PETER GREENAWAY
LONDRA
Per rimanere nel metodo interdisciplinare proprio di Giovanni K. Koenig, in cui il cinema ricopriva un ruolo importante abbiamo ritenuto opportuno invitare al convegno Peter Greenaway. Infatti i suoi interessi di regista, come dimostra anche lo scritto che ci ha inviato, sono spesso contigui alle problematiche dell'architettura e degli spazi urbani. Purtroppo solo il 10 novembre il regista inglese ha potubo sciogliere positivamente la sua riserva a condizione che anticipassimo, dati gli impegni precedentemente assunti, alla serata di giovedi' 30 novembre il suo intervento. Di questo ci scusiamo con tutti i partecipanti alla manifestazione.


Lumi di candela e tubi al fosforo
Peter Greenaway
di Giovanni Bogani

Gelido? Crudele? Cupo? Noioso? Entusiasmante? Labirintico? Livido?
Sanguinario? Manierista? Neobarocco? Enciclopedico? Surrealista?

Greenaway e' l'incontro fra il lume di candela e il futuro, fra Vermeer e i tubi al fosforo. Le sue immagini appassionate e fredde raccontano, sempre, il feroce e beffardo gioco della morte, con la morte. Greenaway gioca con il nostro sapere, ci propone cabale ed enigmi, gioca con i numeri e con le lettere dell'alfabeto. Trasforma i film in grandi giochi dell'Oca. Crea interpolazioni fantastiche con la Storia, con la mitologia, con la pittura. Tutto il passato si mescola in un nuovo tempo, il tempo dei suoi film, che non e' passato e non e' presente: e' come fuori dal tempo, estraneo alle mode, ad ogni contemporaneita'. L'unica verita' che racconta e' quella, eterna, dell'obbligo, per l'uomo, della caduta e della morte. Della caducita' del corpo, della debolezza del maschio. Le sue ossessioni, piu' forti ancora di quelle figurative: la passione per Vermeer, per i manieristi, per Caravaggio, per i fiamminghi. O per l'architettura: come quella di Roma, funerea e grassa, che permea le immagini del Ventre dell' architetto, dove la figura centrale, continuamente evocata, e' quella di Etienne-Louis Boulle'e, architetto visionario della Francia prerivoluzionaria, che disegnu' forme perfette per grandi architetture. Tanto perfette da risultare, sempre, irrealizzabili. E c'e' un qualcosa di irrealizzabile, di irraggiungibile, di impossibile sempre nelle sue storie, nelle sue fantasie, nei mondi possibili che costruisce. Come una fantascienza continua, anche quando e' ambientata nel presente. Dove, ad essere reali, sono soltanto le idee, le idee portanti. Quella di raccontare l'uomo come animale debole e mortale, che tenta come puň di perpetuarsi attraverso la procreazione o l'arte. Quella di raccontare, con pieta' l'umano orgoglio, persino l'umana arroganza, che sia personificata nel Ladro Spica, oppure nel presuntuoso architetto Kracklite, o ancora nei tre mariti inetti di Giochi nell' acqua, o nel pittore poco accorto dei Misteri del giardino di Compton House, o nei gemelli di Zoo di Venere, che sperano di potersi sostituire a Dio, nel comprendere le leggi e i meccanismi dell'evoluzione, della creazlone, della nascita e della morte. Tutto inutile. Peru' i suoi protagonisti ci provano, e ci prova anche lui.

Il suo non e' un cinema dei sentimenti, e' ovvio. Ma mica tanto. Perche' in realta' i suoi film sono molto piu' sentimentali di quanto si pensi. I suoi personaggi tentano disperatamente, selvaggiamente, il congiungimento con l'altro, la salvezza anche nell'amore, o anche solo nel possesso di un altro essere umano. E sempre falliscono. Non si capiscono, fossati incolmabili separano i due sessi, gli esseri umani appaiono tutti come monadi incongiungibili ad altri individui. Tutto ciu' con cui possono entrare in relazione sono le cose: i numeri, le lettere dell'alfabeto, i nomi. I giochi possibili sono quelli con le cose. Ed e' quello che fa Greenaway, giocando e rimescolando le carte, contaminando le immagini dei pittori piu' amati le une con le altre, sistemando e sovrapponendo le sue cabale, i suoi enigmi, le sue preziose graffitazioni figurative. Lasciando che gli umani galleggino, da soli, nel loro viaggio verso il vuoto, nel loro fluttuare nello spazio, dove nessun contatto umano e' possibile e salvifico, dove il destino e' obbligato, dove la vita e' uno scivolo, lento e inesorabile, verso l' uscita. Per questo, assume grande importanza nei suoi film il luogo, e dunque l'architettura, oltre che il paesaggio. Tutto quello che c'e' intorno agli uomini non sono altri uomini, se non come portatori di contrasto, di minaccia, talvolta di morte. Tutto quello che c'e' intorno e' un enorme plastico: l'architettura delle cucine de Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, quella della Biblioteca Laurenziana "copiata" nell' Ultima tempesta, quella del teatro seicentesco del Bambino di Macon, quella - fantastica - della spiaggia inglese di Gochi nell'acqua; quella - reale, trasfigurata, rosseggiante - di Roma nel Ventre dell 'architetto, dove si incontrano tutti monumenti relativi al culto dei morti, al culto della morte, nella Capitale, nella citta' ritenuta "eterna". 0 l'architettura "distesa", il disegno stesso delle sue opere, che assomigliano sempre a mappe, piuttosto che a strade. La narrazione conta poco; e invece, tutto sembra disposto secondo casselle, ogni momento assomiglia ad uno spazio. I suoi film sembrano, unici forse nella storia del cinema, carte topografiche, immagini di citta' viste dall'alto. Giochi nell'acqua, con la sua progressione narrativa da 1 a 100, assomiglia alla pianta di un quartiere, con tutti i suoi edifici numerati; o all' "architettura" di un calendario dell'avvento, con le sue caselle numerate, ognuna delle quali rivela un'immagine.

L'architettura non e' che un gioco fra i tanti, un modello fra i tanti. Costruire, disporre, redisporre, mettere insieme i cubi e le piramidi e i cilindri del Sapere, come bambini. E' quello che fa sempre Greenaway, postmodernamente ricreando i suoi edifici con materiali preesistenti, eterogenei, e creando cosí un "non passato" da fantascienza che sta lí, ne' falso ne' vero, e comunque smagliante, barocco, turgido, sensuale, fumigante, oscuro, minaccioso, sorprendente. Scrivere e riscrivere il mondo, costruire mondi fantastici, cercare altri libri, nella Biblioteca di Babele, oltre quelli banali della cronaca e della Storia.. E magari, recuperare e trasformare una storia dell'anno Mille, scritta da una geisha sconosciuta, riportarla al presente, in una Hong Kong da videoclip che muove le sue belle gambe tecnologiche verso l'anno Duemila, per varcare l'ultima frontiera: e' The Pillow Book. Ma questa e' un'altra storia..

The Pillow Book... Dopo aver mostrato, tante volte, il corpo nudo come cruda evidenza di se', come prova tangibile, anatomica, medico-legale, della nostra esistenza e della nostra morte (Les morts de la Seine, Giochi nell'acqua, Il cuoco, il ladro... ovunque c'e' un corpo disteso su un tavolo, un cadavere, una massa inerte), dopo tutto questo, legare al corpo la Letteratura. Usare il corpo come pagina bianca, scrivere sul corpo: il Corpo e il Libro, due delle ossessioni di Greanaway, che finalmente trovano la via della loro strana e improbabile unione. In The Pillow Book, la ragazza protagonista si fa scrivere addosso dai propri amanti, e scrive sui loro corpi il suo romanzo; manda ad un editore tredici messaggeri, libri viventi da valutare, corpi nudi coperti di parole. E insieme agli ideogrammi pennellati sui corpi degli amanti, ci sono i (v)ideogrammi di Greenaway, che continua a graffitare immagini complesse, sofisticate, fuse con altre immagini, con parole che scorrono sullo schermo, con musiche finalmente post-nymaniane. Mentre la violenza, la sconfitta e la morte, l'uomo violentato e umiliato, non sono temi perduti, tornano: il Libro di carne (uno di quelli non contemplati in Prospero's Books) e' mortale. E intanto, forse per primo dopo Barthes e Oshima, Greenaway riesce a mescolare Impero dei Segni e Impero dei Sensi, cos“ come riesce a fondere la sacralita' del Libro con quella del Sacrificio. In fondo, non ne siamo tanto lontani, la Bibbia e il Cristo. Anche Greenaway, come Borges, conviene - del resto - che le storie da raccontare siano sempre quelle, quelle della tradizione mitologica e quelle della tradizione giudaico-cristiana. Borges diceva che c'erano solo il ritorno di Odisseo e l'uomo crocifisso sul Golgota; Greenaway, probabiimente, aggiungerebbe qualche archetipo della mitologia: tutti e due, l'uno pre, l'altro post-postmoderno, sanno che ogni storia, in fondo, e' gia' stata raccontata. E che ogni storia resta ancora da raccontare.


Just Place
di Peter Greenaway
traduzione a cura di Giovanni Bogani

"Ricordo un dramma del Po con Sophia Loren, o Gina Lollobrigida, o era Anna Magnani? Non ricordo le sue gambe nude, ma ricordo le pozze del riso. E posso sentire le zanzare. . . "

"Come si puu' avere un genius loci con una nebbia? Le nebbie di Kurosawa arrivano con i cavalieri carichi delle armature imbozzolati all'interno, come dettagli architettonici per aiutarti a trovare la scala".

I luoghi, piuttosto che le persone. Mi conosco, e so che il mio entusiasmo e' piu' forte per i luoghi che per le persone. Tuttavia, amo le folle. Forse, questa affermazione non e' cosi contraddittoria come sembra. Un numero sufficiente di persone in uno spazio vasto e piatto formano, esse stesse, un luogo, un genius loci con una propria forma. E un suo odore. E temperatura. E quando la folla si disperde, vieni lasciato con un seno di vuoto addosso che e' tangibile, percepibile.

Concomitante con il genius loci, c'e' per me una certa inquietudine, una tangibile ansia. Questa inquietudine non e' una situazione infrequente. L'isola di Saark me la procura, e la casa del romanzo La gelosia di Robbe-Grillet, e le strade di campagna aperte e indifese di Uccellacci uccellini. Il genius lo e' riconvertiblie? Proviamo a pensare dl tentare di ricreare un luogo reale unicamente a partire dalle informazioni fornite da un libro. O da un quadro. O da un film. Rapidissimamente, quel paesaggio si riempirebbe di vuoti, di lacune e di dettagli grossolanamente mal disposti, che creano inquietudine e disagio. Una lunga consuetudine ci ha abituati a questo scollamento dallo spazio reale. Il pubblico del cinema ha imparato bene a nascondere le sue ansieta' e ad essere complice della grande "illusione dello spazio".

Per imprimersi davvero sull'immaginazione, il luogo deve indubbiamente essere stato modellato dall'uomo. Almeno, deve essere stato toccato - sia pure per pochissimo tempo - dalla mano dell'uomo. E poi, preferibilmente, deve restare "intatto, di nuovo svincolato dalla stretta dell'uomo. Tutto questo si applica al paesaggio rurale cosi come a quello urbano. Davvero poco in Inghilterra non e' stato modellato dal tocco umano; c'e' ben poco, in Inghilterra, di selvaggio. Ma non ci sono troppi film seri su questo paesaggio continuamente riutilizzato, sugli scavi, sulla archeologia seria, su un vero "amore delle rovine. Indiana Jones non e' un archeologo serio.

Se il piacere del luogo e' forte, se puoi guidare un'auto o prendere un aereo, o una nave e visitarlo, e' ugualmente forte, se non di piu', se il luogo e' praticamente irraggiungibile. Se esiste unicamente nelle parole. In un quadro. In un film. In questo modo, ci puoi sommare le tue inquietudini. Ma esiste un pubblico che voglia vedere un film che sia unicamente sul luogo? Non ci sarebbero persone in questo ipotetico film - ne' attori, ne' comparse, ne' folle - ma solo i segni che hanno prodotto, le loro tracce - preferibilmente, risalenti a molto tempo prima. Forse, potrebbero esserci poche ombre dechirichiane su un muro, a distanza. Ma il film sarebbe pieno di citazioni, come quegli impressionanti Capricci del Settecento, che, evitando gli inconvenienti di un punto di osservazione impossibile e di condizioni meteorologiche avverse, ponevano il tuo edificio preferito in uno spazio di tua scelta, e si permettevano di mescolare cronologie e stili, e di costruire una citta' utopica di prospettive immacolate come la Citta' Ideale di Piero della Francesca. Fai da te la tua citta' ideale. Metti la cattedrale di St. Paul sul Canal Grande, e il Duomo di Colonia nella Foresta Nera.

Si puu' fare di meglio - come Adriano, che raccolse tutti i grandi edifici del suo impero e li mise tutti insieme nel suo giardino. Piu' modestamente, come Ellis al Portmerion - anche se la presenza di un campanile italiano in Galles e' ugualmente problematica. Di questo gusto, Piranesi e' l'esponente preminente, anche se Desiderio e' piu' misterioso e Boulle'e piu' monumentale. Si possono sempre fabbricare gli stessi inganni architettonici nel cinema, in uno studio, con un armamentario di strumenti - pittura su vetro, sorgenti di luce multiple, Croma-key, artifici da trompe-l'oeil. Un'architettura costruita esclusivamente per la cinepresa. A mezzogiorno puoi fare l'alba, e dopo la pausa pranzo, puoi fare mezzanotte, con un luna che puu' essere manipolata in modo da brillare esattamente sul peristilio, e produrre sette ombre separate da sette diverse colonne.

In questo ipotetico film sul genius loci, mi piacerebbe citare i suburbi italiani della Strada - bordi della citta' che odorano di spazzatura che brucia, e risuonano dell'eco di musiche sentimentali di tromba che rimbalzano da squallidi palazzi a piu' piani. E la lunga prospettiva del cimitero in autunno, alla fine del Terzo uomo. Le tre tombe nella Morte di san Pietro martire di Giovanni Bellini - anche se ci sarebbero da cancellare le macchie di sangue. Le baracche e i granai isolati in innumerevoli dipinti di Stubbs - nuovi mattoni, nuove tegole, l'odore di urina di cavallo e il suono delle allodole. Gli umidi fossati nel quadro The Hireling Sheperd di Holman Hunt. Tutti i posti umidi sono buoni - finche' non c'e' paura di annegare. Mi ricordo di un melodramma sulle piantagioni di riso, ambientato nel Po, con Sophia Loren o Gina Lollobrigida, o forse era Anna Magnani? Non mi riesce piu' di ricordare il volto dell'attrice, o le sue gambe nude, ma mi ricordo gli orizzonti bassi e il rio negli acquitrini. Posso sentire le zanzare.

Il luogo, e l'architettura. C'e', nel cinema, un vero, autonomo interesse per gli spazi architettonici? Fortunatamente, si direbbe di si, spesso. Tisse' che fotografa le case popolari per Sciopero di Ejzenstejin, Robbie Muller che inquadra New Orleans per Down by Law di Jarmusch, lo sguardo di Coutard per la Parigi di Godard, specialmente (e sorprendentemente) i monumenti turistici. Lo sguardo di Fellini per Roma. Insieme a Fellini, in cima alla lista, dovrebbero esserci, senza dubbio, due grandi registi dello spazio - Resnais e Antonioni, con Sacha Vierny e Gianni di Venanzo come cameramen.

Mi viene in mente Dirk Bogarde che guida in Providence di Resnais lungo una strada di palazzi borghesi e di palazzi middle-class, accompagnato dalla musica piu' arrogante e celebrativa. Narrativamente insignificante, inesplicabilmente fastidiosa. Raramente ho dato uno sguardo a edifici simili, senza provare un'allarmante inquietudine. Ricordo benissimo l'equivalente inglese; ogni giorno, camminando, passavo accanto a mausolei domestici coperti di edera, nella mia strada verso la scuola. Ognuno di quei vialetti d'entrata era come un'autostrada a doppia corsia. Resnais e' un eccellente regista dello spazio. Le strade in bianco e nero della collaborazionista Nevers in Hiroshima mon amour, i casinu' al tramonto in Muriel e gli allucinatorii incubi architettonici di Marienbad. Dopo Marienbad ho visto le foto di Euge'ne Atget su Versailles, in bianco e nero. E mi hanno ricondotto alle nebbie e alle brume di Kurosawa. Come si puu' avere un genius loci con una densa nebbia? Le nebbie di Kurosawa arrivano con dei cavalieri carichi delle armature imbozzolati all'interno, come dettagli architettonici per aiutarti a trovare la scala visiva dell'insieme.

Per vedere come si possono disporre, e mettere in scala, i personaggi al meglio - non nella nebbia, ma contro solidi, lucenti muri e mattoni sbrecciati, e in angoli di strada malinconici da fine del mondo, si guardi a uno qualsiasi dei film in bianco e nero di Antonioni. Superbi montaggi architettonico-atmosferici. Persino nella Londra di Antonioni - che io dovrei conoscere - in Blow-up - perche' non avevo mai visto quei quieti giardini urbani, al soffio di un lieve vento, tanto minacciosi come in quelle case di Magritte nell'ora in cui si accendono le luci, o come quelle case isolate di Carel Willink, risposta nordeuropea a Edward Hopper?

Mi piacciono i serbatoi d'acqua. E mi piacciono le case sulla spiaggia. Nell'Europa del Nord ci sono luoghi prima abitati e poi lasciati, abbandonati, dall'uomo: senza che siano divenuti oggetto di ricerche archeologiche. Sono luoghi; abbandonati e "non abbandonati". Per esempio, nessuno. in Inghilterra, vive in una casa sulla spiaggia. Tranne noi. Da bambini. Nella mia famiglia. Mio padre amava l'odore del creosoto e dell'alcol metilico - il primo per tenere lontana l'acqua, il secondo per bollire il primo. Per il te'. Mio padre amava l'umidita', ed era un acuto amante del genius loci.

Hilla e Bernd Becher sono, per le fotografie delle torri d'acqua, ciu' che Meyerowitz e' per fotografare le case sulla spiaggia. Io stesso ho fotografato dei serbatoi d'acqua lungo il fiume Humber nello Yorkshire, sovvertendo la loro funzione, immaginando che venissero trasformati in echeggianti tunnel di pellicola, che hanno, nella loro imprecisa circolarita', una grande somiglianza con un mucchio di bobine cinematografiche vuote, che fanno un gran rumore se prese a calci. Le case sulla spiaggia di Meyerowitz, dal pavimento umido, variamente fotografate in condizioni di tempesta o di brillante luce del giorno, hanno ispirato la casa sulla spiaggia, con il padiglione coperto di tela bianca, all'art department di Giochi nell'acqua. Quelle case sulla spiaggia piacquero tanto che stampe di quei fotogrammi sono state richieste da spettatori tedeschi ed americani, i quali pensavano che forse potevano costruirsi essi stessi un simile gazebo da spiaggia.

Un tipo del Maine ci ha mandato un assegno di cinquemila dollari per averne il progetto. Ma il nostro edificio non era che cartone, di fronte ai venti del Mare del Nord, ed e' stato spazzato via nell'ottobre 1987 - durante la notte dell'unico uragano giunto in Inghilterra nel secolo Ventesimo.

I ricordi piu' forti di un senso dello spazio che abbia avuto, da bambino, sono quelli di piagge - tutte le spiagge - i luoghi esotici delle vacanze estive. Ero sempre l'ultimo a lasciare la riva, a chiudere la porta della casa, a chiudere le tendine, mai certo che avrei rivisto il mondo la' fuori cosi come l'avevo lasciato.

Ero riluttante a viaggiare, a causa della difficolta' di ripetere la mia agognata, bramata esperienza del luogo. Da bambino, soprattutto mi davano fastidio i viaggi veloci, perche' non potevo capire le connessioni ira i luoghi. Dormivo sui treni, per evitare il conseguente strappo, ed ero felice che ci fossero sufficienti superstizioni per legittimare la mia paura di non rivedere un posto. Lasciavo monetine in tutte le fontane. Elemosinavo l'uso di una macchina fotografica da pochi soldi, ma ventiquattro scatti del mare e della sabbia sfocati erano davvero troppo poco. Ancora, mi sento a disagio in una citta' sconosciuta, anche se Sacha Vierny mi ha incoraggiato a portarmi dietro un compasso. Lui ne ha sempre uno - piu' o meno, delle dimensioni di un pisello schiacciato. Lo usa per sapere da quale parte il sole lo attacchera', e per mantenere il suo controllo. Con un compasso,almeno, puoi sapere dov'e' il Nord. Una mappa dl solito placa il disagio. Se non altro, una mappa ti solito un illusorio senso di possesso, e situa i dettagli e la continuita' di un luogo anche se non puoi esperire e percorrere ogni strada.

Ora, sono sicuro che queste mie angosce adolcenziali non erano estranee a questioni di luce, poiche' la notte, molto spesso, annullava il problema. Sapevo bene che la possibilita' di apparire diverso, di cambiare, che un luogo po6sedeva, era meno probabile al buio. Forse e' una preoccupazione tutta inglese, dal momento che la luce cambia rapidamente in Inghilterra e non puoi mai contare che la situazione si ripeta. Constable lo sapeva. Cos“ Turner. Constable fronteggiava questa instabilita' e aspettava. Turner si esasperu', e andu' in Italia. La misura della mia ansia e' cambiata; adesso, e' divenuta professionale, non personale. Sospetto che una delle ragioni, non sbandierate, per le nquadrature claustrofobiche girate in studio dei miei ultimi tre film abbia a che fare con l'ansia per i fugaci cambiamenti di luce che, in esterni, sfuggono al controllo del regista.

Nessun piacere per lo spazio architettonico puu' essere separato dal piacere per la luce. Nello Zoo di Venere, l'architettura di riferimento era, in gran parte, l'Art De'co dell'olandese-hollywoodiano van Ravenstyn. Di notte, attraverso la cinepresa, le architetture sembrano essere state appena ricostruite. Un leone e una tigre si aggiravano furtivamente con splendida incongruita'. Alla luce del giorno, tutto quello che la camera continuava a vedere era il decadimento di sbarre arrugginite e lo stucco che cadeva dal cemento rococu'. L'architettura dei luoghi, al buio, e' quasi un genere a se': con la particolare, e curiosa, proprieta' che, per una volta, la cinepresa puu' vedere cose che l 'occhio umano non riesce a distinguere - a parte il fatto che ciu' accade perche' il regista usa la luce di un'esplosione di dimensioni belliche o i bagliori di un dispositivo da fuochi d'artificio.

La foresta al chiar di luna nel Settimo sigillo di Bergman dovrebbe essere ripresa, in questo ipotetico film sullo spazio, ed e' sconvolgente, e coniortante allo stesso tempo, sapere che non si tratta di avvolgenti foreste di querce a foglia larga che si sono estese nell'Europa del Tredicesimo secolo dalla Svezia agli Urali, ma erano un boschetto di alberelli nel retro degli studi cinematografici, negli anni '50. Si puu' imbrogliare il genius loci.

Lo spazio architettonico nel film e' rigido. Filmare l'architettura significa diventare prontamente consapevoli delle molteplici stranezze della visione e delle nette illusioni della retina.

Sacha Vierny ed io abbiamo misurato piu' e piu' volte, con i passi, gli edifici di Roma scelti per il film Il ventre dell'architetto, per trovare l'esatto rilievo da dare agli uomini e ai monumenti. Quell'equilibrio, non l'abbiamo mai trovato col mausoleo di Augusto, che rifiutava di farsi riprendere nella sua totalita' da nessun concepibile obiettivo grandangolare, ma puu' darsi che il Pantheon e il Vittoriano siano stati piu' clementi. Se il tuo set architettonico preferito e' classico, allora devi combattere la frustrante mutevolezza delle linee verticali che insistono a volersi trasformare in diagonali - certo, non ogni film puu' inquadrare le sue verticali architettoniche di sghimbescio come Il terzo uomo. Tutte le linee orizzontali importanti i piegano, si deformano con il grandangolo. Un pittore puu' ingannare. Canaletto che dipinge Venezia. Saenredam che dipinge le chiese di Amsterdam.
Piranesi nei suoi disegni di Roma. Persino Sickert, quando dipinge Camden Town. Il pittore puu' facilmente inventare multipli punti di fuga. Non si cura troppo della scala. Ha una tavolozza arbitraria. La sua visione ubiqua e' invidiabile. Puo' mostrare - in modo apparentemente convincente entrambi i lati dello stesso muro allo stesso istante. Tuttavia, se un pittore puu' ingannare, entro i suoi limiti, non e' detto che l'architetto non abbia ingannato prima di lui. Sono giunto alla convinzione che, in termini di perfezione classica, l'architetto si e' preso altrettante liberta'.

In piu' di una occasione sono stato accusato di sprecare gli attori, nel tentativo di esaltare l'architettura. "Per quale motivo impiegare tanti talenti, se tutto quello che vuoi e' un manichino in mezzo a un'architettura, una figura in scala per una facciata, un corpo per misurare uno spazio che curva?". Tuttavia, mi piace pensare che alcuni attori siano felici di sedersi davanti a un capolavoro dell'architettura e possano applaudire, come applaudono al Pantheon nel Ventre dell'architetto.
Cosi' perche' non possiamo semplicemente applaudire la gioia, il dramma e la mutevole luminosita' di un senso del luogo? Un giorno lo faru'. Niente attori. Niente dialogo. Niente trama. Niente narrazione. Niente comparse. Niente folle. E' stato detto, della moschea di Cordoba - un luogo che e' davvero architettonicamente stupefacente -, "Non c'e' niente di piu' crudele, nella vita, che essere ciechi a Cordoba". Penso che potrebbe essere un degno epitaffio per questo possibile film.



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