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Immobilità sostanziale

José Rafael Moneo Vallés






José Rafael Moneo Vallés
INMOVILIDAD SUBSTANCIAL
"CIRCO" 24
1995



 
"CIRCO" è il bollettino pubblicato da Luis M. Mansilla, Luis Rojo e Emilio Tuñón come espressione dell'omonima associazione avviata nel 1993.

Mi ha sempre impressionato la definizione di architettura data dal teorico cileno Juan Borchers quando ha detto che l'architettura è "il linguaggio della immobilità sostanziale". Sono consapevole che tale definizione sottolinei, una volta di più, la forza che ha la nozione di linguaggio nella definizione della architettura. Ma ciò che più mi sorprende di questa definizione è il concetto di "immobilità sostanziale" su cui si fonda la definizione di Borchers.

L'idea di immobilità ("immobilità sostanziale" come ha detto Borchers) implica il concetto di luogo, la presenza del suolo, trasformato in terreno quando prevediamo di andare a costruirci sopra e lo consideriamo disposto a ricevere l'impatto dell'edificio che cambierà il suo destino nel futuro. È la condizione inamovibile del costruito quella che ci permette di parlare del "linguaggio dell'immobilità sostanziale". Il terreno ci si presenta allora come il suolo nel quale l'edificio si radica, come un dato che può e deve essere considerato come il materiale primo della costruzione. Di fatto la lingua inglese stabilisce il parallelismo fra "foundation" con l'accezione di inizio, principio, e "foundation" come supporto strutturale, origine dalla quale parte il processo di tutta la costruzione architettonica.

In verità il suolo, la terra, può essere considerata come il primo inevitabile materiale sul quale in ogni caso è necessario contare. Ma "immobilità sostanziale" dice anche qualcosa riguardo la presenza fisica dell'architettura. Ci ricorda una volta ancora la materialità e la sostanza che l'architettura, in ultima analisi, richiede. Sono d'accordo con quelli che dicono che l'architettura è un prodotto della mente e che come tale può essere pensata, rappresentata, descritta. Sono anche disposto ad ammettere l'uso metaforico che si fa continuamente della parola architettura e, comunque, secondo me l'architettura trascende il suo effettivo scopo e raggiunge il suo vero status quando si realizza, quando acquisisce il suo essere in quanto oggetto, quando si converte nella materialità del costruito e prende la forma di edificio. L'architettura è materialmente intrappolata nella costruzione e raggiunge la sua autentica consistenza grazie all'uso di un linguaggio che fissa il suo essere in ciò che Borchers ha chiamato "immobilità sostanziale".

Il suolo nel quale si produce, assicura il suo status di oggetto. Il terreno diventa il guardiano di tale condizione. Senza il terreno, senza un luogo specifico e unico, l'architettura non esiste. Un'auto, una casa prefabbricata, anche una tenda di un nomade non si trasformano in architettura finchè non stabiliscono un contatto con un determinato suolo che immediatamente cambierà la propria condizione e li doterà di quella specificità che porta con sé l'architettura. Spesso tutto ciò che implica una costruzione viene chiamato architettura. Così si pone l'accento sulla costruzione come una delle qualità caratteristiche che con più forza distinguono l'architettura, e sicuramente vorrei riservare questo concetto di architettura per l'autentica permanenza della realtà costruita e questo desiderio implica che faccia atto di presenza quella "immobilità sostanziale" che può essere raggiunta solo quando si ha a che fare con un luogo.

Ma occupare un luogo significa prenderne possesso. Costruire implica il consumo del luogo. Così il costruire porta sempre con sé una certa violenza, si voglia o no, sopra il luogo. Il luogo, il suolo, il terreno del quale l'architetto dispone, è sempre in attesa, attento al momento in cui lo trasformerà e gli farà giocare un ruolo attivo nel corso degli eventi. I riti di fondazione spiegano in modo eloquente questo atto di possesso che è sempre implicito nell'architettura. Il primo gesto della gran parte di questi riti (delimitare il luogo con una corda o un nastro) è chiaramente un segno di possesso. Il profilo di un castello in cima a una montagna ci parla del potere del padrone che dalla sua finestra domina il territorio che gli appartiene. Anche quando un nomade pianta una tenda nel deserto sta esprimendo un dominio, si sta appropriando di un suolo, di un luogo; d'ora in avanti la terra avrà qualcuno che la possieda.



È, in effetti, il concetto di possesso ciò che meglio chiarisce quale sia il ruolo giocato dall'architettura nella storia. Gli stili (un concetto che implica molto di più delle semplici scelte individuali) furono nel passato una manifestazione reale e tangibile di un gruppo sociale. Quando si vedono le impressionanti rovine romane in un luogo remoto ci si rende conto dell'immenso valore che il costruito aveva per quelli che volevano essere i nuovi padroni della terra. Quando ci si trova di fronte all'imponenza di una delle cattedrali gotiche, in un luogo qualunque in Europa, ci viene in mente, immediatamente, lo sforzo di una cultura, di un'idea ben strutturata, pronta a dominare la vita degli uomini e delle donne. L'architettura ci si presenta così come testimonianza del potere, come un gesto di possesso. Colonizzare, possedere la terra, ha sempre richiesto la sua trasformazione, la continuità in essa del dominio. Così si spiega il desiderio di stendere mappe, di misurare la terra, definendo limiti e luoghi che, come abbiamo detto, sono disponibili, pronti per accogliere coloro che costruiscono.

Attraverso la costruzione, una volta che questa si consuma e l'atto di possesso del luogo viene portato a termine, la presenza degli esseri umani, la storia, comincia. Quanto appena detto significa che il concetto di luogo, o se si vuole, quello più modesto di terreno sul quale lavora l'architetto, può essere considerato generico, impreciso, troppo ampio. Ha, in effetti, troppe accezioni. Lo applichiamo tanto a una porzione di un meraviglioso paesaggio come a un suolo derivante dalla demolizione in un complicato ambito urbano. È chiaro che sia l'uno che l'altro sono luoghi, terreni ansiosi di ricevere l'impatto dell'architettura. Però è anche evidente che il mondo intorno a noi non consente di pensare che siamo i primi ad aver posseduto il suolo sul quale costruiamo. Pensare all'esistenza di una naturalezza ancora intatta, vergine, è una fantasia. Il concetto di paesaggio nel suo senso più ampio si è trasformato in qualcosa di necessario e questo concetto implica accettare la presenza di qualche tipo di manipolazione, contaminazione, tanto se il termine paesaggio lo applichiamo al campo aperto come alle città.

Questa coscienza del luogo, del suolo sul quale costruiamo, come qualcosa di già manipolato, spiega oggi il motivo della violenza sul luogo prendendo forma nello spostamento e abbandono degli attributi che lo caratterizzano o portando ad una forzata e non sempre richiesta accettazione degli stessi. Seguendo la traccia di queste considerazioni dirò ora qualcosa che, secondo la mia opinione, è definitivo per capire il ruolo che nell'architettura (o se si preferisce nel lavoro dell'architetto) svolge oggi il luogo. Si tratta semplicemente di affermare che l'architettura riguarda il luogo. Così si spiega perché l'architettura deve essere appropriata, cosa che a mio modo di intendere vuol dire riconoscere, sia in senso positivo che negativo, i caratteri del luogo. Capire quali sono questi caratteri, capire il modo nel quale si manifestano, è il primo passo nel processo che l'architetto segue quando comincia a progettare un edificio. Non è facile descrivere come sia questo processo. E comunque non avrei difficoltà a dire che imparare ad ascoltare il mormorio, il rumore del luogo, è una delle esperienze più necessarie per chi pretende di giungere alla formazione di architetto.

Discernere tra i caratteri del luogo che devono essere conservati da quelli che devono essere esclusivi nella nuova realtà che emerge una volta che l'artefatto strutturalmente immobile appare come edificio costruito, e tutti quegli altri che sono di troppo e pertanto devono sparire, è cruciale per un architetto. Capire ciò che si deve ignorare, aggiungere, eliminare, trasformare, etc. da quelle che sono le condizioni precedenti del terreno è vitale per ogni architetto. Devo adesso far notare che anche se un'architettura è appropriata non impedisce la possibile distruzione del luogo. La libertà dell'uomo e della donna di trasformare e creare un paesaggio che si converta in cornice adeguata alla vita, esige questa possibilità e di fatto la storia dell'architettura è piena di questo tipo di episodi. Per dirlo in un altro modo, il fatto che un'architettura sia appropriata può affermare la formulazione di un giudizio contrario al luogo. Quindi l'architettura, la costruzione di un edificio in un determinato luogo, non esprime una risposta automatica, immediata.

Come ho detto, questo dialogo inevitabile tra luogo e momento nel quale si costruisce, si conclude con la comparsa dell'architettura. Con essa si modifica radicalmente il luogo che, da quel momento, sarà qualcosa di diverso. Il luogo sarà trasformato dall'aver generato su di esso una realtà diversa da quella che è l'essenza del nuovo, inequivocabile testimone, appena costruito, edificio. Ma dire che un'architettura appropriata sia una conseguenza della specificità del luogo, che l'architettura appartenga al luogo, non significa suggerire che l'architettura si deduce dall'esistenza del luogo stesso come qualcosa di meccanico. Non c'è una relazione causa-effetto. Conoscere il luogo, analizzare il luogo, non porta ad una risposta immediata. Rifiuto pertanto una concezione del luogo semplicemente come suolo propizio che vede l'architettura, le idee architettoniche su cui si basa la costruzione, come fattore decisivo che dà l'avvio alla nascita del nuovo fenomeno.

Questo modo di concepire ed intendere le cose circoscriverà la relazione reale e intima che esiste tra il luogo e ciò che vi è costruito sopra. Sarò senza dubbio disposto a considerare il luogo come primo materiale con il quale ci si rapporta, la prima pietra, la trama sulla quale proiettare i nostri pensieri architettonici. Se è vero che i luoghi sono più che semplici trame, i luoghi sono la chiave per intendere la direzione che prende il processo di costruzione di un edificio. Il luogo è una realtà che aspetta, sempre in attesa dell'evento che comporti il costruirvi sopra. Quando ciò accadrà si sveleranno i suoi caratteri occulti. Il costruire comporterà una sua presa di possesso, ma come contropartita, il costruito contribuirà a farci capire quali siano questi caratteri. In giusta e obbligata simmetria, il luogo dà una base al chiarirsi dei nostri pensieri architettonici e fa sì che diventino genuina architettura.

Il concetto di luogo negli ultimi tempi è stato spesso confuso con quello di contesto. Gli architetti che si dicono rispettosi del luogo, del contesto, hanno preteso di farci credere che tale rispetto si manifesta quando l'edificio completa, conclude l'episodio determinato da un contesto. È possibile che, in specifiche circostanze, il contesto richieda che un episodio urbano sia concluso, completato da una nuova costruzione; ma questa non è la norma. Recentemente si è abusato della nozione di contesto nella critica architettonica e gli architetti hanno strumentalizzato questa nozione servendosi di una metodologia di progetto che fa dell'analisi del mezzo nel quale costruire il suo fondamento. L'architettura si converte, per coloro che mettono in pratica questo metodo, in un semplice risultato di tale analisi: l'edificio sarà poco meno che dettato da esso e sarà inteso come la conclusione di un sillogismo le cui premesse sono stabilite dal luogo. Inutile dire che mi rifiuto di pensare in questi termini. Intendere la relazione luogo-architettura in tal modo presuppone stabilire un ordine gerarchico che svaluta la fertile interazione tra l'una e l'altro che si produce quando si costruisce.

Tuttavia, nonostante il rispetto che ho verso il concetto di luogo, devo ammettere che l'ombra di una terra di nessuno (perchè è di tutti) incombe sopra il mondo di oggi. Viviamo circondati dagli stessi elementi meccanici ed elettronici. Usiamo gli stessi strumenti ed apparati. Sarebbe difficile dall'interno di un ufficio, o se si preferisce, da qualsiasi altro luogo di lavoro, dire in quale paese ci troviamo. E lo stesso si potrebbe dire a proposito di un ospedale, un aeroporto, un supermercato. A questo devo aggiungere il modo in cui i trasporti di massa hanno alterato la nostra idea di spazio, il significato della distanza. Tutto sembra essere contro il luogo. Tutto sembra esigere un mondo omogeneo, pieno degli stessi prodotti, inondato dalle stesse immagini. Sembra come se esistesse solo l'ubiquità del non-luogo; come se l'idea del luogo non avesse più valore; come se potessimo ignorare dove ci troviamo, dove siamo. Il modo nel quale comprendiamo l'architettura esige, certamente, il luogo.

L'architettura ci si presenta come realtà nel luogo. È lì, nel luogo, che acquisisce la sua identità lo specifico tipo di oggetto che un edificio è. È nel luogo che l'edificio acquista la necessaria dimensione della sua condizione unica, irripetibile; dove la specificità dell'architettura si rende visibile e può essere compresa, presentata, come suo più prezioso attributo. È il luogo che ci permette di stabilire la debita distanza tra l'oggetto che produciamo e noi stessi. Di conseguenza, il luogo è così inevitabile, che anche quegli architetti che proclamano di ignorare e rifiutare l'idea del luogo si vedono forzati a includerlo nel proprio lavoro e come risultato sono costretti a inventare un luogo. Così si spiegano tutti i recenti tentativi fatti per creare un passato fittizio, un suolo fittizio, per scoprire e inventare tutto un paesaggio archeologico virtuale nel quale installare architetture stabilite e pensate a priori.

L'architettura grazie al luogo ha premesso a tutti noi, uomini e donne, il piacere di trasferire a un oggetto la nostra inalienabile individualità. Bisogna dunque pensare al luogo come la prima pietra sulla quale costruire il nostro mondo esteriore. Il luogo ci fornisce le giuste proporzioni per vedere in esso le nostre idee, i nostri desideri, le nostre conoscenze... e così l'architettura (come molte altre attività umane) ci mostra la possibilità della desiderata trascendenza. Il luogo dunque come origine dell'architettura. Luogo pertanto come supporto sul quale l'architettura riposa. L'architettura nasce dal luogo e di conseguenza, i caratteri del luogo, il profondo del suo essere, si convertono in qualcosa di intimamente collegato ad essa. Tanto che è impossibile pensare l'architettura senza il luogo. Il luogo è dove l'architettura acquisisce il suo essere. L'architettura non può essere ovunque.



Per illustrare il mio punto di vista presenterò due progetti. Il primo si trova a San Sebastián, a mio parere una delle più belle città del nostro territorio. Il programma del progetto (era un concorso) includeva un auditorium, una sala congressi e i servizi necessari per convegni ed esposizioni. Il progetto è partito dal luogo. Ho accettato un tipo sperimentato di auditorium e di sala congressi e li ho chiusi in due cubi traslucidi, manipolati in modo che si possa parlare di un progetto attento all'intorno, al paesaggio e che esplora, ascolta e interpreta il luogo. San Sebastián è una città in contatto intimo con la propria geografia e con il luogo in cui si colloca. Sono poche le città che sfruttano condizioni fisiche così favorevoli per la propria disposizione.

L'Oceano si calma al contatto con la Playa de La Concha e tutta una serie di elementi geografici si succedono in un piccolo segmento di costa: baie, spiagge, isole, montagne, fiumi. Nel corso della storia San Sebastián ha sempre rispettato la geografia all'interno della quale si situa ed è per questo che, a mio parere, non era giusto proporre un edificio che ignorasse la preziosa presenza del fiume Urumea. Sono stati fatti in passato tentativi di costruire in quel luogo, estendendo la fabbrica urbana della città nell'area del Barrio de Gros, ma, dal mio punto di vista, se quegli edifici fossero stati costruiti avrebbero oscurato il punto d'incontro del fiume Urumea con l'Oceano e sarebbero stati destinati al fallimento, anche ammesso che l'architettura avesse qualità. Il modo in cui il fiume raggiunge le acque del mare richiede il rispetto di tale incontro e, qualunque sia la costruzione da collocare lì, deve mantenere intatto quel momento felice. Il luogo è inoltre un accidente geografico. Era auspicabile secondo me che il luogo mantenesse i propri caratteri naturali anche dopo avervi costruito sopra.

Di conseguenza ho proposto di innalzare due gigantesche rocce arenate lì dove il fiume incontra il mare. Una è rivolta verso il Monte Urgull, che protegge la Playa de La Concha. L'altra guarda verso il Monte Ulía, un promontorio che definisce uno dei bordi che limitano l'espansione della città. Noi abbiamo proposto di costruirle con blocchi di vetro che mi piaceva fossero solidi traslucidi, capaci di affrontare le difficili condizioni climatiche di un luogo nel quale si fa sentire di tanto in tanto la voce dell'Oceano. La "massa congelata" delle nostre rocce di vetro cambia drasticamente di notte, quando si trasformano in falene che guardano il mare. Sono sole, distanti. Restano in silenzio, come guardiani del luogo. Mi piacerebbe che non appartenessero alla fabbrica della città ma al paesaggio. Ora spiegherò brevemente come funziona l'edificio. Per mantenere la condizione geografica del luogo, dovevo costruire in modo compatto, rigoroso, preciso. Solamente l'auditorio e la sala dei congressi sono visibili sopra le piattaforme che contengono gli altri elementi richiesti dal programma. Dalle piattaforme le persone potranno avere accesso alla splendida vista sul mare. Non credo che siano necessarie altre spiegazioni. Non è stata l'analisi del luogo a portarmi a questa soluzione, quanto piuttosto una visione più sintetica e globale dello stesso. Il progetto di architettura è nato in questa visione del luogo. L'altro progetto di cui mi piacerebbe discutere, la Fundación Pilar y Joan



Miró a Palma de Mallorca, mi ha permesso di sviluppare queste idee in maniera più estesa. Il nuovo edificio è stato progettato per soddisfare la volontà di Joan Miró, che voleva che Palma de Mallorca avesse un'istituzione che potesse contenere la sua ultima opera e desse a studiosi e artisti l'opportunità di approfondire il suo lavoro. L'edificio sorge su un terreno di proprietà di Miró, che godeva della splendida vista sulla Bahía de Palma quando lui e la sua famiglia si trasferirono nella città alla fine degli anni '40. Nella proprietà citata, su cui sorgeva una costruzione della fine del XVIII secolo (Son Boter) Joan Miró edificò, inizialmente, una casa per sé e per la sua famiglia, opera del cognato architetto Juncosa, e successivamente uno studio che progettò il suo amico Josep LLuis Sert a metà degli anni '50.

Disgraziatamente il luogo fu letteralmente circondato da edifici residenziali di grande altezza, costruiti durante gli anni '60 e '70, che impedirono alla proprietà di Mirò la bellissima vista da cui dominava il mare. Quindi, dopo aver identificato un'area prossima allo studio, nel fianco della collina orientata verso la baia, ho deciso che il nuovo edificio non doveva essere alto ma opporsi con energia al mondo costruito nell'intorno. E così la galleria, un elemento chiave del nuovo edificio, ha qualcosa della fortezza militare che sopravvive, riconoscendo i suoi nemici, in un mezzo ostile. Affilato e intenso, il volume ignora tutto ciò che accade al suo intorno e si può dire anche che risponde con energia all'ambiente ostile nel quale si è trasformata quella che prima era una bella collina alberata. Le viste si concentrano nello studio costruito da Sert, in quella c'è fu casa sua e nel profilo lontano delle montagne.

Ma c'è di più. La copertura della galleria si trasforma in uno specchio d'acqua che ci permette di pensare che è ancora possibile recuperare la presenza del mare oggi perduto. D'altra parte lo specchio d'acqua amplifica la distanza tra il luogo e il vicinato. La galleria riesce a tollerare la presenza dell'ambiente intermedio deteriorato, proteggendosi dallo stesso con setti di cemento. Le finestre permettono allo sguardo di dirigersi verso il giardino, punto cruciale e chiave del progetto. Di fatto il giardino si colloca nella dialettica degli opposti venutasi a creare tra la nuova costruzione e gli edifici esistenti. Un insieme di vasche permette all'edificio di restare ancorato al suolo, e allo stesso tempo contribuisce a creare un'atmosfera fresca e gradevole. Perciò l'acqua e la vegetazione dell'isola ci aiutano a dimenticare la deplorevole scena urbana. Infine devo dire che le sculture di Miró si appropriano dell'ambito del giardino tramutandosi in fantasmi corporei che ci ricordano la presenza non lontana di chi ha vissuto tanti anni felicemente in questo luogo.

La struttura spezzata e frammentata dei muri cerca di avvicinarsi all'opera di Miró (a un'opera che ha sempre celebrato la libertà e la vita) dando luogo ad uno spazio inafferrabile come, a mio modo di vedere, quello dei suoi dipinti. Ho cercato deliberatamente di evitare la ripetizione, la serie, il parallelismo, con il desiderio di legarmi all'epifanico e ineffabile carattere della sua opera. Questo perché secondo me il corpo della sua prolifica opera, ogni dipinto, ogni scultura, è una parte unica e distinta, come se Miró avesse voluto catturare la realtà luminosa di un istante che non tornerà a ripetersi mai più: l'opera di Miró resiste a qualunque possibile classificazione, anche a quella cronologica, ed è per questo che la condizione spezzata e frammentata della galleria cerca di dare una risposta adeguata a questo modo di intendere la sua opera. Il nostro desiderio è che le pitture fluttuino sui muri, trovando in essi il luogo che appartiene loro. Luogo e programma vanno di pari passo cercando di afferrare lo specifico modo di essere che ogni edificio possiede.

Confido nel fatto che i due esempi a cui mi sono riferito aiutino a chiarire ciò che ho affermato e cioè che il luogo, dovunque lo si incontri, è intimamente legato all'architettura.

José Rafael Moneo Vallés
(traduzione di Raffaella Sacchetti)



Senza un sito, senza un luogo specifico e unico, l'architettura non esiste. (1) Rafael Moneo si addentra in riflessioni sul significato dell'architettura in relazione al luogo e alle risonanze che lo caratterizzano, prendendo a pretesto la definizione di architettura come linguaggio dell'immobilità sostanziale data dall'architetto e teorico cileno Juan Borchers. La definizione di Borches riguardo l'architettura è molto precisa e ci riporta all'idea di esperienza come strumento di conoscenza, strutturata non solo dagli eventi ma dai fatti che vanno definendo il modo di comprendere la realtà che ci circonda. Nelle riflessioni che intrecciano la struttura del testo, Moneo definisce l'architettura come quel processo di conoscenza che si traduce in appropriazione del luogo.

L'architettura riguarda il luogo (2) e poiché lo definisce è necessario che sia appropriata ad esso. Appropriata rispetto all'idea, alla ragion d'essere, allo scopo per cui è costruita, ma anche nella sua accezione che ne esprime la presa di possesso (dalla radice latina proprius). Il fondamento di tali riflessioni sembra seguire quello tracciato da Heidegger, quando Moneo afferma che occupare un luogo significa prenderne possesso. (3)Appropriazione che avviene a partire dal suolo, su cui ha luogo la fondazione nel suo duplice significato di atto rituale di delimitazione di uno spazio e di sostegno alla costruzione. Secondo Heidegger [...] il costruire, in quanto erige luoghi, è un fondare e un disporre spazi. (4) Identificando il costruito con il luogo, la costruzione si definisce come ciò che ci consente di accordare lo spazio che la contiene, ed essa diviene un riferimento utile rispetto al quale poterlo definire.

Gli spazi che ogni giorno percorriamo sono disposti e aperti da luoghi. (5)Leggere le dimensioni attraverso le distanze ci permette di disporre e ordinare lo spazio ma non di definirne il fondamento dell'essenza. Per Heidegger l'essenza dei luoghi si fonda sul costruito. Se riflettiamo [...] sulla relazione tra luogo e spazio, ma anche sul rapportarsi dell'uomo allo spazio, ne risulta illuminata l'essenza di quelle cose che sono dei luoghi e che noi chiamiamo edifici. (6) In tal senso per Moneo esiste un legame forte tra luogo e architettura, tanto da intenderlo in senso reciproco. Il luogo è una realtà che aspetta, sempre in attesa dell'evento che presuppone il costruirvi sopra. Quando ciò accadrà appariranno i suoi caratteri nascosti. Costruire presupporrà prenderne il possesso, ma, come contropartita, il costruito contribuirà a farci capire quali siano questi caratteri. In giusta ed obbligata simmetria il luogo fa si che i nostri pensieri architettonici divengano specifici e si convertano in genuina architettura. (7)

Il luogo degli eventi è la scena su cui si svolge l'abitare dell'uomo. Nel propiziare un evento, lo spazio si qualifica come luogo disponendosi in modo da mettere in evidenza l'accadere di ciò che vi si svolge e nel consentire un'appartenenza a partire dalla quale sia possibile il relazionarsi delle cose tra loro. Questo processo di conoscenza che passa attraverso il proprio modo di stare nei luoghi, di soggiornarvi, e di appropriarsene, ossia di abitare, è il solo modo che per Heidegger porta alla costruzione, come recita la sua celebre affermazione: solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire. (8) Moneo si sofferma sul fondamento di tale principio secondo cui la conoscenza si attua anche attraverso la percezione, sottile strumento che consente di cogliere il mormorio del luogo. Il titolo del testo, nella sua edizione pubblicata sul numero monografico di "El Croquis" dedicato a Rafael Moneo nel 2004, è Inmovilidad substancial. El murmullo del lugar, a sottolineare la centralità di una riflessione che riguarda l'approccio percettivo come uno strumento necessario alla formazione di ogni architetto. Le percezioni aiutano l'uomo ad entrare in relazione con il luogo in modo irrazionale, o meglio, secondo una razionalità che è data dal proprio essere parte del mondo prima di tutto come corpo, in continua interazione con tutti i caratteri fisici delle cose, simultaneamente. La risonanza prodotta dai luoghi, negli spazi fisici che li definiscono, è evidentemente capace di restituirne immediatamente la misura, la densità, la relazione verso l'intorno, la consistenza.

La "risonanza", che rappresenta per lo scultore basco Jorge Oteiza (9)l'essenza stessa delle cose, ciò che è capace di svelarne la struttura intima, assume per Moneo quel carattere che permette attraverso le percezioni di conoscere i luoghi. Capire quali sono i caratteri [del luogo], comprendere il modo in cui essi si manifestano, è il primo passo del processo che svolge un architetto quando comincia a progettare un edificio. (10) L'ideazione del progetto viaggia lungo un percorso che consente di misurare lo spazio attraverso quegli episodi, chiamati luoghi, che in esso si accordano. Il luogo come origine dell'architettura. Luogo come supporto sul quale l'architettura giace. L'architettura si genera in esso e, come conseguenza, i caratteri del luogo, il profondo del suo essere, si convertono in qualcosa di intimamente collegato ad essa. Tanto che è impossibile pensarla senza luogo. Il luogo è dove l'architettura acquisisce il suo essere. L'architettura non può essere ovunque. (11)

La nascita dell'idea di progetto è, in questo senso, un processo la cui complessità non può che scaturire da un'approfondita conoscenza del luogo che porti a comprenderne la specificità, anche se questa abbraccia un campo infinito di possibilità. Abbiamo visto che un individuo, cosa o persona, è il risultato di tutto il resto del mondo: è la totalità delle relazioni. Alla nascita di un filo d'erba collabora tutto l'universo. (12) Dalla somma infinita di relazioni nasce la specificità, che per Moneo è il racconto dell'unicità di un luogo, fatta di storia, dell'identità culturale e di dimensioni che si legano ad essa oltre che alle caratteristiche fisiche del sito. Anche se, come dice Ortega, l'infinità delle relazioni è inattingibile, rapportarsi alla complessità di situazioni che collegano questi fattori diventa il punto di partenza che porta al gesto fondativo di delimitazione dello spazio. Poiché non possiamo possedere tutte le cose, e ognuna di esse, cerchiamo di raggiungere almeno la forma della totalità. La materialità della vita di ogni cosa è inattingibile; cerchiamo di possedere almeno la forma della vita. (13)

Dopo aver tracciato una mappa ideale fatta di precisi rapporti con il contesto, Moneo immagina un nuovo sistema di relazioni, all'interno di un luogo connotato da fattori geografici e climatici che incidono sull'orientamento e sulle caratteristiche fisiche del costruito. La ricerca di una strategia appropriata alla specificità del luogo e alle richieste del programma guida Moneo a fissare dei punti, a stabilire delle regole di base. Il progetto, che deve rispondere alla complessità della costruzione di un'architettura, consiste nel mettere in relazione una molteplicità di aspetti tra cui l'organizzazione, lo spazio, la luce, la pianta, la sequenza, il dialogo con la storia. In tale complessità luogo e programma vanno di pari passo cercando di afferrare lo specifico modo di essere che ogni edificio possiede. (14) Se è vero che non esiste una relazione diretta causa-effetto tra luogo e architettura, e dunque dall'analisi e dalla conoscenza non può scaturire una risposta immediata, è con altrettanta convinzione che Moneo legge i luoghi come trame capaci di orientare la costruzione architettonica e conclude con chiarezza: il luogo, dovunque lo si incontri, è intimamente legato all'architettura. (15)

Raffaella Sacchetti
sacchetti@architettura.it

[22 aprile 2010]

NOTE:

1. R. Moneo, Inmovilidad substancial, "CIRCO", 24, Boletín independiente, Ed. Mansilla, Rojo, Tuñon, Madrid 1995, p. 3. (t.d.A.)
2. Ibidem.
3. Ibidem.
4. M. Heidegger, "Costruire, abitare, pensare", in Saggi e discorsi, Mursia Editore, Milano 1988, p. 106.
5. Ivi, p. 104.
6. Ivi, p. 105.
7. R. Moneo, Inmovilidad, cit., p. 7.
8. M. Heidegger, cit., p. 107.
9. Tra gli scritti di Oteiza raccolti presso il centro di documentazione della fondazione Oteiza, un documento dal titolo Vacío Resonante, che fa riferimento alle ricerche sulla struttura fondamentale della materia svolte al CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire) di Ginevra, riporta le considerazioni dello scultore sul significato della risonanza, a seguito della scoperta dell'antiprotone che negli anni '50 apre il campo allo studio dell'antimateria, indicando nella risonanza la misteriosa chiave della costituzione della struttura intima della materia.
10. R. Moneo, Inmovilidad cit., p. 7.
11. Ivi, p. 9.
12. J. Ortega y Gasset, "Adamo nel paradiso", in Id., Meditazioni del Chisciotte, Guida editori, Napoli 2000, p. 218.
13. J. Ortega y Gasset, "Adamo" cit., p. 219.
14. R. Moneo, Inmovilidad cit., p. 12.
15. Ibidem.

Il testo qui sopra riprodotto, tradotto in italiano da Raffaella Sacchetti, è tratto dalla lezione tenuta da Rafael Moneo presso la ANYWHERE Conference il 19 giugno 1992, tenutasi a Yufuin, in Giappone, organizzata dalla Anyone Corporation di New York. Il saggio è stato pubblicato per la prima volta nel 1995 nel numero 24 del bollettino indipendente "Circo", di Luis M. Mansilla, Luis Rojo e Emilio Tuñón, e poi riproposto, in inglese, all'interno del numero monografico di "El Croquis" Rafael Moneo imperative antology 1967-2004, del 2004.

       

La sezione Clippings di ARCH'IT
è curata da Matteo Sintini


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