Splendori
e miserie di una Biennale à la page (Arsenale e mostre a latere) Ada Venié |
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Pietro
Valle e Ada Venié hanno visitato la 50. Esposizione Internazionale
d'Arte della Biennale di Venezia, diretta da Francesco Bonami e intitolata
Sogni e Conflitti - La dittatura dello spettatore. Considerazioni
e commenti sulla mostra aperta fino al prossimo 2 novembre. |
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A
ben vedere, le prime avvisaglie della generale assenza di coordinamento
di questa 50. Biennale le avremmo già dovute notare nell'incongruità
del titolo: "Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore", con
i suoi due enunciati disgiunti da logica e senso, impossibilitati a
produrre una qualsivoglia immagine compiuta. Salvo ricorrere ad artificiosi
link subliminali, questo titolo rimane un enigma, come del resto lo
sono gran parte dei temi proposti dal team di curatori con i quali Francesco
Bonami, ha condiviso il progetto di questa Biennale. Un comitato senza
gerarchie al suo interno che, sempre a detta del direttore, ha lavorato
in piena autonomia e si è diviso pariteticamente gli incarichi, forse
con eccessiva autonomia diciamo noi, dato che si è arrivati all'inaugurazione
senza che nessuno sapesse quale sarebbe stato il risultato finale, quale
l'orizzonte teorico o il taglio critico del progetto. Ma non vorrei
neppure esagerare con il povero direttore, che in fondo ha solo peccato
di viltà o di troppa furbizia, avendo preferito optare per una delega
in favore di 10 co-curatori, così da dividere con loro responsabilità,
critiche e al contempo dare prova di senso democratico e attitudine
internazionale. |
[11oct2003] | |||
Atelier Bow-wow (Yoshiharu Tsukamoto, Momoyo Kajima, Mikiko Terauichi) Furnicycle, 2002. Tricycle, bicycle, steel size in centimetres. Courtesy Shanghai Biennale, 2002, 50th Biennale di Venezia. Bonami, con apparente buona fede, ha affermato che all'origine della sua scelta c'è stata la volontà di reagire all'oscura tradizione dei curatori-guru, dispotici protagonisti di tante biennali, che a sua detta hanno fatto il loro tempo, messi al bando da una 'complessità' che non lascia più spazio ad interpretazioni unilaterali, perché fortemente dibattuta nella polarità dei due termini 'globalizzazione' e 'sistema dell'arte' che segnalano il carattere contraddittorio ed instabile della produzione contemporanea. Fin qui tutto bene, salvo poi scoprire, assieme al pubblico della vernice, che questo mix di 'deregulation' e 'Venice flavour' non sarebbe bastato a garantire l'assetto di una manifestazione che tutti abbiamo avvertita come confusa e priva di logica d'insieme. Troppe le sezioni tematiche (10), e molto sotto tono gli allestimenti, mai visti così inefficaci rispetto al fascino intrinseco dell'Arsenale, oppure banalmente spesi nel semplice contrasto antico-contemporaneo che si sa, non sempre garantisce la giusta 'reazione' delle opere. Ana Opalic, from the Self-Portraits series, Dance, Summer, 2002. Croatian pavilion, 50th Biennale di Venezia. Fra "Ritardi", "Smottamenti", "Clandestini" e "Strutture della Crisi" (questi alcuni dei temi) si perde la visione d'insieme e con essa la percezione di una possibile bellezza delle singole opere, condannate come sono ad un'ossessione tematica di cui lo spettatore dovrebbe sempre ritrovare i fili, anche quando non ci sono o la loro duttilità è tale da renderli interscambiabili. Obbligatoriamente ci vengono in mente le edizione precedenti di Harald Szeemann, Germano Celant, Bonito Oliva che, con i rispettivi tagli curatoriali, hanno saputo garantire standard elevati ed una presenza di lavori importanti che al confronto fanno impallidire le scelte zoppicanti di questa nuova generazioni di critici. Eppure bastava concentrarsi sullo specifico storico della Biennale veneziana, evitando di pensarla come una nuova Documenta Kassel, barattando le peculiarità della sua tradizione con un aggiornamento sociologico per altro già affrontato nell'ultima edizione della manifestazione tedesca. Alla Biennale, invece, si protrae da sempre con compiaciuto anacronismo l'idea delle rappresentanze nazionali (padiglioni), ed il ruolo del curatore è quello di trovare i motivi per una mostra internazionale di cui si accetta il taglio critico e la parzialità delle scelte perché in qualche modo garantiti dalla sua personalità e dal suo orizzonte culturale. La documentazione up to date pertanto non è una prerogativa della Biennale (per questo ci sono già tutte le tante biennali proliferate nel mondo), così come i progetti roboanti e l'originalità a tutti i costi. A Venezia al contrario si è sempre cercato di garantire standard qualitativi alti, evitando di ingaggiare sfide per vastità o numero dei visitatori, non fosse altro per la fragilità del suo tessuto urbano ed architettonico. Insomma, piaccia o no, alla Biennale ci si deve far carico di una tradizione storica che reclama un giusto equilibrio fra la sua vocazione internazionale e lo spirito localistico della sua assoluta 'venezianità'. |
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Alfredo Juan e Isabel Aquilizan, Project M201 In God We Trust, 2003. Courtesy Philippine National Commission for Culture and the Arts (photo by R.J. Fernandez), 50th Biennale di Venezia. Seppur episodiche, tuttavia non mancano le sorprese positive in questo criticatissimo Arsenale, ed una di queste è 'Zona d'Urgenza', progetto originale, di cui si comprende la caoticità entropica e multi-level, perché non mascherata da installazione multimediale ma mostrata nel suo sordido andamento di architettura coatta e luogo di forti tensioni sociali. Qui il curatore cinese Hou Hanru, ha radunato una serie di artisti (ma anche architetti, scrittori, hackers, videomakers) di area pacifico-asiatica per inscenare un multiforme site specific che pulsa della bruciante attualità di molte periferie del mondo. Le 'Zone d'urgenza' sono tutti quei non-luoghi solitamente ai margini delle periferie urbane o in occulte zone dei distretti più centrali, costituiti da architetture temporanee, strutture fatiscenti destinate alla sopravvivenza e all'organizzazione spontanea di piccole comunità in transito. In questi non-luoghi di artificiosa bruttezza viene rimossa ogni nozione di estetica architettonica in virtù di uno status di precarietà che contiene il nuovo kitsch contemporaneo. Fernando Ortega. Courtesy Kurimanzutto, 50th Biennale di Venezia. Un'altra sezione interessante è rappresentata da 'Il quotidiano alterato' curata dall'artista messicano Gabriel Orozco, la cui fantasia si è scatenata in un gioco che ha richiesto ai sei artisti invitati di utilizzare esclusivamente materiali di riciclo, per scandagliare tutti le possibilità espositive non convenzionali, vale a dire opere che non ricorressero a: piedistallo, parete, supporti tecnologici, video e fotografia. Dall'ombrello di piume di Abraham Cruzvillegas all'auto sospesa e 'magicamente rivelata' in ogni sua singola componente (Damian Ortega), le opere selezionate da Orozco sono tutti campioni di un 'pauperismo surrealista', che trasforma oggetti riciclati in sculture epifaniche, talvolta anche molto eleganti nella loro natura di scarto ready-made. Quello di Orozco è un allestimento sapiente, che dimostra quanto sia importante un atteggiamento rispettoso dell'atmosfera di un luogo, dei suoi equilibri spaziali e di tutte le regole che determinano la fruizione e la lettura delle opere. |
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Kabakov. Fondazione Querini Stampalia, Venezia 2003. |
Procedendo
con le segnalazioni al positivo di questa controversa biennale, consigliamo
la visita ad alcune mostre 'off', ovvero a quelle numerose esposizioni
a latere, che popolano palazzi e luoghi veneziani minori, come
è il caso di 'Suspect', ospitata al palazzetto Tito, che raduna opere
recenti della pittrice afro/olandese Marlene Dumas. Lungo le sale mestamente
vuote di questa dimora aristocratica, si snodano piccoli ritratti femminili,
corpi nudi osservati nella loro intimità morbosa, forse compiaciuta
dal 'sospetto' di un possibile sguardo indagatore. Jannis Kounellis
invece ha scelto di ambientare il proprio lavoro all'atmosfera del convento
dei frati armeni nell'isola di San Lazzaro, riproponendo i suoi più
classici stilemi con una progressione che sembra seguire un processo
di purificazione spirituale ed adeguarsi perfettamente al silenzio mistico
di quel luogo. Dalla presenza antropologica di bicchieri sospesi a grappoli
nel chiostro, si continua con l'archivio-vestibolo costituito da pesanti
scaffalature di ghisa, fino alle stanze più segrete, dove l'immagine
del 'divino' viene evocata da Kounellis attraverso la presenza di uno
scarabeo, simbolo di resurrezione eterna, delicatamente esposto sopra
un batuffolo di cotone immacolato, a sua volta su una imperioso piedistallo
metallico. Alla Fondazione Querini Stampalia troviamo un intervento al solito intelligente e scenografico dei coniugi Ilya ed Emilia Kabakov, che occupano un intero piano del museo di Scarpa, con una lettura molto ironica sul significato e l'origine dell'esperienza visiva di tipo museale. Con un complesso gioco di scale percettive, tra presenze gigantesche in abiti ottocenteschi, sfondamenti delle sale, ed un richiamo al nostro ruolo attivo/passivo di fruitori dell'arte, i Kabakov sembrano alludere a quell'UR Spectator che di fronte all'enormità delle sale museali deve sempre trovare una 'misura estetica' per evitare di essere sopraffatto dal gigantismo degli spazi e dall'incommensurabile bellezza delle opere. Continuando con le segnalazioni delle mostre a latere, ricordo anche il lavoro fotografico degli artisti croati Ana Opalic e Boris Cvjetanovic, presenti a palazzo Fortuny (piano terra). La prima, ci mostra la dolce ambiguità del suo corpo, fotografato nel flusso mutante di identità maschili e femminili. Un'indagine che mette in relazione l'ambiente selvatico di boschi e scogliere con il corpo stesso della fotografa, ritratto nella sua indifferenza di 'genere', quasi a stabilire un rapporto di armonia cosmica, in cui la Natura, unico elemento gerarchico, sta al paesaggio come il gender sta alla nozione di essere. Boris Cvjetanovic invece, con la sua galleria di immagini superbamente stampate in bianco-nero, compie una curiosa operazione meta-storica, ritrovando una radice comune a metà '800 fra la comparsa del mezzo fotografico e le prime strutture di controllo sociale, intese come scuole, fabbriche, ospedali e prigioni. Una lettura, del progetto borghese che Cvjetanovic ritrova anche nella fotografia contemporanea, strumento 'indifferente' che archivia, accoglie ed involontariamente 'inquadra' parimenti alle altre strutture-simbolo del controllo sociale. |
Marlene Dumas, Palazzo Tito, Venezia 2003. |
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Pedro Cabrita Reis, Longer journeys, 2003. 50th Biennale di Venezia, Antichi granai, Giudecca. |
Un altro piacevole incontro ci è offerto dal portoghese Pedro Cabrita Reis (già presente ai giardini con un'altra opera-padiglione) che agli antichi granai della Giudecca mostra una scultura piuttosto imponente, che può ricordare Sol LeWitt ma con un diverso equilibrio tra rigore geometrico ed elemento antropologico. La sua scultura infatti oscilla fra la componente progettuale di struttura primaria, ed un contenuto antropologico che la avvicina alla qualità di relitto sociale, scheletro consunto di architetture ultra-popolari. Anche il padiglione dell'America latina ospitato nel Convento dei SS. Cosma e Damiano (Giudecca) contiene dei lavori interessanti, mentre ci è parso un po' immeritato il premio dato alla lussemburghese Su-Mei Tse (miglior padiglione nazionale) che affronta il tema del sublime e della memoria infranta, forse in maniera eccessivamente didascalica e ribadita nell'allestimento delle cinque sale. Ci è parsa degna di nota, infine, (con qualche distinguo qualitativo) anche la mostra 'Absolut Generations' a Palazzo Zenobio, dove si assiste al confronto fra due generazioni di artisti senza la retorica dell'omaggio ai maestri o l'ancora più facile dissacrazione della loro lezione. Si tratta piuttosto di un dialogo sottile fra coppie di artisti, che lascia emergere tutta una rete di referenze e di gergalità scambiate in profondità o trovate casualmente per insperata affinità. L'arte rimane, i curatori passano. Ada Venié adavenie@hotmail.com |
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