Sopralluoghi

La fine dell’arte per l’arte

di Francesca Pagnoncelli




La fine dell'arte per l'arte
Il Museo di Groningen alla Permanente

La Permanente
via Filippo Turati 34
20121 Milano
tel: 02 6599803, 6551445
fax: 02 6590840
permanente@tin.it  
http://www.lapermanente-milano.it 

dl 20 maggio al 9 settembre 2001

apertura: 
ore 10.00-13.00 e 14.30-18.30 
giovedì sino alle 22
sabato e festivi 10.00-18.30
lunedì chiuso



[18jul2001]

Inez van Lamsweerde, Ritratto di Frans Haks, 1995.
La mostra vuole essere un omaggio a Frans Haks, direttore del Groningen Museum e ideatore, insieme a Mendini, del progetto espositivo e architettonico del complesso. Gli interni sgargianti, le installazioni colorate, le forme ridondanti, non vogliono assolutamente perdersi in un mero estetismo snob, in luccichii abbaglianti. Vengono messi in scena, lungo il percorso di visita, mille mondi diversi e suggestivi. Si parte dall'Interno di un interno, opera di Mendini del 1990, che suggerisce altri interni di interni con il semplice ma acuto accorgimento del soprammobile a forma di poltrona mendiniana. Gioco di specchi in cui siamo portati a rifletterci, che ci inducono a riflettere sulla nostra scala di valori, sulla nostra tolleranza, specchi che sono le opere di fotografi e artisti di primo piano.
Le fotografie sono esposte in due spazi, il più grande colorato di rosso, il secondo di verde. Il rosso delle pareti esalta il senso provocatorio delle tre immagini di Andres Serrano, A History of sex, del 1996, che diventano quasi blasfeme perché accostate a Black Jesus (1990) e a Madonna and Child II (1989). Il messaggio sottolinea forse la banalizzazione di sesso e religione, suggerisce la perdita i valori, di regole morali, mette a confronto due mondi opposti e incompatibili? A ognuno la propria interpretazione, che pare invece più facile da ipotizzare per le immagini della seconda stanza. I due Senza titolo di Dione Arbus (1970-71) ritraggono donne down, le quattro immagini di gay e travestiti di Catherine Opie (1993-95), le cinque fotografie di Larry Clark intitolate Teenage lust (1983): pare la rappresentazione della diversità e dell'emarginazione sociale, la solitudine e la delinquenza che da queste deriva.


Alessandro Mendini, Poltrona di Proust, 1991 ca.

Enzo Cucchi, Montagne miracolate, 1981.
Proseguendo la visita attraverso questi spazi, stanze che si susseguono a formare un labirinto di pareti colorate con il sistema cromatico sviluppato dall'artista Peter Struycken appositamente per il Museo di Groningen, dove la luce è uniforme e costante, si possono vedere le opere di artisti di varia provenienza e l'interrogativo sembra spostarsi sul concetto di libertà: Mimmo Paladino, con A mano calda (1979), colora e contorce la forma che ricorda vagamente ad un aquilone, un aquilone che è però grande e pesante e che, ancorato ad un filo di ferro molto spesso, difficilmente si alzerà in cielo. L'Uomo nero di Henk Visch ricorda l'Icaro di Michael Ende: il suo corpo ricoperto di piume, le braccia levate in cielo con, forse, due ali nere in mano, preannunciano la fine del sogno del volo. Vi è poi una stanza dedicata a Keith Haring e vi è una serie interessante di manichini, realizzata da Victor & Rolf, che ironizza forse amaramente sul valore della moda, sui condizionamenti dei mass media. Significativo un altro “interno di interno”, la stanza in cui coesistono opere di Andy Wharol, Roy Lichtenstein e Peter Shine: la stanza è come se parlasse, diventa la depositaria di un metalinguaggio, di un messaggio amplificato più volte che si riverbera tra un'opera e l'altra. Interessante, curioso, ci si potrebbe stare a lungo per analizzare i diversi tipi di sensazione che trasmette a distanza di tempo. Si prosegue con altre due ambientazioni - installazioni: Panis angelicus di Thomas Lanigan (1970-1987) e The city never sleeps di Ronda Zwillinger (1984).

Il Kitsch diventa arte ma non disturba, riesce a rimandare ad altro, ad immagini del quotidiano, a singoli elementi che qui sembrano poeticamente composti, aggrovigliati, ammassati l'uno all'altro come attirati dalla stessa calamita, parte di uno speciale campo magnetico. Il catalogo della mostra si intitola, in modo provocatorio, Pipì di gatto a Museolandia. Pipì di gatto perché l'uomo, secondo Haks, non fa altro che “saggiare e cercare, e provare e delimitare il suo territorio, come un micio fa con la sua pipì”. Museolandia è, invece, il territorio ideale del suo direttore, un sogno realizzato, una collezione voluta e costruita ad hoc. Museolandia è una definizione sottilmente ironica di quello che, questo complesso fatto dell'architettura di Alessandro Mendini, Philippe Starck, Michele De Lucchi e Coop Himmelblau, vuole essere: un grande campo da gioco, una Disneyland dell'arte, alimentatrice e conservatrice di sogni, visioni, provocazioni artistiche.

Francesca Pagnoncelli
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