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Omissione di assenza, il Denkmal für die Ermodeten Juden Europas di Peter Eisenman

Pietro Valle



È difficile parlare dell'assenza mantenendone la costante tensione, l'apertura verso qualcosa che non c'è e non arriverà mai. Si rischia solitamente di evocarla come una presenza negata e di usare la lontananza (o la perdita) come enfasi retorica per definire una nostalgia. Quando invece "...La distanza non è abolita, non è nemmeno accentuata; al contrario, è mantenuta, preservata nella sua purezza dal rigore di un discorso che sostiene l'assolutezza della differenza..." troviamo una relazione con l'alterità aperta, irriducibile a qualsiasi affermazione o risultato definitivo. (1) L'operatività di questa relazione con l'assenza sta nell'usare quest'ultima come costante orizzonte che sfugge per eludere le strutture gerarchiche di un pensiero dominante che cerca di racchiudere tutto in un'affermazione conclusiva.

Questi e altri pensieri sulla memoria come differenza, sulla difficoltà di fissare un ricordo collettivo, sull'infinito disquisire come prerogativa del pensiero ebraico, si susseguivano ininterrotti mentre raggiungevo lo slargo tra la Porta di Brandeburgo e Potsdamer Platz dove giace il Denkmal für die ermodeten Juden Europas progettato da Peter Eisenman (inizialmente insieme a Richard Serra). Il sito non è dei più significativi (nulla accadde qui degli eventi legati all'Olocausto pur essendo nel cuore di Berlino) e appare ancora come uno dei non-luoghi che resistono all'avanzata della "ricostruzione critica" della città, siti che si vorrebbe caratterizzare con modelli urbani ottocenteschi a höfe che non appartengono al presente o che spesso non sono mai esistiti nei luoghi ove si interviene. La disperata ricerca di un'identità post-unificatoria di questa città ha prodotto un'impressionante serie di forzate ricuciture che cercano di cancellare la sua identità di luogo di conflitti. Meglio allora i cantieri, le rovine, le cesure che segnano ancora le parti che hanno diviso la città e che ci ricordano che il giorno che sarà riempito l'ultimo spazio libero, forse Berlino non sarà più se stessa.



Eisenman ha capito che il vuoto qui è la differenza e ha lasciato il suo reticolo di steli di cemento volutamente basso sull'orizzonte in modo da fare intravedere la skyline urbana e scomparire nella pavimentazione che sta ai margini dell'area. 2711 steli di cemento di uguale base e di altezze diverse costituiscono il campo aperto del memoriale attraversabile da stretti percorsi pedonali che affondano nel terreno facendo perdere l'orizzonte e attanagliando coloro che si trovano all'interno in momenti di labirintico smarrimento. Il reticolo è un ritorno ai primi amori di Eisenman, alla grid, a quel linguaggio autonomo e astratto su cui giocare la propria partita nei confronti dell'architettura e della tradizione del nuovo. Qui esso è posto a servizio di un'esperienza solitaria per i visitatori e assume in più il significato di memento antiretorico.

Non c'è pathos, non c'è spiegazione (o meglio, c'è ma non nelle steli), non c'è simbolo, ogni possibile rappresentazione dell'Olocausto è accuratamente evitata. Tutto è lasciato all'esperienza dell'attraversare e all'opaco silenzio della ur-geometrie a cui Jurgen Habermas, in un articolo sullo Zeit, ha attribuito "il pathos non invadente del negativo". Le steli nulla spiegano e questo assume accenti inquietanti in quanto, oltre all'incertezza della loro significazione, esse possono essere appropriate dal pubblico con finalità altre. In certi momenti, ad esempio, sono usate come un gigantesco playground: ho visto bambini saltellare sulle steli più basse ai bordi del memoriale e coppiette giocare a nascondino tra le file parallele. Che sia questo il modo più appropriato per evocare l'innominabile dell'Olocausto? Forse non è l'unico ma sicuramente, con la sua ritrosia e labilità semantica, è più onesto di tanti esempi di retorica associati all'evento dall'architettura recente. Basti vedere l'Holocaust Memorial a Washington di James Inigo Freed con la sua mappa interattiva dei siti ebraici dell'Europa stampata su una parete vetrata o il Judisches Museum di Libeskind, con le sue forzate analogie formali, e si capisce come Eisenman qui rifiuti la possibilità di un architecture parlante fondata su un linguaggio condiviso. Per lui questo non è più possibile perché l'Olocausto non è solo un evento storico ma un radicale cambiamento epistemologico.



"Dopo Auschwitz non è più possibile scrivere poesie", diceva Adorno e la ricerca di un linguaggio critico appropriato passa attraverso quel dilemma affrontato da Kafka e reiterato da Hannah Arendt sulla scrittura dopo la Shoah: l'impossibilità di non scrivere, l'impossibilità di scrivere in tedesco, l'impossibilità di scrivere diversamente. Anche Eisenman affronta queste tre negazioni per riuscire a costruire: non edificare non sarebbe stato accettabile, edificare secondo i linguaggi dei monumenti convenzionali sarebbe stato un tradimento e edificare completamente al di fuori della tradizione costruttiva impossibile. Così egli assume un linguaggio a metà strada tra l'arcaico e l'astratto e, con i suoi volumi primari, costruisce comunque cercando di negare qualsiasi affezione al suo memoriale. Nessun elemento del Denkmal offre un messaggio esplicito e, tuttavia, questo approccio spaziale ha dei precedenti precisi.

Silenzio, assenza, astrazione, scelta del visitatore, interazione col sito, ricerca dell'orientamento. Non sono forse queste le caratteristiche di quell'arte minimal e environmental che si è diffusa a New York proprio negli anni di formazione di Eisenman? E inoltre, che ruolo può avere essa avuto nel caricare di significati proprio quel linguaggio astratto della grid che il Modernismo aveva voluto preservare in un'assoluta idealità? La risposta sta a poche centinaia di metri dal Memoriale in quell'Hamburger Banhof (sezione staccata della Nationalgalerie) restaurata da Josef Paul Kleihues che ospita oggi la Collezione Flick, una delle più grandi al mondo di opere di quel periodo. È ironico che l'esposizione di questa collezione sia stata accompagnata in Germania da un mare di polemiche in quanto Flick è erede di una famiglia di industriali dell'acciaio che durante gli anni Trenta sostenne Hitler e passò indenne alla denazificazione degli anni '50 e '60. L'eco della cancellazione della memoria collettiva che ha accompagnato quegli anni, non è ancora sopito in Germania e diversi intellettuali si sono scagliati contro il governo (socialdemocratico di Schroeder) per avere sostenuto Flick in un museo pubblico. Paradossale è che quasi tutti gli artisti collezionati da Flick e rappresentativi dei suddetti movimenti americani degli anni '60 sono ebrei.



Attraversando l'Hamburger Banhof si dispiega una straordinaria sequenza di opere che usano il linguaggio geometrico primario della grid e che illustrano quasi didatticamente l'origine del memoriale di Eisenman evidenziando affinità e differenze con i propri assunti. Ci troviamo quindi nella curiosa situazione (non precisamente politically correct) di essere riconoscenti a un industriale accusato di compromessi col Nazismo per averci illuminato su alcuni dei più alti momenti del pensiero ebreo contemporaneo. Possiamo confrontare tali assunti teorici con l'opera di un architetto anch'egli ebreo il quale ha tentato di rendere pubblico quel pensiero accettando mediazioni con un governo insicuro e conservatore che diceva di agire in nome della democrazia (quello di Köhl che ha commissionato il memoriale). Tutti questi elementi: pensiero democratico e pensiero conservatore, insicurezza politica e opportunismo commerciale, incertezza sull'identità della Germania e nomadismo del pensiero ebraico si dispiegano nel percorso della collezione e nella visita al memoriale che diventano così reciproche cartine di tornasole delle contraddizioni politiche che attraversano Berlino oggi. Noi procediamo tra le sale per tornare poi di nuovo al Denkmal, sicuri che l'unico modo per uscirne è affrontarne il percorso.

Nella prima sala un gigantesco reticolo pavimentale di Carl Andre di moduli quadrati metallici dà un primo esempio di quell'estetica della scomparsa inventata a New York negli anni '60. La grid è antipresenza, antidirezionalità, assunzione del potere del tempo nella patina creata da chi ci cammina sopra, e soprattutto antidiscorsività. Andre fa una pulizia radicale di qualsiasi assunto idealista attribuito dal modernismo al linguaggio geometrico astratto e lascia una base neutra che nega qualsiasi verticalità (l'umano, il monumento), che si fa calpestare, che solleva solo una minima sensazione pedonale al passaggio di altre storie su di essa. La prima premessa per capire l'esperienza del Denkmal è questa ritirata del significante grid da qualsiasi assunto d'ordine o di controllo, il suo lasciare la percezione della propria presenza alla possibile esperienza del visitatore. E questo va già ben oltre il potere di fissare un significato univoco e parla invece del continuo inseguimento di un possibile senso che non arriva mai, con analogie al pensiero dell'esilio che non può mai trovare dimora.

Nella seconda sala un classico lavoro di Sol LeWitt dei primi anni '70 presenta una serie di permutazioni di volumi cubici secondo regole sequenziali. I volumi (chiusi, aperti, incompleti) sono tutti posti su un grande reticolo quadrato di base che ne ordina l'alternanza. La regola produce combinazioni infinite e sequenze inconcluse e la ricerca di Lewitt (come ha spiegato Rosalind Krauss) è l'analogo di una mente impazzita che, sondando la regola, vaglia tutte le possibilità senza arrivare mai a un'origine o a una conclusione elidendo anche qui il latente idealismo platonico associato alle forme geometriche. LeWitt raggiunge l'antirazionalismo radicale attraverso la pratica dell'iperrazionalismo, della fedeltà assoluta alla norma astratta e questa ricerca è un fondamentale assunto teorico per lo smontaggio del senso dell'ordine della grid attuato successivamente anche da Eisenman. Cosa sarebbero stati i suoi progetti delle numbered houses dei primi anni '70 senza la presenza di LeWitt? Di certo non vedremmo oggi il reticolo del Denkmal come combinazione infinita, come allegoria, ma solo come rappresentazione di un ordine rigido.



Nella successiva sala Richard Serra (sì, proprio lui, il compagno di strada di Eisenman nel primo abbozzo del Denkmal, colui che ha rifiutato di scendere a compromessi e si è ritirato) presenta una serie di props, volumi geometrici formati da lastre d'acciaio poste in precario equilibrio che mostrano non solo che l'astratto pesa ma che questà gravità non è mai bilanciata e interagisce con la presenza corporea del visitatore e con l'orientamento dell'opera nel sito. Proprio la lezione di Serra in lavori mutlipli all'esterno (ricordiamo, tra altre cose, la sequenza di steli di pietra su un declivio alla Fattoria di Celle presso Pistoia che è il progetto del Denkmal in nuce) parla di quell'irresolutezza del rapporto tra site specificity e abstractness, tra forma e materia che dovrebbe informare lo spazio di ricerca di un orientamento nel memoriale, ricerca di un punto di vista continuamente elusa.

Le sequenze di boxes di Donald Judd che incontriamo proseguendo nell'Hamburger Banhof, parlano di presentenss, di quella capacità teatrale degli oggetti di sporcarsi con il reale e le sue suggestioni: luce, superficie, distanza, materialità. Parlano di antiretorica ma anche di un possibile pittoresco il che non è un ritorno di significati ma l'assunzione casuale di una rappresentatività situazionista (legata al luogo, al pubblico) che emerge dall'annullamento del presunto ordine razionale della serialità. La grid apre al caso, alla banalità, all'atmosfericità e, con ciò, diviene vulnerabile all'esperienza individuale di chi cerca un rapporto con le superfici dei cubi che la compongono.

La Negated Room di Bruce Nauman è un gigantesco cubo che troneggia in mezzo a una stanza. Si pensa che possa contenere un ambiente interno ma non ci sono né porte né finestre. È un'architettura cui si è costretti a girare intorno senza trovare una risposta. La forma diviene negazione, confine e il pubblico è lasciato fuori, al perimetro. La presunta neutralità dell'ordine bianco del Minimal si rovescia in autorità, limite, proibizione. L'architettura diviene opaca, respingente e la forma geometrica non è più così annullata come negli artisti precedenti. Ciò non sorprende: quest'opera arriva dal decennio successivo, da quegli anni '70 che mettono in crisi la presunta riduzione dei linguaggi al grado zero della scrittura e parlano invece di significati storici stratificati, di archeologie del potere, di pratiche discorsive.



Infine il Non-Site Oberhausen, ricordo del soggiorno tedesco di Robert Smithson che operò una mappatura di una miniera abbandonata. Le convenzioni geometriche del rilievo (di nuovo il reticolo della grid) e la raccolta di tracce del luogo in contenitori analoghi (scatole ricolme di pietre della miniera poste in un reticolo), traslano il materiale ma non la rappresentazione del sito nella galleria d'arte che è vista qui come antiluogo. Il Non Site crea una memoria in negativo che opera per riduzione dei segni così come l'earthwork, il segno dello scavo nella miniera, rimuove il materiale e lascia il terreno affondare verso profondità insondabili così come i percorsi del Denkmal sembrano scavare tra le steli.

Le strategie degli artisti delle primary structures, del Post-Minimal, dell'environment e degli earthworks sono profondamente iscritte nel Denkmal di Eisenman perché hanno operato un cambiamento radicale nella concezione dell'arte pubblica e del rapporto spettatore-spazio. Non è un caso che tutti questi artisti portino un contributo della cultura ebraica nelle proprie opere offrendo una potente riflessione sui limiti del potere del linguaggio astratto che viene da loro ereditato e relativizzato in situazioni non conclusive. In questo radicale ripensamento del pensiero dominante, essi parlano di antiidealismo, di relatività, di sradicamento, di ricerca continua, di possibilità della scrittura come pratica infinita e in perenne esilio: problematiche queste che attraversano tutto il pensiero della diaspora e dell'assenza di dimora. Né gli artisti all'Hamburger Banhof né Eisenman sono indipendenti da questa eredità che testimonia non attraverso il simbolismo o la retorica ma con la continua destrutturazione dei linguaggi della tradizione (anche tradizione del nuovo), con la riscrittura continua del testo, con la sua incompletezza e fondamentale assenza.

Il Denkmal adotta diversi criteri verificati nelle opere della Collezione Flick: l'antiretorica del reticolo, lo svuotamento della serialità, le permutazioni infinite (e inconcluse) dei cubi, la tensione tra orientamento e astrazione nonché quella tra forma e peso, la matericità opaca del manufatto industriale, la presenza situazionista dell'astrazione in una situazione specifica, la ricerca di un orientamento lasciata al visitatore, la minaccia dell'autorità del linguaggio razionale, la definizione del sito attraverso l'antimemoria del non-sito e l'affondare nel terreno degli earthworks. Eisenman ha tuttavia la possibilità di mettere in gioco queste strategie in un campo di significazione aperto ove lasciare l'ambiguità dei linguaggi libera di essere interpretata? No, questo non è possibile nel Denkmal perché egli è costretto ad orientare la grid verso un riferimento specifico (il memoriale dell'Olocausto) e ad entrare in un territorio di comunicazione pubblica contemporanea che, al posto del silenzio, chiede invece l'efficienza del messaggio, il consumo veloce, la carica retorica. Anche se l'Olocausto è stato percepito da alcuni come indefinibile nella sua incommensurabilità, esso si porta dietro tutta retorica del male e la sua iconografia che, ereditata dal cinquantennio del dopoguerra, ha caricato anche le forme della memoria contemporanea di pathos espressionista.



Come investire un territorio così pericoloso che vede l'immedesimazione pubblica passare attraverso lo spettacolo preparato e non la scoperta? Come rendere l'astrazione della grid attribuibile a una specifica memoria e non a tutte le altre? Il Denkmal deve accettare compromessi ed essi sono significativi. Il primo e più importante è la scissione del reticolo di steli dal centro informativo sotterraneo che pare supplire a quello che esse non riescono a comunicare (e, ricordiamo è questa scissione ad avere portato Serra ad abbandonare il progetto del Denkmal). L'esperienza viene separata dall'informazione quasi la prima abbia bisogno di una "spiegazione" e anche se Giorgio Agamben e altri teorici si sono affrettati ad attribuire ruoli diversi alle due parti (la memoria attraverso le parole nel centro e la memoria attraverso l'esperienza nel reticolo di steli), la divisione è talmente radicale da risultare irrisolta. L'assunzione di un centro di riferimento, la nozione stessa di centro, è in antitesi all'apertura e antidirezionalità della grid, alla sua mancanza di conclusioni, alla sua dispersione, all'antirappresentatività che Eisenman voleva attribuire all'Olocausto. Questo ancoraggio informativo parla quindi della sconfitta dell'esperienza spaziale nei confronti dell'informazione e non della loro reciproca integrazione.

In secondo luogo, il Denkmal assume caratteristiche rappresentative, accenti patetici e riferimenti a precedenti specifici che sembravano essere stati espulsi dall'opacità della grid. Eisenman è costretto ad operare in un'area apparentemente vasta ma in realtà limitata nella sua estensione. Vi pone un reticolo fittissimo e cerca di creare un salto di scala tra la dilatazione dell'insieme e la compressione spaziale degli stretti corridoi posti tra le steli. Per attuare ciò fa compiere un esagerato saliscendi ai percorsi pedonali (per affondare più in fretta nel reticolo) e inclina le steli, rompendo l'ortogonalità sul piano verticale. Il risultato è che il terreno non appare più scavato ma artificialmente modellato quasi fosse un nastro da montagne russe, il che fa assumere al percorso un connotato quasi da theme park. La ricerca e l'assenza vengono quindi espulse per cercare un pathos che non è più dato al visitatore ma forzato dall'architettura. Le steli oblique con il loro movimento ascensionale verso il centro del reticolo ricordano alternativamente il pittoresco affastellamento delle tombe in un camposanto abbandonato (ricordiamo, ad esempio, il cimitero ebraico di Praga che gioca la sua iconografia sull'estetica della rovina), le cave di pietra con i loro blocchi squadrati (un riferimento ai lavori forzati di una colonia penale?) e il raggruppamento delle case in una città medioevale (Helen Da Costa Meyer, in una illuminante recensione su "Artforum", ha collegato questa immagine alla Stadtkrone di Bruno Taut e a tutta la figurazione dell'Espressionismo Tedesco che cercava la sublimazione dal presente in una sorta di montagna mistica). (2)



Questo latente simbolismo non aiuta a riferire il reticolo al discorso, ben più complesso, della destrutturazione semantica della grid che abbiamo prima delineato e che ha sempre costituito l'ossatura del discorso teorico di Eisenman. L'irruzione della spiegazione informativa e del pathos rappresentativo nel presunto regno dell'autonomia del linguaggio architettonico, fa emergere un problema irrisolto nel formalismo analitico di Eisenman: quello della traduzione di un'elaborazione prettamente linguistica in esperienza spaziale. Pur ritornando alle origini del proprio linguaggio con una grid quasi archetipica (anche se chiamarla archetipica è in contraddizione con la ricerca della sua relatività), Eisenman, trent'anni dopo l'esperienza dell'Institute of Architecture and Urban Studies, si mostra molto più impaziente di investire il reticolo geometrico di significati invece che di esplorarne le permutazioni.

L'abdicare all'autonomia del linguaggio per entrare nella sporca realtà dello spazio costruito, sembra non risparmiare gli architetti che hanno conosciuto il successo con un discorso teorico e formale autonomo (o perlomeno legato alla sola diffusione didattico-mediatica). Molti di loro reagiscono recuperando una sorta di enfasi perduta ed abbandonandosi a soluzioni che sono irrimediabilmente lette in chiave espressiva o retorica. Libeskind, ad esempio, ha assunto un banale simbolismo dal sapore populista nei suoi memoriali all'11 settembre a Manhattan e Padova. Il Denkmal di Eisenman è molto più rigoroso nei suoi assunti ma non riesce a controllare le conseguenze della traduzione della propria discorsività nel reale. Ci troviamo di fronte a un monumento doppiamente equivoco, per difetto e per eccesso. Nel suo mostrare un apparente rigore, rischia di essere interpretato come un gigantesco pezzo di arredo urbano perché non fa capire cosa rappresenti (la condanna all'illustrazione collettiva non risparmia nessuno). Nell'assumere accenti figurativi, tradisce i propri assunti rigoristi. Nel suo rimandare la comunicazione al centro informativo, elude trent'anni di ricerca del proprio progettista e di una tradizione artistica contemporanea che finalmente sta giungendo all'attenzione degli architetti.

Pietro Valle
pietrovalle@hotmail.com
[24mar2006]
  NOTE:

1. La citazione appartiene a Maurice Blanchot dal capitolo "Essere Ebreo" ne L'infinito Intrattenimento, Torino 1978, pp. 123-130. Blanchot parla del contributo della cultura ebraica al pensiero della differenza, delineando una teoria che sarà sviluppata poi da Derrida. "...Cosa significa essere ebreo? Perché egli esiste? Penso che tra tutte le risposte ce n'è una, articolata in tre parti, che non possiamo evitare di considerare ed è questa: esiste cosicché l'idea dell'esodo e l'idea di esilio esistano come un movimento legittimo; esiste, attraverso l'esilio e l'iniziativa che è l'esodo, in modo che l'esperienza dell'essere straniero possa essere affermata nel quotidiano; esiste perché, grazie all'autorità di questa esperienza, possiamo imparare a parlare."
2. Helen Da Costa Meyer, Speak Memory, su "Artforum", gennaio 2006, pp. 47-48.

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la sezione Artland è curata da
Elena Carlini e Pietro Valle


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