si applica sul corpo, anzi verrebbe da dire (sporgendoci paurosamente in discipline non nostre) che quanto piu' un manufatto deve essere vicino al corpo (raggiungendo quindi il massimo con cio' che viene impiantato nel corpo), tanto piu' questo oggetto diventa intimo, caricato di tensione, culturalmente codificato e quindi difficilmente oggetto di innovazione.



per esempio, quanti oggetti indossabili nuovi sono apparsi nell'ultimo secolo?
forse l'orologio da polso, che pure si potrebbe considerare una specie dell'orologio. nell'ultimo millennio?
forse solo gli occhiali.
gli oggetti impiantabili, a parte la categoria antichissima dei piercing, sono quasi sempre oggetti medici, protesi per riparare ai guasti della natura.
supporre allegramente che si "apra il guscio della pelle" e che verremo invasi da interessanti organi elettronici e' uno scenario totalmente cyberpunk – genere della fantascienza che tra l'altro propone un futuro estremamente oscuro, degradato e violento.

La tesi dell'architettura incorporata fisicamente prosegue con una serie di paragrafi i cui titoli dicono tutto: Occhi/Televisione; Orecchi/Telefonia; Muscoli/Attuatori; Mani/Telemanipolatori; Cervelli/lntelligenza artificiale, ecc. Queste associazioni dal più vieto materialismo -in altri momenti negato in omaggio alla presunta immaterialita' di tutto l'apparato informatico- si concludono con un richiamo alla storia: "non dobbiamo tuttavia dimenticare le nostre radici, le culture di questi lunghi secoli pre-silicio, nei quali i nostri antenati dovevano fare tutto con il protoplasma. Avendo scarse possibilita' di estendere i loro sistemi nervosi o di incrementare le capacita' dei corpi, hanno creato luoghi di abitazione -edifici e citta'- accuratamente adattati alla misura e ai limiti della dotazione originaria e strutturati in modo da favorire il costante contatto faccia a faccia, occhio a occhio, a portata di orecchio e di mano. La vita nei luoghi pre-cyborg era un'esperienza molto differente. Si doveva essere realmente lì" [Ivi, p. 29].



in realta' il materialismo non ci dispiace troppo.
ma il fatto di fare a meno dell'anima non autorizza a certi parallelismi un po' troppo facili, o almeno non autorizza a presentarli come saggi e scrittura accademica.
ci piace invece inserire mitchell tra la fantascienza, e rimandare il lettore a bruce sterling e william gibson, onesti scrittori che si limitano a immaginare un futuro conseguente a "cosa succederebbe se..."

Ritornando a più ragionevoli teorizzazioni, deciso avversario dell'architettura-comunicazione, era Cesare Brandi. Ora più che mai si comprende la sua distinzione teorica fondamentale fra semiosi ed astanza, formulata in anni non sospetti di moda informatica: "la casa non comunica d'essere una casa, non più di quanto la rosa comunichi di essere una rosa: la casa, il tempio, l'edificio termale si pongono, si rendono astanti o come realta' di fatto o come realta' d'arte, ma non sono tramite di comunicazione: solo in via subordinata trasmettono delle informazioni" [C. Brandi, Struttura e architettura, Einaudi, Torino 1967, p. 37]. Benché quella via subordinata non sia affatto trascurabile, implicando discipline quali l'iconologia e la semiologia, ai fini del nostro chiarimento dell'idea dell'informazione come nocciolo dell'architettura, l'assunto di Brandi è quasi totalmente da sottoscrivere. Altrettanto significativo è il giudizio di Ithiel de Sola Pool, studioso degli aspetti economico-sociali connessi con le telecomunicazioni, il quale sostiene: "non c'è ragione di credere che le citta' e i loro grandi centri (downtowns) siano destinati a sparire". Pur ammettendo che le telecomunicazioni possano dar luogo a numerose "comunita' senza contiguita'", disperse in un vasto territorio, egli revoca in dubbio che questo modello possa diventare dominante: "è una pura fantasia immaginare che le telecomunicazioni possano condurre la gente a vivere in isolamento fisico. È infatti poco realistico giacché gran parte dell'attivita' umana non consiste soltanto nell'interscambio di informazione ma comporta anche l'azione sogli oggetti fisici". [Cit. in T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997, p. 96].

che al mondo ci siano cose che trascendono i dati e i loro supporti (fatte salve certe visioni della fisica quantistica, ma invocarle in questa sede sarebbe barare) non ci piove. fa fisicita', la presenza, il mondo di paneformaggiobirramartellomattoneterme e' li', con buona pace del vescovo berkeley.
ma si puo' dire che noi interagiamo con esso solo grazie ad un'interpretazione culturale. la fisicita' della rosa e' irrilevante, la rosa in realta' e' un erbaccia con le spine, fino a quando non interviene una interpretazione che la trova bella ed appropriata per i nostri giardini (e non per i cimiteri).
quindi e' vero che la casa e le terme trasmettono informazione solo in via subordinata, pero' e' anche vero che il cosmo delle realta' di fatto (e basta andare in giappone per scoprirlo) e' muto e insoddisfacente, se non e' accompagnato da tutta l'informazione necessaria.

anche noi siamo d'accordo che i downtown continueranno ad esistere.
pero', il solo fatto che le comunita' senza contiguita' nascano e si diffondano e' gia' una bella trasformazione.
la citta' diffusa mica nega i centri storici.
piuttosto, aggiunge un layer di edifici, funzioni, relazioni a un sistema dato.




e lo sviluppo e' sempre nei soliti posti.
anche perche' le persone sono attirate nei luoghi da diversi fattori, e non solo dalle potenzialita' di lavoro o di network.
in principio uno potrebbe mettersi a cablare freneticamente una regione periferica come la sardegna, anzi e' stato fatto.
pero' ancora, trasferirsi a cagliari per tante ragioni (i trasporti, la disponibilita' di beni/servizi/cultura) attrae molti meno che trasferirsi a milano o torino.

temiamo proprio che sul downtown (o il centro citta' in Italia) le tecnologie di banda larga (wireless, fibre ottiche, terza generazione, quello che volete) abbiano il solito effetto di retroazione positiva, cioe' che il centro diventa grazie a loro ancora piu' centro.
per esempio, fastweb (www.fastweb.it) vi garantisce oggi la connettivita' piu' veloce, economica e di qualita' che ci sia in italia.
e dove e' disponibile?
nei soliti posti, roma, milano, torino...




E quest'ultimo assunto costituisce, a mio avviso, la chiave dell'intera questione reale-virtuale. Esso infatti ci porta ad un binomio di cui più volte mi sono avvalso per sciogliere nodi di varia natura, quello di conformazione e rappresentazione. Forse ogni operazione umana, ma limitiamoci al campo dell'arte, comporta una componente conformativa ed una rappresentativa; ciò che conta è riconoscere, nei vari casi, la prevalenza dell'una sull'altra. La pittura e la scultura, che pure implicano un lavoro di conformazione, sono prevalentemente rappresentative; l'architettura e il design, che pure implicano un lavoro di rappresentazione, sono prevalentemente conformative. Ciò peraltro spiegherebbe la difficolta' di trovare un referente per l'architettura, una volta assodato, contrariamente a quanto si riteneva, che essa imitasse, sia pure con modalita' diverse, la natura.

Ora, la gran parte dell'apporto digitale all'architettura va assegnato alla componente rappresentativa, che va dall'iconico al semantico, dal virtuale al possibile -e ricordiamo che il reale è solo un caso del possibile-, dalla comunicazione all'informazione. Tutte queste facolta', evidentemente di grande importanza, per essere "architettoniche" devono sostenersi sulla componente conformativa, che va dallo spazio degli invasi interni alle singole fabbriche, penetrabili ed agibili, al volume dei loro involucri esterni, dalla solidita' della materia alla sua trama, dal gioco tangibile dei pieni e dei vuoti al fenomeno per cui ogni architettura contiene uno spazio ed occupa uno spazio; insomma tutte cose che sono percepibili e che si toccano con mano. Parafrasando un grande filosofo della conoscenza, non siamo noi a doverci adattare alla tecnologia, ma questa alle nostre capacita' conoscitive.

l'osservazione di de fusco, se ben capiamo, e' che l'informatica applicata all'architettura risolve benissimo un problema, ma questo e' il problema minore.
ci rimane solo da dire che l'informatica in futuro potra' entrare in azione anche sul problema maggiore, fornendo in primo luogo spazi tangibili e percettibili (illusori, certo, ma non piu' di un plastico) e in secondo luogo fornendo nuovi strumenti al cantiere e alla costruzione



senza contare che il discorso fila perfettamente.
(fino a quando ripensiamo a quel vecchio puttaniere di oscar wilde e alla sua celebre "l'unica cosa realmente indispensabile e' quella superflua").

infine,
il grande filosofo della conoscenza ha sicuramente ragione.
la tecnologia dovrebbe adattarsi a noi e non viceversa.
orribilmente, limitandoci ad osservare il mondo attorno a noi (senza dare giudizi, semplice osservazione), possiamo dire che il processo terrificante (tecnologia che modifica, organizza, schianta la nostra vita) e' quello al momento imperante.
da cui,
o andiamo in cima alla montagna (cosa che ci sembra noiosa e faticosa), oppure ci rimbocchiamo le maniche e ci facciamo carico di questa ennesima ambiguita'/contraddizione.

verrebbe da dire che la tecnologia e il suo mercato vanno avanti da se', per loro natura, per una necessita' che si potrebbe riportare in conclusione alla societa' del consumo. A noi che abbiamo il lusso di guardare tutto il processo un po' dall'alto viene concessa l'opportunita' di deviare la tecnologia verso usi e funzioni che piacciono a noi, per esempio leggere e scrivere arch'it. o anche inventarci linux



non va dimenticato che il fenomeno commerciale che rende possibile linux e' la banalizzazione del PC, ora diventato oggetto da 1000 dollari – ma questo fenomeno e' reso possibile solo da windows, che e' orribile da diversi punti di vista.
ed eccoci abbracciati al diavolo in persona...

Avviandoci alla conclusione, tocchiamo l'aspetto più pratico del rischio dell'architettura informatica, almeno quella teorizzata da alcuni autori. Che uno scrittore di fantascienza, un fanatico futurologo, un tecnologo "puro" auspichi un mondo tutto on line, virtuale al punto di rinunciare ad ogni piacere dei sensi, è comprensibile, ma che lo stesso atteggiamento sia condiviso da un architetto risulta inconcepibile. La questione non è se oggi sia possibile, come in tanti altri campi, l'esistenza di un'architettura virtuale, tutta affidata alle immagini e non alla sua materiale spazialita' -e, a mio avviso, gia' questo è impossibile-, ma se "vogliamo" che sia così, ovvero se siamo disposti a rinunciare a tutte le categorie che da sempre hanno costituito lo specifico dell'architettura.



una terza possibilita' e' questa; potrebbero esserci dei progetti, delle fabbriche che sono impossibili da costruire senza il contributo dell'informatica nella fase di progetto.
non sarebbe scandalo, credo; gia' ora la complessita' di molti oggetti quotidiani (una comune automobile; un banale lettore di cd) eccede la capacita' costruttiva umana se essa non e' assistita dall'informatica.
ed e' lo stesso per servizi come la logistica o la distribuzione di energia elettrica.

Ora, se non vogliamo perdere tale specificita', bisogna contrapporsi a chi si oppone al "costruire", a chi vede in ogni nuovo edificio una minaccia per l'ambiente preesistente, a chi vede nel mercato delle costruzioni solo l'espressione della speculazione edilizia, a quegli urbanisti che riducono tutto il problema dell'architettura ad un rapporto di indici, a quegli statistici che sostengono, in fatto di residenza, che i vani costruiti sono in esubero rispetto al numero degli abitanti, a tutti i conservatori di vario ordine e grado. Se a queste difficolta' ideologiche, politiche, amministrative, burocratiche che sono contro il "costruire" aggiungiamo le teorie di questi utopisti dell'anti-spazio, della virtualita', dell'immaterialita', ecc., diamo sostegno alla politica del non-fare, peraltro avallato da una tecnologia che in altri campi sta dando prove meravigliose. Ecco perché riteniamo che Internet, assunta come l'emblema dell'apparato informatico, sia fenomeno di enorme rilievo, ma che ciononostante non s'addica all'architettura.

di recente stavamo parlando con un fotografo che aveva fatto una serie di immagini in mezzo ad una sommossa notturna, con luce poca e cattiva.
il fotografo trovo' necessario osservare che aveva "deciso" di lavorare sul mosso, sullo sfuocato e sullo sgranato... un commentatore malvagio potrebbe osservare che gli sarebbe stato difficile, a meno di muoversi con un faro e un treppiede, lavorare sul tema del supernitido a grana fine.
puo' essere che la passione per l'architettura virtuale sia una espressione di frustrazione per il fenomeno dei mille concorsi – cento vincitori – dieci finanziamenti – una sovrintendenza che ti blocca.

mah...
chissa'...
forse bisogna pensarci un poco di piu'...


(le immagini che illustrano questo articolo sono tratte dalle carceri di giovan battista piranesi)



(3. fine)

[14jul2003]

simple tech

la sezione Simple tech
for a complex world
è curata da
Stefano Mirti
e Walter Aprile


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