SOPRALLUOGHI


Sarah Sze, Everything that Rises Must Converge. Appunti sull'installazione


di Luca Marchetti



Sarah Sze
Fondation Cartier pour l'Art Contemporain, Parigi
11 dicembre 1999 - 12 marzo 2000
261, Bd Raspail, 75014 Paris
tel +33 1 42185651
fax +33 1 42185652
http://www.fondation.cartier.fr
ufficio stampa: Linda Jarton-Chenit
l.chenit.fonda@dial.oleane.com




Sistemata a livello del giardino, l'installazione appare da fuori attraverso le pareti di vetro della Fondazione Cartier. Everything that Rises Must Converge si può vedere per intero solo da lontano, muovendosi nella strada, come si osserva in distanza lo skyline di una città. E' un'unica struttura, molto articolata che attraversa in lunghezza i tre ambienti del piano terra. Le costruzioni coniche, collegate tra loro e alte vari metri, si protendono dal soffitto verso il basso senza toccare mai il pavimento. La maggior parte delle strutture più evidenti è in profilati di metallo fissati l'uno all'altro con viti o morse. Su questo reticolato, spesso in forma di spirale, proliferano tubi di gomma, piume, piante, ferramenta varia e centinaia di altri oggetti più o meno minuscoli di ogni colore. Alcuni sono allineati maniacalmente a formare "figure", altri sono semplicemente incollati, legati. Nella reception della galleria mi accorgo che i materiali dell'installazione sono innervati in quelli dell'edificio: un tentacolo fatto di paccottiglia colorata ha catturato la lampada del tavolo d'ingresso e un ponte di scale pieghevoli in alluminio e plastica rossa attraversa sospeso la mezzanine della biblioteca. Tra questi volumi aerei, in un delicato equilibrio tra pieno e vuoto, si passeggia in silenzio. Immersi in un paesaggio.

Paesaggio urbano. Forse è la grande dimensione delle strutture e la sproporzione tra gli elementi portanti e le folle di oggetti che li abitano, che fanno pensare al paesaggio urbano. La stessa dialettica tra caos ed ordine che fa crescere la città sembra permeare anche questo microcosmo. Qui i materiali, tutti presi dall'ambiente domestico, suggeriscono che l'urbanità, o meglio la dimensione della casa potrebbero essere alla base di una (nuova?) visione dell'intero universo. Certo, quello che prende forma qui è uno spazio fragile, in difficile equilibrio. Ma "fragile", al di là dell'evocazione di un'idea di rottura, può avere un significato produttivo: significa non stabile, pronto a mutare, a piegarsi e a deformarsi, proprio come il tessuto urbano. E soprattutto, questo non è uno spazio epurato, idealizzato, ma organico ed evoca quella deriva di forme che troviamo in certa architettura di nuova concezione.

Gioco. Il piacere e l'ironia emergono in maniera provocatoria da ogni piccola scelta fatta nell'installazione. Dai plotoni di piume di struzzo tutte in fila come soldatini, al guscio d'uovo fissato con una spilla da balia, la gratuità giocosa dell'installazione rimanda direttamente al piacere di costruire, quindi di assegnare un (dis-)ordine alle cose e allo spazio. E la stessa gratuità del fare per gioco, è rivelata dal lato macchinico dell'opera. Possibili metafore dell'attività urbana, le macchine dell'installazione (ventilatori, caloriferi, lampade) non modificano mai la materia ma producono al massimo trasformazioni incorporee: solo luce, calore, vento, muovendo magari un tessuto o una piuma. Per fortuna il contemporaneo (in tutti i settori ormai) sta rivalutando appieno il carattere ludico dell'esperienza. Non solo da un punto di vista estetico, ma anche funzionale. Il gioco entra nella fase di concezione e non si applica solo alla superficie delle forme e dei colori.

Estetica e funzione. Il fare architettonico in senso allargato è quindi al centro del lavoro di Sarah Sze. Da una parte vi si ritrova la stessa attenzione all'estetica della trasparenza e della precarietà messe in opera dall'architettura contemporanea. Il lavoro "per sottrazione" è evidente nelle strutture che si esprimono più per vuoti, per prodigiosi equilibri statici e per assenza di superfici piene che per accumulazione decorativa. Dall'altra, il lato funzionale dell'architettura emerge proprio dall'ibridazione tra strutture dell'opera d'arte e il preesistente, cioè l'edificio che la ospita. Come dire che questa relazione porta l'architettura allo scoperto perché ne verifica la capacità d'interagire con il resto. Forse si può dire che in questo caso l'arte rivela l'architettura?

Rizoma. L'opera di Sarah Sze si propaga nello spazio come un organismo, cercando i punti migliori per aggrapparsi, trasformando le strutture già esistenti in sostegni, o semplicemente integrandole per aggirarle ed andare oltre. Così si formano e procedono le strutture rizomatiche secondo il pensiero di Deleuze: attraverso sostanze molteplici e secondo linee di fuga imprevedibili. Se il rizoma è un'alleanza tra entità diverse, Sarah Sze lo rappresenta bene: l'opera d'arte e la struttura architettonica alleate in un'unica realtà che presenta continuità formale ed estetica. L'installazione valorizza l'architettura perché ne chiama in causa la struttura, ne scopre le possibilità e nuovi "usi". Insieme, queste sono una sola entità senza vere gerarchie d'importanza e senza un inizio o una fine.

Forse più di qualsiasi discorso teorico, l'idea di "alleanza", in questo caso stabilita tra l'opera della Sze e gli ambienti della Fondazione Cartier, potrebbe interessare la polemica tanto attuale sul modernismo e il minimalismo in generale. Che alleanza si può stabilire con un ambiente epurato e liscio, ideato secondo rapporti compositivi che non aprono su nulla ma entrano in relazione soltanto con altri rapporti identici? Incastri ortogonali, intersezioni, parallelismi... Allora andiamo fino in fondo. Se consideriamo l'installazione come metafora dello spazio abitabile e della vita organica, non potremmo considerare la possibilità dell'alleanza di questa con l'edificio come la verifica sul campo per un'architettura "a venire"? Sarebbe come per la moda: è l'alleanza tra abito e corpo che permettere all'individuo di realizzare molte delle funzioni sociali. Un abito che impedisce il movimento, o che non è presentabile di fronte ad altri individui non avrebbe ragione di essere. Sarebbe inaccettabile. Il risultato della "verifica", il senso dell'alleanza, porta a considerare la concezione dello spazio architettonico resa possibile dall'uso delle tecnologie digitali. Anche senza effetti speciali, senza monitor o videoproiezioni, lo spazio di Sarah Sze è uno spazio fluido attraversato da strutture sempre flessibili che aprono su una molteplicità di funzioni; alcune restano in potenza, altre sono realizzate. I concatenamenti che genera non escludono certo l'ortogonalità a priori ma non ne fanno una dimensione privilegiata.

Luca Marchetti
marchetti@tin.it




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