MAL DA LAVORO Storia della salute dei lavoratori

di Francesco Carnevale e Alberto Baldasseroni


Introduzione di Giorgio Cosmacini


(Editori Laterza, 1999)

Quest’opera – che recensiremo opportunamente nell’apposita Rassegna Bibliografica  del nostro sito – è da considerarsi, per l’argomento trattato, non soltanto una  preziosa e ricca fonte di analisi storica della medicina del lavoro, ma anche un importante evento editoriale che vede ancora una volta protagonista la lungimiranza della gloriosa casa editrice barese Laterza.

“Mal da Lavoro” dedica particolare attenzione allo sviluppo delle conoscenze scientifiche e alla loro applicazione o mancata applicazione, alle lotte per rivendicare e ottenere migliori condizioni materiali di esistenza.

Per i vari periodi storici e per i diversi rischi lavorativi nelle pagine del libro si trovano fatti, testimonianze di protagonisti, dati ufficiali, cronache scientifiche, ma anche storie di vita raccontate dalla parte delle vittime. Al termine di ogni parte del libro, è possibile consultare una preziosa e ricchissima bibliografia a testimonianza della capillarità della ricerca storico - scientifica condotta dagli Autori.

Chi sono gli Autori.

Francesco Carnevale (Sersale, 1944), medico del lavoro presso l’Azienda Sanitaria di Firenze, è professore a contratto presso le Università di Firenze e Urbino. E’ coautore di un Manuale di medicina del lavoro e di medicina legale (Verona,1986) e di un Trattato di sanità pubblica (Roma, 1993). Ha curato la pubblicazione di opere di Bernardino Ramazzini.

Alberto Baldasseroni (Roma,1955), medico del lavoro ed epidemiologo presso l’Azienda Sanitaria di Firenze, è professore a contratto presso l’Università di Firenze. E’ coautore di Per una storiografia italiana della prevenzione occupazionale e ambientale (Milano,1997).

Ci sembra interessante riportare una parte della Premessa fatta dagli Autori nel libro da cui è possibile assimilare i concetti fondamentali che hanno portato alla scrittura di “Mal da lavoro”:

“ Chi si cimenterà nella lettura di quest’opera dopo poco tempo si accorgerà delle diverse trame che sono presenti nel testo, alcune più marcate, altre più sottili: La salute dei lavoratori sarà certamente l’epicentro, ma si potranno trovare anche percorsi speciali sulla storia delle tecnologie, su quella delle discipline mediche interessate all’argomento, sulla cultura delle e sulle classi lavoratrici. Su alcuni avvenimenti storici coevi. Alcune di queste trame trovano il loro sviluppo nelle note riportate alla fine di quasi tutti i capitoli. Questo tipo di organizzazione giustifica l’ampiezza e, talvolta, il dettaglio di tale apparato. E’ possibile che un lettore che sia storico di professione ritenga di una qualche utilità la bibliografia così come è stata raccolta e organizzata, come pure le fonti bibliografiche individuate. Ai cultori di medicina del lavoro si spera di aver offerto un’occasione di conoscenza e interpretazione, sia pur parziale e soggettiva, sulle origini della disciplina, sui suoi percorsi e sulle prospettive che si avvicinano. In generale si valuterà lo sforzo di rendere conto della complessità e dell’infinito intrecciarsi di relazioni sociali e culturali quando si affrontano temi come quelli del lavoro e dei lavoratori in tutti i periodi storici, ma in particolare di quello preso in esame. I limiti soggettivi nell’ampiezza di un lavoro di questo genere rendono conto dell’incompletezza nello sviluppo di taluni aspetti del problema. E’ degli autori la responsabilità delle scelte fatte nel sacrificare questa o quella parte che avrebbe meritato più ampia trattazione.

Il libro è dedicato ai lavoratori italiani che in patria, ma in gran numero anche al di fuori dei suoi confini, hanno contribuito a creare la ricchezza delle nazioni, ma è anche dedicato ai lavoratori stranieri che nel nostro paese vivono e lavorano, contribuendo in eguale misura a tale ricchezza”.

 

Il libro è stato presentato il 25 maggio in occasione del Seminario “Mal da lavoro – la salute dei lavoratori: ieri, oggi, e domani? “, organizzato dalla Fillea – CGIL Regionale Toscana in collaborazione con l’associazione Ambiente e Lavoro Toscana Onlus al quale hanno partecipato, oltre agli Autori, Nedo Baracani, Luigi Gasperini, Stefano Beccastrini, Diego Ahlique, Marco Lai, Rodolfo Guarducci, Pietro Causarano, Andrea Valzania, Andrea Montagni e Siro Romagnani. Hanno aperto e concluso i lavori rispettivamente Mauro Livi, Segretario regionale della Fillea-CGIL e Franco Martini, Segretario generale della CGIL Toscana.

Di seguito, riportiamo il testo dell’intervento scritto per l’occasione da Luigi Gasperini dell’Associazione Ambiente e Lavoro Toscana.


Luigi Gasperini

La tutela del “mal da lavoro” dall’età giolittiana all’avvento del fascismo

 

Leggendo “Mal da lavoro” , mi viene spontaneo inserire l’opera di Francesco Carnevale e Alberto Baldasseroni in quel filone della storiografia medica del lavoro che si riallaccia , con un ritmo di continuità e, naturalmente, di aggiornata valutazione del quadro epidemiologico dovuto alle mutate condizioni di rischio e di malattia dei lavoratori italiani, a quel fondamentale, capillare lavoro sulle “Malattie dei lavoratori” scritto agli inizi del 1700 da quel grande patologo emiliano che fu Bernardino Ramazzini .

E’ da sottolineare che non è casuale se il lavoro del Ramazzini fu  elaborato proprio all’inizio del 1700, cioè in quel periodo che fece da spartiacque tra il secolo della rifeudalizzazione socio-economica seicentesca ed il secolo della settecentesca rivoluzione agricola, innescante l’età dell’industrializzazione . E non è altrettanto casuale che il lavoro scientifico del Ramazzini portasse il titolo, in latino, De morbis artificum diatriba, ovvero le “ malattie dei lavoratori”, intendendo specificare la frequente dipendenza “genetica” dei morbi insorgenti da un’arte – come si diceva allora –o meglio – si direbbe oggi – da un lavoro, sottolineando il fatto che il rapporto tra vita e lavoro è biunivoco: si lavora per vivere, ma lavorare può anche voler dire contrarre, o disporsi a contrarre una malattia che riduce la quantità e la qualità e la vita.

Nel secolo in cui visse e operò il Ramazzini, il lavoro dell’uomo aveva già superato alcuni percorsi, passando dal cosiddetto lavoro “obbligato”, cioè dalla schiavitù, alla nascita del lavoro a tempo pieno che costituì una svolta molto importante, proprio perché rappresentò la nascita del “mestiere”. Infatti, prima di allora ogni persona s’industriava a fare da sé ogni oggetto che le occorreva e solo in seguito imparò a coordinare il proprio lavoro con quello degli altri.

Nacque così la bottega artigiana, che con il tempo s’ingrandì, sviluppando al suo interno attività lavorative complementari, dando luogo alla “fabbrica” in senso storico. E' in questo ambiente, dove si ha un’estensione della manovalanza, che nasce la consapevolezza, non solo scientifica, epidemiologica, ma anche sociale, di studiare direttamente nei luoghi di lavoro le malattie dei lavoratori per individuarne le cause del loro manifestarsi ed i possibili rimedi, cosa che si svilupperà, ancor più incisivamente allorché si compirà quel significativo passaggio concettuale dalla medicina sociale alla cosiddetta medicina politica, intendendo dire con ciò che la medicina dei lavoratori non poteva essere vista soltanto sotto il profilo strettamente filantropico ma come problema di giustizia sociale, anticipando quei concetti che saranno ulteriormente sviluppati alla fine del secolo XIX, e particolarmente, agli inizi del secolo XX, legiferando le prime normative sugli infortuni e, seppure successivamente sulle malattie professionali.

Con la moderna medicina del lavoro si è sempre più consolidato ciò che stava alla base degli studi del Ramazzini, vale a dire la concezione della preminenza della prevenzione su ogni altro intervento sanitario. Infatti, il grande patologo emiliano non si stancava mai di raccomandare ai suoi allievi di porre attenzione al mestiere esercitato dal paziente e alle relative tecniche di lavorazione, per individuare appunto la possibile origine delle malattie da lavoro per prevenirle.

In sostanza, la moderna teorizzazione della prevenzione si basa sugli insegnamenti di allora, cioè la distinzione tra prevenzione primaria, basata sulla lotta alle cause del danno; la prevenzione secondaria, mettendo in atto le misure che, attraverso una diagnosi precoce e un’opportuna terapia, limitino al massimo il danno e, infine, la prevenzione terziaria tendente ad impedire i decorsi più sfavorevoli, le complicanze ed i postumi permanenti. Prevenire, dunque, significa prima di tutto valutare l’ambiente, allo scopo di pesare le probabilità di danno per i soggetti esposti e per stabilire come quel certo ambiente debba essere modificato per essere reso non nocivo (cioè azzeramento del rischio) o almeno per la massima  parte degli esposti ( ovvero contenimento del rischio nei limiti materialmente possibili).

Comunque, per rendere operativi, anche se non del tutto compiutamente, tali concetti si è dovuto percorrere un lungo cammino, durante il quale si sono verificati avvenimenti di grande importanza storica come la rivoluzione industriale inglese e la rivoluzione francese. Entrambe hanno decisamente dato l’avvio allo sviluppo tecnologico nei sistemi di produzione nel primo caso e alla profonda modificazione dei rapporti economici e sociali nel secondo caso.

Infatti, con l’introduzione di macchine sempre più sofisticate nel processo produttivo e quindi con lo sviluppo delle industrie manifatturiere, si assiste ad un periodo di profonde trasformazioni che anche in Italia, nella seconda metà del secolo XIX, creeranno le condizioni per avviare la nostra rivoluzione industriale, nel cui contesto sociale le problematiche della salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro cominciano a farsi strada, grazie anche al diffondersi delle teorie politiche e sociali che saranno patrimonio sia del socialismo sia del cattolicesimo popolare e che daranno origine alle organizzazioni della classe operaia (prevalentemente a tendenza socialista) sia della classe contadina (prevalentemente a tendenza cattolica).

In proposito, è  d’obbligo ricordare che il 22 novembre del 1891 cominciò a funzionare a Milano la prima Camera del lavoro e sempre nello stesso anno Papa Leone XIII scrisse l’Enciclica “Rerum novarum” che, appunto, volle rappresentare l’impegno del mondo cattolico nei riguardi dei problemi sociali.

Con la crescente importanza che andava assumendo il cosiddetto “macchinismo industriale”, collegato all’utilizzo dell’energia elettrica e quindi all’introduzione del motore elettrico, sul finire del secolo XIX ebbe luogo la riorganizzazione complessiva del lavoro e quindi la nascita della grande produzione in serie e conseguentemente, di fronte all’aumentare degli infortuni e delle malattie da lavoro, alla presa d’atto del potere politico – anche di fronte al manifestarsi di una sempre più organizzata protesta operaia – sulla necessità di dare inizio, seppure lentamente, ad un processo legislativo che tenesse conto della tutela dei lavoratori e dei rischi connessi alla loro attività, superando quindi il concetto di beneficenza per dare forma ad un sistema previdenziale ed assistenziale “normato” da leggi dello Stato.

Praticamente il sistema previdenziale dell’epoca si reggeva sulle gloriose Società di mutuo soccorso : secondo un censimento del Governo, era stimato che nel 1885 ne esistessero ben 1134, che svolgevano principalmente funzioni di assistenza per il caso di malattia, a volte estesa anche alla famiglia del lavoratore ammalato  e, quasi sempre, per il caso di morte venivano previsti sussidi per la vedova e per gli orfani.

Contemporaneamente il mutualismo venne affiancato da altri fenomeni , come il cooperativismo e alla trasformazione, in alcuni casi, di società di mutuo soccorso in organizzazioni operaie a carattere rivendicativo, le cosiddette “società di resistenza”, che aprirono la strada alle leghe operaie, con una diversa connotazione ideologica.

Di fronte alla crescente coscienza sociale, cominciò quindi a profilarsi la necessità di una regolamentazione della materia previdenziale, sulla quale fu inevitabile lo scontro fra correnti liberali, cattoliche e socialiste, specie per la diversa concezione della libertà delle forme private di previdenza.

La prima legge di regolamentazione delle società di mutuo soccorso ( si potrebbe dire della previdenza sociale) si ebbe con l’emanazione della legge 15 aprile 1886, n. 3818, che rappresentò, appunto, il tentativo di coordinare lo sviluppo e l’azione delle stesse società di mutuo soccorso con l’ordinamento dello Stato unitario.

L’innovazione introdotta con tale legge fu la possibilità del riconoscimento della personalità giuridica per le società di mutuo soccorso che prevedessero sussidi in caso di malattia, di “impotenza” al lavoro o di vecchiaia, aiuti alle famiglie dei soci defunti, nonché l’educazione dei soci e delle loro famiglie ed un aiuto economico per acquistare attrezzi o per altre esigenze legate al lavoro.

Ma per ciò che riguardava, più specificatamente, la tutela del “mal da lavoro” dobbiamo rifarci alla Legge ordinaria del Parlamento del 30 marzo 1893 n. 184 relativa alla “Polizia delle miniere, cave e torbiere” che dettava delle norme di controllo tendenti a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori di quel settore particolarmente “ a rischio”, si direbbe oggi. Una legge sicuramente importante, se pensiamo che è stata abrogata e sostituita soltanto nel 1959 con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 128 del 9 aprile 1959.

Ma, indubbiamente, un vero salto di qualità legislativo, si avrà con l’emanazione della Legge ordinaria del Parlamento n. 80 del 17 marzo 1898  con la quale venne sancita l’obbligatorietà della assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e, dunque, la nascita del

sistema previdenziale in Italia, costituendo la Cassa Nazionale di assicurazione

contro gli infortuni e sancendo le modalità per la gestione delle società o imprese private di assicurazione.

Dopo l’emanazione di questa prima legge sull’assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro, con l’inizio del XX secolo, coincidente in Italia con la politica economica e sociale della cosiddetta “età giolittiana” che porterà ad una fase di espansione industriale, i temi riguardanti la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori si imporranno in modo sempre più incisivo sia sul piano politico-sociale sia sul piano legislativo.

Riprenderanno anche, dopo un oblio di lunga durata, gli studi di igiene e fisiopatologia indirizzati ad approfondire i rapporti esistenti tra medicina e realtà occupazionale e ambientale per meglio conoscere, come ebbe a scrivere allora il patologo Paolo Mantegazza, “ i risvolti dannosi dell’industrialismo”.

Infatti, nel 1906 a Milano, prima al mondo, venne inaugurata la Clinica per lo studio, la cura e la prevenzione delle malattie professionali, diretta dal patologo Luigi Devoto il quale, nella stessa città lombarda, fonderà anche la prima associazione internazionale per lo studio dei problemi e delle malattie che traggono origine dal lavoro, continuando quegli studi che, seppure in situazioni ambientali ben diverse, furono iniziate dal Ramazzini.

Insieme con Luigi Devoto non possiamo non ricordare il patologo fiorentino Gaetano Pieraccini che rappresentò, come ha scritto qualcuno, l’incarnazione del medico dei lavoratori, ovvero il realizzatore di una medicina politicizzata, dove il binomio “ terapia sociale non etichetta un capitolo dedicato ad elementi di medicina preventiva, ma sigla piuttosto l’istanza di una medicina sociale attenta non solo ai modi di lavoro (mestieri, arti, professioni) ma anche ai rapporti di lavoro ( cioè sfruttamento) ed ai condizionamenti sociali ( miseria madre delle malattie).

Gaetano Pieraccini è appartenuto, dunque, a quella categoria di medici sociali che non si identificano più nelle figure dei medici apostoli, ispirati alla filosofia filantropica del “miglioramento umano, illuminato e progressivo”, ma –come ebbe a scrivere il grande medico milanese Giuseppe Forlanini, “ uomini di scienza che con ogni mezzo di sforzano di applicare quello che hanno riconosciuto utile e buono, ma che hanno anche sollecitato la lenta società a dare risposte concrete ai diritti delle moltitudini diseredate che reclamano maggiore giustizia sociale”.

 La legislazione sociale del primo decennio del XX secolo va letta e analizzata in una chiave d’interpretazione che tese a significare un segnale preciso di un nuovo atteggiarsi dello Stato nei confronti del sociale. E la configurazione di questo nuovo Stato, dopo la “grande depressione” che si manifestò dal 1887 al 1896, dopo i tragici fatti del ’98 e le fallimentari avventure colonialiste etiopiche, è rappresentata proprio con la nascita del Governo Zanardelli-Giolitti nel 1901 e dal secondo Ministero Giolitti dal 1903 da cui inizia, appunto, l’età giolittiana che durerà fino allo scoppio della prima guerra mondiale del 1914.

Per meglio comprendere e valutare le ragioni che portarono la classe dirigente italiana di quel periodo - ed in particolare con Giovanni Giolitti al quale debbono storicamente essere riconosciuti, io credo, molti meriti, oltre ai demeriti attribuiti al suo “trasformismo” – ad un significativo cambiamento di rotta, economico e sociale e quindi alla introduzione di una politica previdenziale, si devono innanzitutto conoscere gli avvenimenti che caratterizzarono gli ultimi anni del XIX secolo che si trasferirono, in modo pesante e contraddittorio, nel nuovo secolo, come la degradazione del Mezzogiorno che si manifesterà anche nel costume civile col clientelismo e il consolidarsi di centri di potere come la mafia la quale estenderà il proprio potere, divenendo strumento armato per la lotta politica e macchina elettorale nel 1884; il controllo del mercato, intorno alla borghesia del Nord, attraverso il protezionismo industriale (1885); la costituzione e il rafforzamento nel centro nord di grandi complessi industriali, come le acciaierie di Terni, la nascita della Pirelli per la produzione della gomma; le industrie cantieristiche (Orlando), del ferro (ILVA), le industrie meccaniche (Breda), le industrie tessili di Biella e Valdagno e le industrie chimiche, come la Montecatini sulla quale, in “Mal da lavoro” sono state scritte interessanti pagine. Fra gli altri avvenimenti che vanno ricordati vi fu l’estensione del protezionismo doganale del 1887; sempre nel 1887 lo sviluppo della rete ferroviaria e la costituzione delle colonie di Eritrea e di Somalia; le celebrazioni del 1 maggio con scioperi e manifestazioni a Napoli e Milano nel 1890; il realizzarsi del Congresso per la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani nel 1892 a Genova con un chiaro programma socialista, secondo il modello della socialdemocrazia tedesca (parlamentarismo, gradualismo riformistico); la caduta del Ministero Crispi nel 1892, la formazione del Ministero di Rudinì e quindi la formazione del governo da parte del generale Pelloux il cui primo atto fu quello di presentare in Parlamento le “leggi eccezionali” contro lo sciopero e la libertà di stampa (1899) e che, specialmente di fronte ai tragici avvenimenti di Milano, provocarono l’ostruzionismo della sinistra socialista affiancata dalla sinistra liberale di Zanardelli e Giolitti.

Il 1900 si aprì con l’uccisione a Monza del Re Umberto I da parte dell’anarchico pratese Gaetano Bresci. Nel 1901, dopo le dimissioni del generale Pelloux cui succedette il Ministero Saracco, venne costituito il Ministero Zanardelli, con Giovanni Giolitti agli interni che riconobbe il diritto di sciopero e avviò una legislazione sociale  a favore del proletariato operaio nel momento in cui, con la formazione nel 1903 del secondo governo Giolitti, avverrà nel nostro Paese un grande processo di trasformazione tecnologica, economica ed anche sociale, dando inizio quindi a quella che – come abbiamo già detto – sarà definita l’età giolittiana.

La politica giolittiana, pur cercando di interpretare le esigenze di una società in trasformazione, sarà, però, caratterizzata da profonde contraddizioni. Infatti, se da un lato prenderà consistenza una legislazione sociale a favore del proletariato operaio ed il decollo industriale, favorito da dazi protettivi, facilitazioni e sgravi fiscali, oltre a forti commesse dello Stato, dall’altro avremo il non intervento governativo nel Mezzogiorno, dove cosche mafiose e centri clientelari appoggeranno i deputati giolittiani e quindi abbandonando il sottoproletariato allo sfruttamento degli agrari, consolidando il blocco agrario-industriale.

E’, comunque, in questo quadro politico ed economico che prenderà avvio il principio della tutela del “mal da lavoro”, attraverso l’obbligatorietà delle assicurazioni sociali e il nuovo ruolo di mediazione sociale assunto dallo stato nei confronti degli interessi organizzati.

Non va, poi sottovalutato, che la nascita e lo sviluppo del sistema previdenziale, se vuole essere una evidente risposta istituzionale verso le classi lavoratrici, è , al tempo stesso, uno dei più rilevanti strumenti di sostegno alle esigenze dello sviluppo capitalistico italiano che, con la diminuita importanza della proprietà terriera, andava affrontando un’attività fortemente indirizzata verso la produzione industriale.

La politica economica di Giolitti tese, quindi, a creare quelle infrastrutture necessarie ad affrontare adeguatamente il processo di sviluppo, rivolto all’industrializzazione del Paese. Fra gli obiettivi principali vi furono la difesa delle finanze dello Stato contro gli interessi privati, favorendo gli investimenti del risparmio in titoli di Stato e con l’estendere le competenze bancarie e assicurative dello Stato stesso: in pratica iniziava la costruzione di quello che nel secondo dopoguerra si sarebbe definito il “ capitalismo di Stato”.

Come ha scritto Giampiero Carocci, “ la politica verso i problemi delle ferrovie, della marina mercantile e del monopolio delle assicurazioni sulla vita volle essere un argine contro i gruppi finanziari tradizionali, ottenuto facendo intervenire lo Stato nella gestione dei loro servizi o tentando di rompere lo stato di monopolio di cui godevano. A motivi analoghi era dovuto il favore con cui Giolitti considerava la municipalizzazione dei servizi pubblici cittadini”.

Intanto, nel processo in atto dell’espansione produttiva che, conseguentemente comportava un continuo aumento dei rischi lavorativi, i limiti del campo di applicazione della “storica” legge n.80 del 1898 sull’assicurazione degli infortuni, ed in particolare alcuni di essi apparvero eccessivi, come la corresponsione di sole prestazioni economiche, la subordinazione della tutela previdenziale al carattere contrattuale del rapporto di assicurazione; la possibilità di effettuare la revisione della inabilità permanente soltanto una volta; la devoluzione delle controversie alla competenza dei probiviri o del pretore se riguardanti l’indennità temporanea.

E’ quindi significativo che sin dalla elaborazione del primo provvedimento di attuazione si parlasse di una “riforma” della legge, attraverso proposte parlamentari, studi di commissioni o di privati studiosi. Una prima, modesta estensione della tutela antinfortunistica si ebbe con la legge 29 giugno 1903, n.243, cioè la prima estensione, alla quale ne sarebbero seguite altre, costituendo così la tendenza ad un’evoluzione legislativa della materia.

Nel frattempo si era andata sviluppando nell’ordinamento giuridico del paese una maggiore attenzione ai problemi della salute del cittadino in generale, come ad esempio l’emanazione del Regio decreto 3 febbraio 1901, n. 45 relativo al “Regolamento sanitario nazionale” con il quale, oltre ad indicare principi innovativi circa “la tutela dell’igiene e della sanità pubblica”, veniva dato avvio ad una più appropriata organizzazione degli uffici sanitari, alla costituzione del Consiglio superiore di sanità, alla creazione dei Consigli provinciali di sanità, alla nomina dei medici provinciali e circondariali e dell’ufficiale sanitario comunale, e cosi via. Da notare che nell’ambito di tale Regolamento generale sanitario venne anche legiferato, come indicazione dell’affacciarsi di un nuovo problema sanitario connesso tra attività produttiva e ambiente di vita, il modo di affrontare la salute del cittadino in presenza di insediamenti manufatturieri in prossimità dei centri abitati. Inoltre, si sviluppò anche una importante legislazione in materia di prevenzione contro le malattie infettive, come la legge 2 novembre 1901, n. 460 portante, appunto, “disposizioni per diminuire le cause della malaria”, cui seguì la legge 21 luglio 1902, n. 427 “sulla prevenzione e cura della pellagra” e, quindi, il Regolamento per la profilassi delle cosiddette malattie celtiche, mediante l’emanazione del Regio decreto 27 luglio 1905, n.487 che “approva il regolamento per la profilassi delle malattie celtiche che comprendevano la blenorragia, l’ulcera semplice contagiosa e l’infezione sifilitica.

Di particolare interesse, è poi da ritenersi la promulgazione della Legge 29 giugno 1902, n. 246 con la quale fu istituito presso il Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, l’Ufficio del Lavoro e il Consiglio superiore del lavoro, organismi che avevano fra l’altro compiti riguardanti l’ordinamento e la remunerazione del lavoro, il numero, le cause, le conseguenze degli infortuni degli operai, gli effetti delle leggi che più specialmente interessano il lavoro o, nel caso del Consiglio superiore del lavoro, che era chiamato ad esaminare le questioni concernenti i rapporti fra padroni ed operai, a suggerire i provvedimenti da adottarsi per il miglioramento delle condizioni degli operai e ad esprimersi in merito ai disegni di legge attinenti alla legislazione del lavoro.

Anche dalla emanazione di questa legge è facile intuire che anche per quanto riguardava la legislazione sul lavoro qualcosa stava cambiando, riconoscendo che le lotte per migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice, organizzata dalle nascenti camere del lavoro, determinarono nei governanti di inizio secolo una maggiore sensibilità verso le problematiche sociali.

Con lo svilupparsi della rete ferroviaria italiana si creò contemporaneamente un fronte sindacale, quello dei ferrovieri, appunto, molto agguerrito e determinato non solo a portare avanti una politica di rivendicazioni salariali, ma anche a lottare per una maggiore tutela antinfortunistica , tanto che con il Regio Decreto 7 maggio 1903, n.209 fu emanato un importante “Regolamento per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nell’esercizio ferroviario” cui fece seguito, dopo l’avvenuta nazionalizzazione delle ferrovie del 1905, la legge 30 giugno 1906, n. 272 riguardante le “Disposizioni speciali sulla costruzione e sull’esercizio delle strade ferrate” con la quale, fra l’altro, furono affrontati alcuni specifici temi della sicurezza sia per quanto riguardava il lavoro nei cantieri, sia le condizioni tecniche delle linee, del materiale rotabile e del personale.

Da un punto di vista politico, rimaneva però sempre precario il problema di far convivere il sistema pubblico con quello privato delle assicurazioni, ovvero come stabilire la convivenza delle due tipologie dell’assicurazione privata e dell’assicurazione sociale. Questo rapporto e questa convivenza furono riflessi nella legge 29 giugno 1903, n. 243 che affermò un dato restrittivo per la concorrenza degli enti assicurativi privati: mentre infatti si prescrisse che per i lavori condotti direttamente dallo Stato o dagli altri Enti territoriali fosse obbligatoria l’assicurazione presso la Cassa Nazionale – eccetto quando le imprese esercenti detti lavori avessero costituite casse private di assicurazione o si fossero consociate ai sindacati mutui –s’impose, per converso, alla Cassa nazionale l’obbligo di accettare qualsiasi proposta di assicurazione e quindi anche per rischi gravi, di sicura perdita e perciò scartati dalle compagnie private e dagli altri enti assicurativi.

La legge n.243 del 1903, modificando la legge n. 80 del 1898 per gli infortuni degli operai sul lavoro, introducendo l’obbligo dell’assicurazione degli operai a più ampie categorie da sottoporre alla tutela degli infortuni, fu fondamentale, non solo perché confermava il carattere peculiare  della Cassa Nazionale come organo statale dell’assicurazione infortuni, ma anche perché con l’emanazione della stessa aveva inizio quella sostanziale fase di revisione che in poco tempo avrebbe portato alla emanazione di un Testo unico in materia.

Il 31 gennaio 1904, su proposta dell’allora ministro Rava del Governo Giolitti venne approvato il regio decreto n. 51 riguardante il “Testo unico di legge per gli infortuni degli operai sul lavoro” con l’estensione dell’obbligo dell’assicurazione ad un più vasto campo d’industrie e d’ imprese. Infatti, il Testo unico del 1904, oltre che riordinare e raccogliere in un solo provvedimento le disposizioni concernenti l’assicurazione infortuni, apportò alcune modifiche sia per quanto riguardava le lavorazioni tutelate che le prestazioni. Ad esempio, nell’esercizio delle miniere, cave e torbiere fu compresa, oltre a lo scavo e l’estrazione del minerale, “ anche la sua lavorazione sul luogo e il trasporto al primo punto di caricamento fuori della miniera “, mentre per le imprese di costruzioni e demolizioni edilizie furono incluse anche quelle che “compiono –si legge – lavori di costruzione, restauro, rifinitura, modificazione e demolizione di edifici, sia in città che in campagna”. Con il  Regio Decreto del 13 marzo 1904, n. 141 che approvava il regolamento per l’esecuzione del Testo unico consentiva con i suoi 154 articoli di interpretare più correttamente il carattere innovativo della nuova normativa sugli infortuni degli operai sul lavoro.

Naturalmente, il miglioramento della legislazione sugli infortuni degli operai sul lavoro si deve in particolare modo a quelle lotte rivendicative del movimento operaio  che, con il ricorso allo sciopero, caratterizzarono il periodo 1902-1904, contribuendo a dare alle Camere del lavoro una fisionomia classista e che porterà i propri iscritti a superare numericamente gli aderenti alle Federazioni dei mestieri. Fra l’altro, alle Camere del Lavoro aderiranno anche le Leghe dei contadini che, specialmente nell’Italia centrale e meridionale, erano assai forti. Nel complesso gli iscritti in quell’epoca alle Camere del lavoro e quelli iscritti alle Federazioni dei mestieri risultavano rispettivamente di 485.563 e di 219.408. Nella storia del movimento operaio, la data del 16 settembre 1904 fu considerata come quella in cui fu proclamato il primo, grandioso sciopero generale dei lavoratori italiani. E’ comunque certo che quello sciopero costituì una tappa decisiva per il giovane movimento operaio che, acquisendo la consapevolezza che la soluzione dei suoi molti problemi e il superamento delle divisioni interne ai riformisti, avrebbe portato ad una linea di lotta strategicamente più realistica, anche perché più unitaria. Infatti il 29 settembre 1906 fu fondata la Confederazione generale italiana del lavoro alla quale nel 1910 si contrappose la Confederazione Italiana dell’Industria per fronteggiare – come si leggeva nel proprio atto costitutivo – “ l’organizzazione sindacale dei lavoratori e realizzando così una maggiore aggressività sul piano dei conflitti di lavoro”.

Nel secondo periodo dell’età giolittiana, che precedette la prima guerra mondiale, la contrapposizione di interessi fra padronato e lavoratori si fece sempre più dura. Ne furono esempio, anche se con esiti molte volte fallimentari, la proclamazione di durissimi scioperi, come quello dell’Elba e di Piombino nel 1911, dell’auto a Torino nel 1912 e del materiale ferroviario a Milano nel 1913.

Di fronte, ormai, al declinante giolittismo, la classe imprenditoriale seppe resistere a queste dure lotte sociali, riuscendo ad esprimere con il Ministero Saracco, succeduto a Giolitti nel 1913, una impronta sempre più conservatrice e prestandosi alle velleità del nascente nazionalismo di coloro che poi saranno tra i fautori dell’interventismo nella guerra mondiale prima e dell’avvento della dittatura fascista dopo.

Va comunque sottolineato che anche nel secondo periodo dell’età giolittiana non mancarono importanti interventi legislativi nel campo dei diritti civili e sociali, come la concessione del suffragio universale anche agli analfabeti che avessero compiuto trent’anni e assolto gli obblighi militari, la legge 489 regolante il riposo settimanale e festivo, il testo unico del 1 novembre 1907 sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, la istituzione della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai del 1907, la legge 17 luglio 1910, n. 520 istitutiva della Cassa di maternità, la legge 1306 del 23 novembre 1911 sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro nell’esercizio delle tranvie, la istituzione del Corpo ispettori dell’industria e del lavoro avvenuta con legge 22 dicembre 1912, n. 1361. Con quest’ultima legge si entrava in quell’ottica legislativa diretta a tutelare sempre più il lavoratore, come contraente più debole nel rapporto di lavoro, anche in deroga alle disposizioni del Codice Civile. Non dobbiamo dimenticare che la disattenzione del legislatore verso il lavoro subordinato trovava giustificazione con l’ideologia allora dominante , ma lasciatemelo dire oggi resuscitante, secondo cui il mercato doveva essere lasciato libero di fissare le condizioni di lavoro.

Nel 1913, con l’approvazione delle “Norme per assicurare il buon governo igienico nei cantieri delle grandi opere pubbliche” di cui al Regio Decreto 25 luglio 1913, n.998 rispecchiava, come per la precedente legge , la volontà della classe politica al Governo, particolarmente dove la presenza dello Stato era fortemente presente, di proseguire sulla strada della tutela del lavoratore, in questo caso affrontando il tema della salute del lavoratore nei luoghi di lavoro.

E, intanto, colui che era stato considerato il grande manovratore della politica italiana durante il primo decennio del secolo, era ormai giunto al traguardo. L’ età giolittiana era da considerarsi, ormai definitivamente tramontata il 30 marzo 1914, allorché Giovanni Giolitti dette le dimissioni da capo del governo lasciando le redini ad Antonio Salandra , cioè a colui che si renderà responsabile di una forte repressione operaia, dopo gli avvenimenti della cosiddetta “Settimana rossa”. Certo è che con la caduta di Giolitti si aprirono per il Paese oscuri e tragici orizzonti come l’entrata in guerra del maggio 1915.

Durante il conflitto, il Parlamento svolse un’attività molto ridotta, anche perché ad esso fu sottratto qualsiasi potere di controllo. Lo Stato ,infatti, divenne sempre più autoritario, in cui le ragioni dell’esecutivo prevalevano sistematicamente su quelle del potere legislativo.

Nonostante ciò dobbiamo registrare che in una circostanza il governo di coalizione e di unione nazionale presieduto dall’onorevole Boselli – il quale, dopo la disfatta di Caporetto , succedette al governo Salandra –ebbe modo di varare un provvedimento legislativo importante, che ebbe una sua valenza politico – sociale in quanto tendente a tacitare i malumori di coloro che maggiormente stavano subendo le conseguenze della guerra, cioè il mondo contadino.

Infatti il 23 agosto 1917 fu emanato il Decreto Luogotenenziale n. 1450, concernente provvedimenti per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro in agricoltura, provvedimento con il quale venivano assicurati dall’età di nove anni ai settantacinque compiuti i lavoratori fissi e avventizi, maschi e femmine, addetti ad aziende agricole e forestali, oltre ai proprietari, mezzadri, affittuari, loro mogli e figli, anche naturali che “prestano –diceva il decreto –opera manuale abituale nelle rispettive aziende”. Da sottolineare che tale decreto entrò in vigore soltanto in data 1 gennaio 1919 e che con regio decreto 2 ottobre 1921, n. 1367 fu modificato in senso peggiorativo per i beneficiari.

A conclusione di questa breve panoramica legislativa, prima dell’avvento della dittatura fascista sono da ricordare l’emanazione del R.D.L. 3 giugno 1920, n. 700 che istituì il Ministero del lavoro e della previdenza sociale che però ebbe vita breve in quanto il regime fascista nel 1923 lo soppresse, passando le sue competenze al Ministero dell’Economia Nazionale e, nel 1926, al Ministero delle corporazioni.

Voglio ricordare, infine, che nel 1920 fu introdotto nell’ordinamento legislativo italiano il primo concetto di rischio chimico, anche se emanato in esecuzione della Convenzione internazionale di Berna del 26 settembre 1906, ovvero l’emanazione del Regio Decreto luogotenenziale 23 dicembre 1920, n. 1881 sul “divieto di impiegare il fosforo bianco ( o giallo) nella fabbricazione dei fiammiferi, ma anche di importare i fiammiferi di ogni specie nella fabbricazione dei quali sia stato impiegato, in qualsiasi proporzione il fosforo bianco (giallo). Infatti, tale sostanza risultava, sin dai primi anni del 1800, estremamente velenosa.

Pochi mesi prima che il fascismo prendesse il potere iniziando la fascistizzazione dello Stato con le tragiche conseguenze che la storia si è assunta il compito di registrare per la memoria dei posteri, il vecchio Parlamento fece in tempo ad istituire il Casellario centrale infortuni, emanando il R.D 22 marzo 1922, n. 387.

Anche se non compiutamente, ho cercato di ricordarvi una piccola parte di un piccolo aspetto di ciò che fa parte della storia di ieri delle malattie dei lavoratori: ai compagni ed amici che mi seguiranno il compito di parlarvi del “mal da lavoro” dell’oggi e del domani. Grazie.

 


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