Attivare
il cielo Pietro Valle |
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L'uomo
che non ha alcuna opinione circa un evento nel momento in cui accade,
accetta l'opinione della maggioranza, o, se è di natura litigiosa,
della minoranza. Ma bisogna ricordare che sia la maggioranza che la
minoranza sono costituite da persone reali, e questo è il motivo
per cui l'individuo aderendovi viene assistito. Un pubblico, al contrario,
è un'astrazione... Un pubblico non è né una nazione,
né una generazione, né una comunità, né
questi uomini particolari, perché tutti costoro sono quello che
sono attraverso la concretezza; nessun singolo che appartiene al pubblico
riconosce alcuna vera responsabilità; egli appartiene al pubblico
forse solo per alcune ore al giorno nei momenti in cui non è
null'altro, giacché quand'egli è realmente ciò
che è allora non forma parte del pubblico. Costituito di individui
di questo tipo, di individui che si trovano nel momento in cui non sono
nulla, un pubblico è una specie di gigantesco qualcosa, un vuoto
astratto, e un deserto che è tutto e nulla. Soren Kierkegaard, Pensieri sulla nostra epoca |
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Avete
mai visto un gruppo di ragazzini che giocano con i telefonini? Sono
insieme nello stesso luogo ma integrano il contatto fisico con
la comunicazione virtuale: si lanciano SMS, fanno fotografie e se le
inviano, wappano, giocano con le suonerie, ascoltano le notizie e formano
gruppi temporanei di appartenenza o esclusione. In una situazione simile,
dove finisce lo spazio fisico e dove inizia quello immateriale? Cosa
vogliono dire contatto e distanza? Cosa vuol dire "da solo"
e "insieme"? Impossibile dare una risposta univoca a queste
domande. Ci troviamo di fronte a una spontanea presa di possesso della
tecnologia per dare un valore aggiunto alla comunicazione interpersonale.
Lo spazio pubblico e quello privato si sovrappongono, la distanza delle
onde elettromagnetiche si accavalla a un sorriso in diretta. Non è
alienazione tecnocratica come alcuni credono ma un nuovo modo di usare
gli apparati personal per superare la passività del ruolo
di pubblico (come lo intendeva Kierkegaard e tutti gli spettatori della
rivoluzione industriale) e diventare attori in un campo esteso di possibilità
comunicative. L'opposizione individuo-comunità non ha più
senso in situazioni del genere: non c'è un'identità da
difendere contro l'anonimato, quello è un mito della modernità
passata. Oggi l'individuo mutante è un segnale in una rete dalle
gerarchie temporanee. |
[18sep2004] | |||
Sky Ear di Usman Haque ha svariate qualità: è leggero, colorato, atmosferico, giocoso. Le caratteristiche estetico-visive di questo evento non eguagliano, tuttavia, la portata del suo discorso sullo spazio pubblico. È qui che Haque opera un vero e proprio contributo politico: non solo rende visibile quel misterioso spazio elettromagnetico che tanto ruolo ha nella comunicazione quotidiana, non solo si inventa una cartina di tornasole virtuale che trasforma un segnale immateriale in un colore, non solo gioca sulla casuale sovrapposizione dei segnali per creare impreviste perturbazioni virtuali ma, soprattutto, dà alle persone uno strumento per implementare quella sovrapposizione di lontano e vicino che fa interagire singolo e gruppo. |
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La parola, scritta o parlata, diventa segnale, il segnale diventa colore, il colore diventa cielo-ambiente, l'ambiente riflette il gruppo ma segna anche i contributi dei singoli, tutti controllano la nuvola ma nessuno può dire cosa diventerà. Un'inedita democrazia della partecipazione si viene a creare: la scelta consapevole di contribuire all'evento (siamo tutti qui con i telefonini rivolti al cielo) si sposa con la casualità degli esiti di questo sforzo collettivo in contemporanea. Siamo guidati a compiere una serie di identiche procedure (trovarsi nel luogo, operare gli apparecchi) ma ognuno di noi è un segnale diverso e la sovrapposizione delle nostre voci non è anticipabile. Questa è una straordinaria allegoria dello spazio urbano e della comunità che lo abita, è una città di architetture ognuna con i suoi intenti ma la cui sommatoria cresce senza piano e con esiti imprevedibili nel tempo. La città si è trasferita nella rete di segnali che solcano l'aria e, tornata immateriale, ridà all'ambiente il colore che gli ha tolto. Così l'orizzonte è specchio proiettivo di questa nuova ricchezza, di un qualcosa che non appropria ma sovrappone e poi se ne va, leggero come l'aria. Forse è questa l'architettura del pensiero: non la traduzione di teorie in linguaggi formali, ma la sospensione di qualsiasi forma per dare al pubblico uno strumento che fa attivare il cielo. Chi è capace di fare questo? L'anonimo "pubblico"? Una singola individualità che si distingue dal gruppo? No, semplicemente noi con i nostri limiti, esitazioni e improvvisi slanci. Pietro Valle pietrovalle@hotmail.com |
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Le immagini pubblicate in questa pagina sono di Shade Abdul. |
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