SOPRALLUOGHI

Museo ebraico a Berlino

di Matteo Zambelli



[24sep2000]

Dettaglio della torre dell'Olocausto.
ARCHITETTURA EMOTIVA. L'accesso al museo ebraico avviene dal vecchio museo. Entro. Mi trovo nel vestibolo. Devo attraversare una porta girevole un po' scomoda. La attraverso. Di nuovo una porta, la passo e mi accoglie la mutria inespressiva di guardie, davanti ad un'altra porta, con un aggeggio in mano con il quale accarezzano le persone lungo tutto il corpo. L'aggeggio è un metal detector. Perché? non importa; finalmente sto per entrare nel museo.

L'accesso è uno squarcio nella parete bianca. Muri neri, spigolosi, inclinati fuoriescono. Ecco le scale, sono molto scure. Bisogna misurare i passi, scendere con cautela. Dalla luce naturale diffusa e riposante si passa alla luce dei neon, algida, senza modulazioni, fredda. Uno shock. Le scale conducono ad un percorso, che a un certo punto viene sdoppiato da un muro acuminato. Procedo dritto e dopo alcuni metri un altro percorso attraversa il mio, mi volto a sinistra e mi accorgo che comincia da un muro cieco, nero, respingente. Lo sguardo fugge a destra e corre lungo un corridoio per sbattere su una porta, ancora nera. Si apre e sono dentro la torre dell'olocausto. L'improvviso tonfo sordo della porta che si chiude fa trasalire. Il senso di claustrofobia angoscia, non c'è neppure una finestra attraverso cui guardare, anzi sì c'è, è una feritoia, è lassù in alto. Impossibile vedere fuori. La luce che filtra si scolora prima di arrivare a terra. Tutto è cemento grigio.



La torre dell'Olocausto.

La torre dell'Olocausto, il museo, il giardino di ETA Hoffmann.

Ma perché non si levano di torno queste persone, voglio respirare. Sì respirare. Ma da dove arriva l'aria, forse da quei piccoli fori tondi sulla parete, ma cosa diffonderanno? Aria? Da fuori provengono suoni deformi, attutiti, è difficile sentire. Per fortuna, qui vicino a me, c'è una scala che porta al tetto, ma come faccio a salirci, è troppo in alto, neanche montando sulle spalle di qualcuno. Scattano i flash. Poco male. Torno in me.

La porta finalmente si apre, scatto fuori. In distanza si intravede ancora il tragico muro nero. Voglio aria, colori. Un flebile alito di luce interrompe la penombra, mi affretto e scorgo finalmente un'uscita verso ambienti meno claustrofobici. Una porta vetrata mi si spalanca, finalmente sono all'aria aperta. C'è un muro di cemento che mi avvolge e avvolge un giardino di pilastri di cemento, quarantanove. Il muro è molto più alto di me, ma almeno il cielo e qualche tetto lo vedo pure. Sono però a disagio. Il disagio è provocato dal pavimento su cui cammino che è inclinato di pochi gradi, quello che basta per farmi venire il mal di mare e una sensazione di vertigine. Mi immergo nella selva di pilastri, in sommità ci sono strani alberi. Non riesco a toccarli, né mai ce la farò. Credevo di perdermi in mezzo a questa selva di pilastri e invece sono sempre dentro il recinto. Gli alberi mi coprono, mi offrono ombra e riparo, però sono sempre qui, in questo recinto interrato che ormai conosco tutto.

Basta. Torno dentro all'edificio dove ho cominciato questa visita. Io posso farlo. Vedo in lontananza delle scale, le raggiungo. Sono ripide e portano velocemente verso l'alto. La stretta calle che percorro è dilaniata da minacciose travi inclinate che incombono sopra la mia testa. Ma almeno lassù, proprio lì, in sommità, dove la luce è abbondante, si diradano e poi scompaiono. Salite le scale sono più tranquillo, posso guardarmi indietro senza paure.



ARCHITETTURA PARLANTE. Il Museo Ebraico di Berlino documenta la ritrovata capacità di parlare dell'architettura e soprattutto di essere compresa, senza bisogno di intermediazioni e filtri esplicativi. E quello che più stupisce nel Museo Ebraico di Berlino è che le interpretazioni sono congruenti con il programma "iconografico" di Libeskind. Un programma iconografico in cui "il rischio, ben evidente, di una tematizzazione dello spazio architettonico troppo legata ai registri narrativi del meraviglioso e del patetico appare disinnescato dalla disciplina faticosa del silenzio e della rinuncia alla parola troppo sonora". (De Michelis)

Il postmoderno aveva lamentato l'ascetismo dell'architettura razionalista e funzionalista, la sua intransigenza comunicativa, il suo autismo nei confronti dei fruitori medi. Molta architettura postmoderna ha cercato di ritrovare la capacità comunicativa perduta attraverso il recupero di linguaggi codificati oppure vernacolari. Questi per un po' di decenni sono sembrati l'unica risposta alla incapacità comunicativa dell'architettura moderna. Ma oggi una serie di capolavori la hanno riconquistata attraverso un linguaggio autonomo, non con pastiche stilistici o forme morte.


Dettaglio della facciata orientale.

La scala che distribuisce ai piani del museo.


Dettaglio delle travi "incombenti".
Zaha Hadid nella stazione dei vigili del fuoco ci parla attraverso lame di fuoco in cemento fermate nell'attimo in cui qualcosa gli è stato gettato sopra per estinguerle. Il Nunotani Corporation Headquarters di Peter Eisenman rappresenta un edificio terremotato mentre sta per crollare. Gunther Domenig si costruisce una casa che sembra una montagna con tanto di crepacci e scoscendimenti, che non ha nulla da invidiare alle rocce che le fanno da sfondo. Gehry nel progetto per la Walt Disney Concert Hall progetta una convulsa gara nautica con tanto di vele gonfiate dal vento e a Bilbao realizza un fiore, un esplosione, una balena nell'arenile. Kas Oosterhuis a Neeltje Jans progetta il museo dell'acqua salata e la sua forma non si sa se sia un girino, un verme strisciante, un pesce che sta guizzando fuori dall'acqua.

Il Museo Ebraico di Libeskind è una saetta zigzagante, ma anche una stella di Davide distorta. Il museo è l'una e l'altra cosa. È simbolo della stella di Davide, è lo zigzag della saetta, metafora della catastrofe che si è abbattuta su di un popolo e sulla storia mondiale, oltre che ebraica. L'indecidibilità del significato del volume progettato da Libeskind, come dei progetti dianzi citati, è dovuta, direbbe Antonino Saggio, al "processo di metaforizzazione che investe buona parte dell'architettura di oggi".
(1) La figura retorica della metafora, quella più usata, assicura la polidirezionalità del significato, definisce delle architetture polisemantiche, cioè aperte alla libertà interpretativa. La pubblicità insegna che un prodotto non deve solo funzionare, ma deve raccontare una storia, che diventa più importante delle qualità del prodotto. Anche in architettura oggi un edificio non deve solo funzionare, deve dire qualcosa di più, deve rimandare ad altro.(2)

Detto del significato dello zigzag, si venga agli altri significati del Museo Ebraico, moltissimi. Il museo è un volume introverso, non ha un'entrata diretta dall'esterno. Per accedere alla sezione ebraica del museo bisogna passare dal vecchio edificio, essere inghiottiti da uno squarcio e scendere. A questo punto ci si trova di fronte ai tre percorsi che distribuiscono al museo. I tre percorsi (strade) simboleggiano i diversi destini del popolo ebraico. Quello drammatico dell'Olocausto interseca le due strade che conducono rispettivamente verso il giardino di Eta Hoffmann ,che simboleggia l'esilio, e alla scala, che rappresenta la continuità della storia del popolo ebraico e la speranza. L'intersezione sta a significare che l'Olocausto riguarda sia la storia di chi si è salvato attraverso l'esilio, sia la storia di chi, sebbene ebreo, non ha vissuto in prima persona la Shoah.

Il percorso che indirizza alla torre dell'Olocausto, parte da un muro nero. Il nero diventa il simbolo di presagi infausti, il simbolo della tragica assenza della luce della ragione e dell'amore, il simbolo dell'obnubilamento dell'uomo, del suo annichilimento. Alla fine della strada c'è una porta anch'essa nera. È spessa e pesante e quando si chiude, il suo tonfo non lascia speranza a chi è dentro il vuoto della torre.

Dentro la luce è indiretta, penetra da una stretta feritoia in alto da cui non è possibile vedere fuori e capire dove si è, così come accadeva agli Ebrei nei campi di concentramento, non sapevano dove si trovavano, perché non potevano vedere lontano. Lì era anche impossibile sentire notizie, se non imprecise, alterate; all'interno della torre i rumori provenienti dall'esterno sono attutiti, deformati, distorti e creano una condizione di inquietudine e attesa.


Dettaglio di finestre.
Le pareti e il pavimento sono in cemento armato, non c'è nessun tipo di climatizzazione, se c'è caldo si dovrà sopportare la canicola, se c'è freddo il freddo. Nei campi di concentramento non c'erano comfort. Ed ora due necessità tecniche che si sono trasformate in simboli molto pregnanti, i fori per l'aria e la scala per la pulizia del tetto. L'aria entra attraverso pochi fori praticati su una parete, che richiamano quelli attraverso cui veniva immesso il gas nelle camere di morte. La scala può servire per scavalcare muri di recinzione e in taluni casi può rappresentare un mezzo di fuga verso la salvezza. Anelito di salvezza che certamente ha animato i deportati nei campi di concentramento. Ma qui la scala è irraggiungibile anche montando sulle spalle di qualcuno. La salvezza per molti ebrei è stata una speranza delusa.

La seconda strada porta al giardino di E.T.A. Hoffman,
(3) metafora dell'esilio. Il giardino è sotto terra e un alto muro di cinta in cemento armato ne definisce la forma quadrata. Una rampa perimetrale fa pensare ad una via di fuga che viene impedita da una porta chiusa che non consente l'uscita. Oltre il muro si vedono però brandelli di cielo e di edifici, a differenza della claustrofobica torre dell'Olocausto. Il recinto indica la condizione di prigionia a cui gli ebrei in esilio furono loro malgrado costretti. Il piano di calpestio è un dispositivo attuato per esprimere il disagio dell'esilio in terra straniera; è infatti inclinato di sei gradi, e questa lieve pendenza fa venire il capogiro. Camminare diventa un precipitare alla ricerca dell'equilibrio perduto.


Le travi "incombenti" sulla scala.

Il "fiume d'anime" nel giardino di Paul Celan.
Dentro il giardino quarantanove pilastri a base quadrata in cemento armato sono coronati da alberi. I pilastri definiscono una specie di labirinto soffocante che alimenta sempre più il disagio e il desiderio di evasione. I quarantanove alberi fanno pensare ad un bosco, quindi a una natura benigna, solo che non si possono toccare, sono posti troppo in alto. Gli alberi irraggiungibili rappresentano la speranza di un ritorno in patria per molti ebrei impossibile, ma gli alberi mettono radici anche in un ricettacolo così angusto e impervio come quello offerto dai pilasti cavi, così come chi, pur trovandosi in una disagevole e lontana terra straniera, ha la possibilità di radicarsi e trovare nuova linfa per continuare a vivere in un'altra patria.

Per Libeskind il giardino rappresenta il naufragio della storia: "si entra e si prova l'esperienza di qualcosa che disturba. Sì, è instabile; ci si sente un po' male camminandoci dentro. Ma è voluto, perché è la stessa sensazione che si prova lasciando la storia di Berlino... È quasi come navigare con una barca; è come essere in mare e scoprire d'improvviso che ogni cosa sembra diversa."

La terza strada è rappresentata da un percorso che conduce ad una lunga scala che distribuisce alle sale espositive disposte su tre piani. È un percorso ascensionale illuminato dall'alto con lucernari e finestre laterali. Indica la continuità della storia e la speranza, la scala è interrotta da un muro, ma nulla lascia intendere che essa abbia termine, sottolineando la vita va avanti. La stretta e alta calle della scala è intersecata da un intrico di travi strutturali inclinate che drammatizzano lo spazio, simboleggiando forse le minacce sempre presenti e ricorrenti nella storia.

Il drammatico zigzag che dà forma al museo è attraversato da una linea retta. L'intersezione della retta con lo zigzag determina sei vuoti non praticabili di forma trapezoidale che interrompono l'articolazione degli spazi museali. Il vuoto è il tema portante del museo perché è la traduzione spaziale (simbolica) dell'assenza che si è insediata nel popolo ebraico dopo l'Olocausto. È l'assenza di milioni di morti e delle loro vite. È il vuoto che documenta come resti ben poco della cultura ebraica a Berlino -piccoli oggetti, documenti e materiali di archivio- che evocano più un'assenza che una presenza. Questo vuoto di Berlino è stato reso fisicamente percepibile. Ma il vuoto può rappresentare anche l'assenza di Dio durante la Shoah, il suo silenzio durante lo sterminio nazista.


Uno dei vuoti.
Se all'interno del museo il vuoto è uno scavo, esternamente è un volume in cemento della stessa forma dei vuoti; il volume ospita la torre dell'Olocausto. Libeskind lo ha definito Voided Void, cioè il vuoto del vuoto, perché rappresenta all'esterno il vuoto all'interno del museo, ma, essendo la torre dell'Olocausto, è anche che il vuoto di una assenza, di un nulla, quella di milioni di ebrei trasformati in polvere.

Il progetto di suolo è curatissimo, tutto in blocchetti di porfido con continui inserti di pietroni neri e bianchi e lunghi e stretti appena sbozzati, che si aggrumano attorno allo zigzag e in particolare là dove esso forma una piazza. Mi piace pensare a questa soluzione di dettaglio per la pavimentazione, come a un simbolico fiume di anime, quelle del vuoto e dell'assenza, che vogliono vegliare sul museo, che documenterà la storia e le tradizioni del popolo ebraico a Berlino e in Germania, quindi anche la loro storia. Nella pavimentazione c'è un elemento di tragicità, una rotaia di un binario ferroviario che drammaticamente fa ricordare i treni delle deportazioni in massa ai campi di concentramento.

Le facciate non presentano finestre tradizionali, ma squarci obliqui di diverse dimensioni. È una grammatica di segni incomprensibili, che definiscono un palinsesto oscuro. A me piace pensare a questi segni come linee immaginarie che uniscono le vite estinte. Quelle stesse vite che sono impresse in quei due drammatici libri di deportazione di Berlinesi, che hanno costituito uno dei riferimenti progettuali di Libeskind. Dall'interno questi tagli permettono di guardare verso l'esterno, ma sempre in modo scomodo e disagevole, come a voler esprimere ancora oggi la difficoltà di essere ebrei a Berlino.




L'ingresso al Museo Ebraico dal Museo di Berlino.


Il giardino di ETA Hoffmann.
INFINE una nota a margine sul modo di progettare di Libeskind. Vorrei introdurre il concetto di opera d'arte come paradigma dell'architettura.(4) Lo zigzag del museo ebraico non è una novità per Libeskind, una scultura intitolata Lines of Fire aveva la stessa identica forma, ed era stata realizzata come rammemorazione tragica di un incendio che aveva bruciato delle sculture del Nostro. Un'altra scultura del 1986, le "Writing Machine", preludeva al giardino di E.T.A. Hoffman. Quindi le forme degli elementi che caratterizzano il museo erano già state concepite e realizzate, anche se in scala ridotta come sculture. Questa strategia appartiene anche ai Coop Himmelb(l)au, a Zaha Hadid, a Gehry anche se in modo un po' più mediato. Costoro sono tutti accomunati da ricorrenti incursioni nella scultura e nella pittura dove provano e sperimentano forme, materiali, esercitazioni "compositive", che poi alimentano la pratica architettonica. Nella scultura e nella pittura infatti c'è una libertà impossibile laddove si va incontro a problemi economici e funzionali. Gli scambi e le traslazioni di metodi, di morfologie fra architettura e arti plastiche sono sempre state frequenti nella storia dell'arte, magari più unilaterali, cioè dalle arti plastiche all'architettura, per una capacità di rinnovamento delle prime molto maggiore; comunque le ibridazioni non sono mancate.

Ma qui sta l'errore volendo dar retta a Boccioni: "non v'è pittura, né scultura, né musica, né poesia, non v'è che creazione". Questi architetti, pardon artisti, lo hanno capito e stanno realizzando opere d'arte, perché il museo di Berlino è un'opera d'arte, così Bilbao, così la Steinhaus di Domenig e... Il fatto di godere dello statuto di opera d'arte ha anche una ricaduta sulle architetture perché le preserva dalla rapida obsolescenza essendo l'opera d'arte uno dei pochi valori di sicurezza. Per Moneo
(5) progettare edifici come opere d'arte è una sottile strategia, per assicurargli un futuro duraturo in una realtà in cui la vita media di un edificio è molto molto breve. La prerogativa di vita di un edificio allora non dipende dalla sua funzionalità o da ragioni utilitaristiche, ma dalla sua promozione alla condizione di opera d'arte e in quanto tale degna di essere preservata.

Matteo Zambelli
zambelli@idau.unian.it








note

Tutte le immagini sono di Matteo Zambelli.
(1)
Antonino Saggio, "La rivoluzione informatica", in Costruire n°180, maggio 1998, pp.156-159. Cfr. Antonino Saggio, "Nuove sostanze. L'informatica e il rinnovamento dell'architettura", in Il Progetto 6, gennaio 2000, pp. 32-35 e Antonino Saggio, "HyperArchitettura", p. 82, in Luigi Prestinenza Puglisi, HyperArchitettura. Spazi nell'età dell'elettronica, Testo & Immagine, Torino 1998.
(2) Saggio, op .cit., p. 157.
(3) Compositore e poeta che proprio all'interno della Kollegenhaus -l'attuale Museo di Berlino dal quale si accede al Museo Ebraico- si guadagnava da vivere.
(4) Espressione coniata da Josep Maria Montaner, Dopo il movimento Moderno, Laterza, Bari 1996, p. 231.
(5) Rafael Moneo, "Reflecting on two concert halls. Gehry versus Venturi" in El Croquis 64, I 1994, 169.






Per approfondire:
- Livio Sacchi, Daniel Libeskind. Museo Ebraico, Testo & Immagine, Torino 1998.
- "Daniel Libeskind, Jewish Museum Berlin", G+B Arts International 2000.
- "Daniel Libeskind 1987-1986", El Croquis 80, IV 1996.
- Marco De Michelis, "Museo Ebraico, Berlino" in Domus 820, novembre 1999, pp. 32-41.






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