Sopralluoghi

Successi Radicali d'oltralpe

di Carlotta Darò



[13jun2001]
Sono ormai ovunque. Il fenomeno di recupero e rilettura dell'architettura Radicale continua a regalarci sorprendenti retrospettive acquistando un valore storico sempre più determinante. Il 27 maggio si è conclusa l'esposizione "Architecture Radicale" all'Institut d'Art Contemporain di Villeurbanne, curata da Jean Louis Maubant e Frédéric Migayrou; mostra che viaggerà, in seguito, verso altre tappe europee (Valencia, Londra…). Un'esposizione chiara e elegante che mostra tematicamente la ricerca degli architetti radicali di diversi paesi, grazie a un'incredibile ricchezza di materiale ancora mai esposto dal tempo della sua stessa creazione.


Superstudio, Pulizie di primavera, 1973.


Gruppo Cavart e Michele De Lucchi, La Portantina, 1976.
Cominciando dal ritorno all'alfabeto originale dell'architettura (con gli Istogrammi di Superstudio) si procede verso tematiche sempre più vaste che conducono i limiti della disciplina stessa verso nuovi orizzonti d'indagine: il territorio della città, la città macchina, la città "pop", quella delle megastrutture, la casa gonfiabile o quella impilata (finalmente si vedono esposti gli splendidi modellini di Michele De Lucchi delle Architetture culturalmente impossibili), la casa decostruita o reinventata, il monumento ironico o le azioni effimere. Grazie all'acuto interesse di Migayrou il panorama dei radicali italiani conosciuti oltralpe si allarga sempre di più. Oltre al lavoro ormai ben noto di Archizoom, Superstudio, UFO, Ettore Sottsass e Gaetano Pesce, vengono ampiamente analizzati i lavori di Ugo La Pietra, Gianni Pettena (al quale verrà riservata una mostra monografica al Frac d'Orléans nel prossimo novembre), Franco Raggi, Alessandro Mendini, Riccardo Dalisi, il gruppo Strum, Michele De Lucchi e Cavart.

Altrettanto eleganti e significative sono le due nuove sale espositive dedicate al lavoro di Superstudio, nel nuovo allestimento della collezione del Museo Nazionale d'Arte Moderna del Centro Pompidou. Protagonista di questa scelta è di nuovo Frédéric Migayrou, recentemente diventato Conservatore del dipartimento di architettura e creazione industriale del Pompidou. Una scelta senza dubbio meno didattica, ma di assai più forte impatto rispetto all'affollato panorama dell'allestimento precedente della sezione di architettura diretto da Alain Guiheux (al quale va comunque il merito di aver introdotto nella collezione opere di numerosi radicali internazionali). In realtà questa posizione meno audacemente enciclopedica rientra nella politica generale del nuovo direttore del Museo Alfred Pacquement, che mira a un rinnovamento regolare di alcune sezioni del Museo (circa ogni tre mesi), accettando dunque alcuni momentanei "buchi storici" a beneficio di analisi individuali più profonde.


Ugo La Pietra, La grande occasione, 1973.

UFO, Progetto di restaurazione di un fienile, 1970.
Le due sale dedicate a Superstudio permettono una conoscenza completa e chiara della polivalenza del loro lavoro: dagli emblematici istogrammi (sia i prototipi che la successiva produzione in serie dei mobili Quaderna), ai progetti, fotomontaggi, disegni, plastici, design, fino alla proiezione su un'intera parete del film Cerimonia. Finita questa piacevole immersione nell'atmosfera pluridisciplinare del gruppo fiorentino, basta poi salire tre piani all'interno dello stesso Centro Pompidou per ritrovarli di nuovo, insieme a Archizoom e UFO, presenti nel contesto dell'esposizione temporanea Les années Pop. Chantal Béret, curatrice della sezione architettura della mostra, espone i lavori dei radicali italiani da un punto di vista diverso, che accosta vari architetti internazionali sotto una larga definizione di "architettura pop".

Non resta che gioire alla constatazione di tale successo; ma un dubbio sorge inevitabilmente. A parte le mostre di fondamentale importanza curate da Gianni Pettena (Radicals alla Biennale di Venezia nel 1996 e Archipelago al Palazzo Fabroni di Pistoia nel 1999), il movimento radicale in Italia sembra quasi essere dimenticato dalle importanti istituzioni museali. Perché in nessuna collezione dei musei italiani vediamo comparire i lavori dei nostri tanto acclamati architetti radicali? Stiamo forse ripetendo alcuni errori storici di svalutazione del nostro patrimonio culturale secondo schemi e meccanismi ormai consueti? L'apporto critico di brillanti personalità straniere contribuisce senz'altro ad arricchire lo spessore storico di questo movimento, ma ancora più prezioso sarebbe capirne le radici e le conseguenze nel suo contesto di nascita.

Il paradosso è che oggi gli stessi protagonisti dell'esperienza radicale sono tra le persone più vivaci nel panorama culturale italiano e potrebbero senz'altro fornire interessanti analisi retroattive. Che le possibilità finanziarie del Centro Pompidou, o di altre istituzioni francesi, permettano di raggruppare gran parte del materiale italiano nella loro collezione non é poi gravissimo (almeno qui viene esposto!). Ma se l'analisi critica su questo prezioso fenomeno culturale è sempre di più destinata ad una visione monoculare, la situazione allora diventa assai più triste.

Carlotta Darò
cardar76@hotmail.com

Gianni Pettena, Ice House II, 1971.
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