introduzione di DARIO EVOLA

 

Il formarsi del pensiero razionale, successivo all’età barocca, corrispondente alla separazione fra esperienza del sentire e
ordine della visione, si materializza nella organizzazione dei percorsi: l’urbanistica si fonda come scienza che razionalizza il
deambulare nella nuova città in "pezzi" che assemblano e ripartiscono arbitrariamente il vissuto della città con le sue
stratificazioni originarie; il museo organizza un ordine artificiale nella dislocazione programmata dei "pezzi" di culture lontane,
nello spazio e nel tempo, secondo un ordine arbitrario e gerarchico: l’ospedale, nella costituzione in reparti, "ripartisce" l’ordine del corpo in "pezzi" che corrispondono alle patologie definite da una gerarchia autoritaria. Il "sapere" umano si disarticola in unità organizzate nel circolo chiuso dell’Enciclopedia restituendo le parole come "pezzi" di una lingua nel progetto pedagogico illuministico. L’esperienza dell’umanità viene frantumata e riorganizzata in frammenti, in "pezzi" ognuno dei quali diviene, separatamente, oggetto di analisi e sottoposto a controllo, ricondotto a "ratio". La verità oggettiva della scienza (episteme) si contrappone alla verità del mondo della vita (doxa). La realtà della scienza si configura come astrazione della verità, il corpo. È il luogo centrale, il teatro della frattura nella coscienza dell’Occidente. Di volta in volta diviene "pezzo" da curare, forza lavoro da assoggettare, luogo da santificare o del peccato, soggetto da "liberare". Il corpo, nella ratio della scienza e dell’economia, esiste solo in quanto "organismo" da "riportare all’ordine". Lo sguardo clinico espropria la malattia e persino la morte (dunque la ragione stessa della vita intesa come bios e non come zoè) dalla dimensione simbolica collettiva. Nella sfera dell’economia il corpo ha la funzione di produrre valore come forza, come immagine e come feticcio.

Sottrarre il corpo a questa gabbia funzionale significa investirlo di un nuovo sguardo. Significa sottrarlo allo spettacolo della
reificazione per farne veramente "cosa che sente", corpo "senza organi", perché esso stesso ridotto e rifondato come organo: il
corpo "parol" sottratto al corpo "langue". La psicanalisi aiuta a riconoscere che non si ha un corpo ma che si è un corpo. Così
da Heidegger sappiamo che non possediamo un linguaggio, ma piuttosto che saremo ospiti nella casa del linguaggio. Il corpo
sottratto allo spettacolo dello scientismo e dell’economia, diventa soggetto "in cammino verso il linguaggio", crea il linguaggio,
istituisce il proprio essere-pensiero. Così il corpo acquisisce la coscienza di essere forma in potenza, estensione di bisogni,
luogo di relazioni, infine "possibilizzazione del possibile" (Dino Formaggio).

Dalla messa in questione del corpo come identità e come "appartenenza" inizia l’avventura della modernità verso un
nomadismo spazio-temporale. L’avventura, iniziata con la messa in questione dello statuto dell’immagine grazie alle tecnologie
del secolo scorso, trova nuovi territori nella rifondazione dello spazio-tempo e quindi nella stessa nozione di rappresentazione e di mimesis. La coscienza dell’artificio come essenza della verità restituisce alla esperienza artistica una nuova verifica "d’est un autre" diventa il motto per la ricerca dell’artista verso il linguaggio. L’esperienza estetica necessita di un’interfaccia per
esercitare il gesto che porti al disvelamento come epifania. L’uomo che vive nella tecnologia non più analogica, che può
navigare verso dimensioni in cui il reale è determinato dal quoziente di virtualità che può esprimere, si scopre "antiquato". Non
si riconosce più nel proporzionato e sereno disegno leonardesco raffigurato come "misura di tutte le cose" inscritto in un
rassicurante cerchio. L’uomo contemporaneo è espressione di una ricerca alla quale la propria consapevolezza biologica non
fornisce più risposte adeguate. La macchina, l’interfaccia cibernetica, l’applicazione di protesi perfettamente integrate
nell’organismo biologico mettono in forse le certezze sulle nozioni di natura e di corpo organico. E’ il teatro il luogo dove le
possibilità di una verifica della "realtà" si fanno esperienza, la nozione di corpo si carica di un senso ambiguo e paradossale, il
corpo non è infatti soltanto simulato dal computer, ma è la stessa macchina che assume una propria inedita umanizzazione. La
macchina non assolve semplicemente la funzione di riprodurre un’immagine, ma interagendo in tempo reale con l’artista,
appunto come interfaccia, fa dell’artista il luogo mediano fra la macchina e i media della comunicazione. Una nuova immagine
del corpo scaturita dall’interazione fra artista e media crea una estensione orizzontale e verticale dell’immaginario tecnologico e artistico.

La lunga e completa ricerca di STELARC apre una straordinaria prospettiva nella ricerca biotecnologica applicata ai linguaggi
dell’arte. Il controllo limitato da parte dell’artista sulla macchina crea quella antica situazione drammatica di suspence che è
tipica dell’antico spettacolo del funambolo. Stelarc è un funambolo dell’interfaccia, il pericolo e il rischio del Crash non è
virtuale o simulato ma costituisce la realtà del qui e ora di uno spazio-tempo indeterminato ed esteso in una dimensione
satellitare.

Il corpo di Stelarc è un corpo-interfaccia, così come da sempre è quello dell’attore davanti al pubblico. Anche noi di fronte
alle performance di Stelarc siamo pubblico, ma a differenza del pubblico che vive la propria esperienza di spettatore frontale
davanti al quadro, davanti alla scena davanti all’installazione o al video, abbiamo la possibilità di interagire e di determinare
l’esito di un esperire del singolo artista. Siamo noi il terminale e il punto di partenza di una metafora di trasformazione di un
corpo che determina la nostra stessa relazione con il mondo. Una macchina che reagisce all’uomo e interagisce nel suo stesso
spazio-tempo. Stelarc ripresenta la vecchia metafora dell’angelo e della marionetta di Rilke, la prometeica "impossibilità" del
Teatro delle marionette di Kleist, la biomeccanica superiore dell’attore mejercholdiano come metonimia della rifondazione
dell’intera umanità. Lo spettatore smette di essere voyer passivo, ma diventa parte di una intelligenza collettiva nella
navigazione comune attraverso le dimensioni e lo spazio, del tempo e del "corpo-interfaccia" dell’artista correlato alla
navigazione via internet. La specificità del teatro medium si fonda nel sistema di relazioni che si creano all’interno del suo
spazio. Il rapporto fra azione scenica e esperienza dello spettatore, riflette la relazione fra mondo della scena e mondo della
"realtà". La consapevolezza di questa dualità è stata la coscienza dell’"impossibile" di Artaud, di Pirandello e di Beckett. La
"presa di distanza emotiva" dello spettatore (che Brecht pretendeva razionale), nella performance interattiva, colloca lo
spettatore al centro della decisione, dove l’"Illusion comique" o la "vita sogno" sono nient’altro che il risultato dell’azione dello
stesso spettatore, il quale, a sua volta, non è altro che una parte della collettività...più o meno virtuale, dove le forme simboliche diventano di fatto modificabili. Nella performance interattiva di Stelarc, la pelle non segna più il confine tra corpo e mondo, ma si estende verso l’infinito nei territori della comunicazione, il corpo è un sistema "tattile" complesso, dalle protesi infinite che rimettono in questioni le relazioni "normali" fra corpi e oggetti, fra nervi e macchine. Con Stelarc siamo di fronte forse a una nuova necessità antropologica del teatro come azione di una intelligenza collettiva. In questo senso va colta la provocazione di KRYPTON di realizzare la performance di Stelarc nello stesso spazio dove è stato rappresentato Beckett.

Dario Evola


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