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       Faire son nid dans la ville

Teresanna Donà



 
 
    ArchiLab 2006 Japon. "Faire son nid dans la ville"

Site des Subsistances Militaires, Orléans, Francia
dal 21 ottobre al 23 dicembre 2006
direzione artistica: Marie-Ange Brayer
curatori: Mariko Terada e Akira Suzuki



Giunta ormai alla sua settima edizione, la mostra ArchiLab di quest'anno, dal titolo Fare il proprio nido nella città, introduce una significativa svolta tematica rispetto alle edizioni precedenti, con la decisione di dedicare i 1500 mq di spazi espositivi del sito delle Subsistances Militaires ad un'esposizione sulle tendenze dell'architettura contemporanea in Giappone, dagli anni '90 ad oggi. In linea con le edizioni precedenti, anche l'edizione 2006 si propone come un momento di incontro e dibattito internazionale, articolato attorno all'intervento di 30 studi di architettura, ma il fatto che il dibattito si concentri su di un unico Paese resterà probabilmente un'eccezione all'interno del percorso di ArchiLab. Teresanna Donà ha seguito l'evento per ARCH'IT.



 
    Bene. E qui dovrebbe iniziare il mio articolo. Non vi nascondo che ho avuto qualche dubbio sul taglio da dargli. Qualche mese fa, quando ho saputo della mostra, vista la risonanza che l'evento aveva avuto negli anni scorsi, mi sono preparata con tutte le migliori intenzioni per confezionarvi un articoletto come si deve e farvi venir voglia di visitarla. Piena di buoni propositi, ho preso un giorno di ferie e sono andata ad assistere all'opening e alle conferenze tenute dai curatori, approfittando anche di quelle di Toyo Ito e Kengo Kuma a cui sono dedicate due piccolissime esposizioni collaterali. (1) Proprio strani questi francesi! Alle trenta équipe di architetti semi-sconosciuti dedicano 1500mq, e a Toyo Ito uno spazio poco più grande di un garage, mentre a Kengo Kuma il ballatoio all'ingresso di un teatro. Per l'occasione ho pure comprato un carinissimo registratorino digitale, così da non perdermi né farvi perdere nulla dell'incontro. Salvo che la cosa non ha funzionato a causa di un piccolo dettaglio: tutti parlavano in giapponese stretto (neanche un tentativo di inglese, alla faccia dell'internazionalità) e senza lasciare il tempo necessario ai traduttori per poter adempiere al proprio dovere, i quali traduttori dal canto loro, viste le circostanze, hanno adottato la strategia di parlare sopra ai conferenzieri cosicché la mia registrazione si è ridotta ad un strano ibrido di franconipponico non esente, a mio avviso, da diversi Lost in Traslation. (2)

  [15dec2006]
    Scartata così l'idea di non farvi perdere nulla dell'incontro, visto che credo nessuno di voi comprenda il franconipponico, una volta di fronte allo schermo luminoso e al cursore intermittente mi sono chiesta quanti tra voi sarebbero stati disposti ad andare a vedere questa mostra. Francamente... nessuno! E chi ve lo farebbe fare! Una mostra che già si trova in Francia, e poi non è neppure a Parigi. Bisogna farsi un'ora di TGV per raggiungere Orléans da Parigi, e circa mezz'ora a piedi dalla stazione del TGV per arrivare al sito delle Subsistances Militaires. Davvero poco pratico. Perchè non l'hanno fatta a Parigi se volevano attribuirle il titolo di "internazionale"? E poi, diciamocelo, una mostra che dura così poco e che finisce il giorno prima della vigilia di Natale... che razza di scelta strategica è mai questa? Lasciate almeno il tempo ai pochi turisti che non sarebbero stati scoraggiati dall'intricato itinerario di visitare l'esposizione durante le vacanze natalizie, senza attendervi che prendano pure delle ferie mirate giusto per visitare ArchiLab!

Bene. Dopo il doveroso antipasto disincantato, in cui quel che c'era da dire di negativo è stato detto, ora, partendo dal presupposto che tanto questa mostra non la vedrete, posso prendermi il tempo necessario per rielaborare il franconipponico ed estrapolare alcuni dei concetti più interessanti di questo ArchiLab, così come sono emersi dalle conferenze e dalla visita sul sito, per servirveli come piatto principale dell'articolo, contornandoli di alcune immagini dell'esposizione e delle opere esposte, tanto perché non perdiate di vista ciò di cui vi sto parlando. Ecco, questo il menu del giorno, annaffiato abbondantemente con il vino della casa!


 
    Un suono ritmico, penetrante e regolare, straordinariamente simile al segnale acustico emesso da un apparecchio radar, come quello che si trova in ogni sottomarino che si rispetti, funge da colonna sonora all'animazione creata dall'Atelier Bow-Wow (3) e proiettata in una saletta posta grossomodo nel punto centrale della mostra. L'animazione presenta allo spettatore diversi luoghi della città di Tokyo, tra cui si riconoscono alcuni dei progetti chiave dell'esposizione e alcune realizzazioni dello studio Bow-Wow stesso. La cosa interessante è che quest'animazione è ottenuta a partire da una serie di immagini fotografiche, più o meno sequenziali, in bianco e nero, alle quali i realizzatori hanno applicato un particolare effetto di profondità in grado di simulare una terza dimensione, permettendo alla vista dello spettatore di penetrare queste foto e percorrere gli spazi che esse racchiudono, in maniera fluida, senza scatti, passando da un'immagine all'altra, da un edificio all'altro, da un interno verso un esterno e via per le strade di Tokyo, in un flusso continuo, come se si stesse veramente percorrendo uno spazio, sorvolandolo, ma con l'eterna sensazione di qualcosa di strano, come se lo sguardo che osserva fosse alterato, alieno... In tal modo l'animazione mette in scena una visione prospettica insolita, dai colori sbiaditi, in cui difficilmente si riesce ad ottenere una stima precisa della profondità reale degli ambienti percorsi, della distanza degli oggetti rispetto al punto di vista in perenne movimento, o degli oggetti tra di loro, e fa pensare piuttosto a quella che potrebbe essere la visione monoculare di un uccello, la sua percezione visiva durante un'escursione all'interno della città, delle abitazioni ed edifici marginali che la compongono.

 
   

Dopo aver assistito alle conferenze viene da chiedersi se il protagonista/punto di vista più probabile del filmato dell'Atelier Bow-Wow non sia proprio un volatile, e più precisamente un corvo, quello di cui parla Akira Suzuki, uno dei curatori della mostra, al momento della presentazione ufficiale di Faire son nid dans la ville. Il corvo di Levaillant, hashibuto karasu, come Suzuki lo descrive all'interno del catalogo che accompagna l'esposizione (4), è diventato l'animale urbano per eccellenza della città di Tokyo. Esso si nutre di rifiuti urbani; raccoglie dalla spazzatura all'uscita delle lavanderie a secco le grucce metalliche che un tempo sono servite per appendere gli abiti e le ricicla in una maniera del tutto innovativa, per costruire il proprio giaciglio; scova all'interno della città nascondigli in cui stoccare le proprie scorte di cibo. In breve questo volatile dal nido metallico è divenuto, secondo Suzuki, il "principal usager des villes qu'il exploite de fond en comble" (5) ed è elevato, nel suo discorso, ad abitante ideale/tipo della città di Tokyo, in quanto conoscitore anche dei suoi più piccoli e reconditi spazi interstiziali.

 




       

Il giorno dell'opening, nel momento del suo discorso inaugurale, Suzuki proietta il filmato dell'Atelier Bow-Wow e racconta al pubblico che riempie la sala della Scène Nationale d'Orléans le idee che sottendono alla scelta del titolo di quest'anno. "Fare il proprio nido nella città" significa, in sostanza, comportarsi come un hashibuto karasu: impossessarsi della città e sfruttarla a fondo, utilizzarne ogni risorsa territoriale e ogni angolo interstiziale, costruirvi il proprio nido/rifugio a partire da materiali e tecniche costruttive innovative per meglio adattarvisi.

Per quelli più esigenti, poi, che non si accontentano di sentirsi dire che l'abitante ideale di una delle più grandi metropoli del mondo, la Biennale di Venezia insegna (6), è un corvo, Suzuki prosegue nella spiegazione dei perché del titolo dell'esposizione. Leggete con calma il paragrafo che segue, poiché per ritrovare quei quattro kanji (ok, sono sei!) mi ci è voluta una giornata di ricerche a testa bassa, facendo il giro del mondo attraverso le pagine internet e strizzando gli occhi come una matta per distinguere tra decine di ideogrammi in cui la sola differenza tra gli uni e gli altri era la posizione di una micro-stanghetta ora qui ora là, ora presente ora assente!



Mentre un tempo l'ideogramma giapponese più utilizzato per designare l'azione dell'abitare, spiega Suzuki, era espresso con il kanji ?, composto dai due ideogrammi che indicano rispettivamente i concetti di uomo e di maestro, e avente in sé un'accezione maschile dell'abitare che fa riferimento all'idea di "uomo costruttore" o di "soggetto che abita un ambiente artificiale", l'ideogramma che nell'ultimo decennio è diventato sempre più rappresentativo dell'azione dell'insediarsi all'interno della città è espresso dal kanji, composto a sua volta da due ideogrammi, uno che indica il concetto di albero e l'altro di moglie, il quale contiene in sé un'accezione più particolarmente femminile e si riferisce ad un'idea poetica dello "stabilirsi in un luogo per farvi il proprio nido ed iniziare lì una vita famigliare, avere dei bambini", ecc.

Se la mostra di quest'anno riguarda la città di Tokyo e l'utilizzazione che i suoi abitanti ne fanno, assieme alla loro tendenza attuale ad impossessarsi di ogni interstizio ancor edificabile per insediarvi temporaneamente il proprio nido -e dico temporaneamente perché la durata media delle costruzioni in Giappone è stimata aggirarsi attorno ai trent'anni, data oltre la quale vengono sistematicamente demolite e ricostruite (7)- essa riguarda anche e soprattutto una trentina di giovani studi di architettura che a partire dal '95 hanno lavorato in stretto contatto con i committenti per sviluppare le proprie teorie e i propri metodi progettuali attorno al concetto di abitante/corvo, prendendo la città come punto di partenza della ricerca progettuale.

 

Masahiro Harada + Mao Harada / Mount Fuji Architects Studio, XXXX House, 2003. Foto: Mount Fuji Architects Studio.


Mitsuhiko Sato, KTO, 2003. Foto: Mitsuhiko Sato architect and associates.


Shigeru Ban, Glass Shutter House, 2003. Foto: Hirai Hiroyuki.

 
Yasuhiro Yamashita / Atelier Tekuto, Wafers, 2001. Foto Yoshida Makoto.

Ecco, fino a qui ci siamo arrivati. Vi risparmio il discorso di Mariko Terada, l'altro commissario incaricato della selezione delle trenta équipe, che traccia con pennellate rapide la storia dell'evoluzione socio-economico-architettonica in Giappone partendo dagli anni '60, epoca che ha visto la nascita di una buona parte degli architetti in questione, mentre la scena nazionale era dominata dai progetti utopici dei Metabolisti (8), passando per il periodo cosiddetto della "bolla economica", che ha generato un boom edilizio di carattere principalmente speculativo, e arrivando fino ai giorni nostri. Vorrei attirare invece la vostra attenzione sulle caratteristiche dell'epoca "post-bolla", che appunto è quella odierna, e sui progetti e le realizzazioni a cui ha dato origine, ovvero quelli presentati da ArchiLab.

 
  Avrete ormai capito che Faire son nid dans la ville dà un taglio ben preciso all'analisi dell'architettura nipponica contemporanea, lasciando fuori tutti i grandi progetti e concentrandosi esclusivamente su quelli di piccola e media taglia: un panorama spesso dimenticato ma che in Giappone sta venendo a poco a poco rivalutato. Per la prima volta dopo diversi decenni sembra che gli architetti giapponesi abbiano infine superato la fase del diniego/esclusione rispetto all'ambiente urbano circostante, tipica ad esempio di tanti progetti di Tadao Ando o di Toyo Ito (9), per passare a quella forse più matura di accettazione e comprensione. La nuova generazione non solo accetta il substrato fornito dalla città contemporanea, ma instaura un dialogo diretto con essa, integrandone costrizioni e regole all'interno della logica progettuale.

Marie-Ange Brayer, direttore artistico di ArchiLab, analizza nel saggio pubblicato all'interno del catalogo alcuni dei più importanti elementi costitutivi dell'attuale situazione urbana. In primo luogo spiega come in seguito ai movimenti speculativi degli anni '80 i prezzi dei terreni siano notevolmente cresciuti, e con essi anche le spese di successione, una contingenza che ha dato origine al fenomeno della frammentazione dei terreni in parcelle sempre più piccole e anomale dal punto di vista morfologico, come quelle dalla caratteristica forma a bandiera o quelle a rettangolo molto allungato. I terreni sono divenuti talmente costosi da assumere un valore ben maggiore di quello degli edifici che verranno costruiti al loro interno, visto che gli acquirenti spendono quasi tutto il proprio patrimonio per l'acquisto del suolo e ben poco resta a disposizione per la costruzione della casa in sé. Tra i numerosi progetti originati da questa congiuntura, quelli che più spettacolarmente si sono appropriati delle costrizioni date dall'esistente sono sicuramente la casa a Futakoshinchi, di Manabu e Arata Naya, l'edificio Foo di Life and Shelter Associates e Wafers di Yasuhiro Yamashita.


 

Manabu Naya + Arata Naya, Office in Kyoto. Foto: Manabu Naya + Arata Naya.


Jun Aoki, G, 2004. Foto: Daichi Ano.


Makoto Yokomizo, Tem, 2004. Foto: Hiroyasu Sakaguchi.


Manabu Naya + Arata Naya, House in Futakoshinchi, 2004. Foto: Koui Yaginuma.


Atelier Bow-Wow. Gae House, 2003. Foto: Atelier Bow-Wow.


Hitoshi Abe. Tokyo House Kado, 2005. Foto: Daichi Ano.


Oki Sato / Nendo, Fireworks House, 2005. Foto: Daichi Ano.


Yasuhiro Yamashita / Atelier Tekuto, Wafers, 2001. Foto Yoshida Makoto.

 
Shigeru Ban, Shutter House for a Photographer, 2003. Foto: Hirai Hiroyuki.

Naturalmente anche le tecniche costruttive risentono delle mutate circostanze. È ovvio che in un terreno di appena un paio di metri di larghezza i muri dell'edificio non potranno avere uno spessore di quaranta centimetri, né tanto meno ci sarà lo spazio per ingombranti attrezzature di cantiere. Per sfruttare al massimo lo spazio edificabile, la scelta deve ricadere su un tipo di struttura che assicuri la tenuta statica con soli dieci centimetri di spessore, dunque una struttura in metallo e ancor meglio se prefabbricata, in modo da poter essere scomposta e ricomposta, piano dopo piano, con l'utilizzo di un elicottero, senza quasi bisogno di attrezzature di cantiere.

Particolarmente esemplificativa in tal senso è l'opera di Makoto Yokomizo, specialmente per quanto riguarda i progetti di casa/atelier NYH (10) e dell'immobile a carattere locativo GSH. Anche quando la superficie a disposizione non è poi così ridotta, l'esigenza dei committenti di poterla utilizzare a fondo influisce ancora sulle tecniche costruttive dando vita a molteplici soluzioni innovative, come nel caso di strutture portanti ottenute tramite assemblaggio di scaffalature metalliche modulari, nel progetto di CELL BRICK dell'Atelier Tekuto, o nel caso dell'arredo totalmente integrato all'interno delle pareti, nella DRAWER HOUSE del gruppo Oki Sato / nendo.

Ritornando all'analisi della situazione urbana proposta dalla Brayer, un altro elemento di "costrizione esterna" che i progetti giapponesi contemporanei hanno saputo inglobare e metabolizzare è costituito dalla legge sull'insolazione. Questa legge limita il numero di ore durante le quali un edificio può proiettare la propria ombra sugli edifici confinanti, determinando così la posizione, l'altezza e spesso il volume di ogni nuova costruzione all'interno del proprio lotto. Ecco la ragione della strana forma a tetto spiovente di tanti dei progetti esposti, tra i quali non sfuggiranno la Tokyo House KADO di Hitoshi Abe, la SUIT G di Milligram Studio, le TEM houses di Makoto Yokomizo o ancora l'abitazione Tongari di Yuki Ishiguro.

 
 
Masao Koizumi, Molding House, 2003. Foto: Hiroyuki Hirai.

Un ultimo punto su cui vorrei attirare la vostra attenzione riguarda l'uso fatto delle finestre, un uso particolarmente significativo e variegato, soprattutto se considerato in rapporto al contesto, e quindi alla città. Numerosi sono gli espedienti utilizzati da questi architetti per relazionare un ambiente interno a uno esterno, a seconda di quello che vogliono comunicare. L'Atelier Bow-Wow, ad esempio, ha proposto nel progetto Gae House una "visione miope dell'esterno", ottenuta tramite una fascia di finestre orizzontali ricavate alla base del tetto, che permettono a chi si trova all'interno del sottotetto di osservare solamente le immediate vicinanze della casa. La Fireworks House di Oki Sato Nendo funziona invece esattamente all'opposto, imponendo una "visione presbite": la serie di nove grandi lucernari collocati su un lato del tetto è stata concepita per fornire alla famiglia un punto di vista privilegiato, e protetto, dal quale osservare i fuochi d'artificio durante le feste in città.

 

Associates for Life + Shelter.


Kazuyo Sejima, House in a Plum Grove, 2003. Foto: Kazuyo Sejima and Associates.


Tomoyuki Utsumi / Milligram architectural studio, Suit G, 2005. Foto: Takeshi Taira.


Mitsuhiko Sato, SGA, 2004. Foto: Mitsuhiko Sato architect and associates.

  L'esempio che infine citerei come il maggiormente efficace è dato dalla Glass Shutter House, casa disegnata dallo studio Shigeru Ban per un famoso cuoco giapponese. Si tratta di un edificio di tre piani che raggruppa al suo interno diverse funzioni, organizzate volumetricamente a seconda del loro grado di privatezza: la sala di ristorante, completamente accessibile al pubblico, è collocata al pian terreno, mentre l'abitazione privata si situa nel punto più alto, al secondo piano. Due delle quattro facciate di quel grosso parallelepipedo che è l'edificio sono state concepite per essere interamente vetrate, e sono state realizzate tramite un sistema di persiane trasparenti. Grazie a queste persiane, fatte di pannelli di vetro, che possono sollevarsi (ripiegandosi a scomparsa) per permettere ai clienti di penetrare liberamente durante gli orari di apertura del ristorante, Ban riesce a ricreare l'impressione di uno spazio semi-pubblico, un ibrido di pubblico/privato e interno/esterno, punto massimo del dialogo e di scambio tra edificio e città.

 
  In conclusione potremmo dire che trovandosi a fronteggiare dei limiti che avrebbero potuto essere fortemente penalizzanti, eredità parziale delle epoche precedenti, gli architetti dell'ultima generazione lungi dal farsi scoraggiare hanno saputo adattare al meglio il proprio approccio verso la città: si sono interessati al quadro urbano esistente, hanno percorso e ripercorso le strade di Tokyo per effettuare un complesso lavoro di decifratura e hanno preso gradualmente coscienza che proprio da questo potenziale poteva nascere una nuova architettura. In questo ArchiLab 2006 si trovano effettivamente molti spunti interessanti, che meriterebbero di essere approfonditi, e una grande carica creativa da cui gli architetti occidentali potrebbero trarre insegnamento... certo con le dovute cautele, visto che da noi esistono anche tutta una serie di norme riguardanti il confort termico e acustico, e in un muro di 10cm di spessore l'isolamento termico e acustico andrebbero chiaramente a farsi benedire!

Teresanna Donà
teresannadona@architettura.it
 
    NOTE:

1. Esposizioni collaterali sono quella su Toyo Ito, al FRAC Centre di Orléans, 20 ottobre - 23 dicembre 2006; e quella su Kengo Kuma, presso il Carré Saint-Vincent, Scène Nationale di Orléans, sempre dal 20 ottobre al 23 dicembre 2006.
2. Di Sofia Coppola, si tratta di un film del 2003 in cui il protagonista si reca in Giappone per lavoro ma cade ben presto vittima delle lacune degli interpreti messigli a disposizione. www.lost-in-translation.com
3. L'Atelier Bow-Wow, fondato nel 1992 da Yoshiharu Tsukamoto e Momoyo Kaijima, si è reso noto grazie ad una serie di ricerche sulla condizione contemporanea architettonico/urbana della città di Tokyo, presentate tra l'altro in due famose pubblicazioni successive dal titolo di Made in Tokyo (2001) e Pet Architecture Guide Book (2002). Lo studio è stato selezionato per presentare con un proprio testo la città di Tokyo all'interno del catalogo della Biennale d'Architettura di Venezia di quest'anno. www.architettura.it
4. Akira Suzuki, "La génération Bow-How: constructions urbaines à partir des années 1990", in FAIRE SON NID DANS LA VILLE. Archilab 2006 Japon, HYX, Orléans 2006. www.editions-hyx.com
5. "Il principale utilizzatore delle città che egli utilizza da cima a fondo".
6. 10. Mostra Internazionale di Architettura. Città. Architettura e società, Marsilio, Venezia, 2006, pp. 240-241.
7. Marie-Ange Brayer, "L'Architecture au Japon, Un «art performatif»", in FAIRE SON NID DANS LA VILLE. Archilab 2006 Japon, HYX, Orléans 2006.
8. Per avere qualche informazione rapida su questa corrente è possibile consultare la voce "Metabolist" su Wikipedia. en.wikipedia.org
9. Basti pensare ad alcune loro abitazioni che utilizzando un'illuminazione prevalentemente zenitale, un esempio per tutti la casa White U di Ito (1976), si estraniano completamente dal contesto, creando una specie di mondo a sé.
10. Per visionare i progetti citati all'interno di questo paragrafo sarà necessario rifarsi al catalogo della mostra, sopra citato.
   
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