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Io credo che su Kikutake torneremo alla fine. Il Professore mi aveva detto di parlare
tre minuti: forse sarò appena qualche minuto più lungo, ma cercherò di non evadere la domanda.
Prima, però, volevo parlare di
noi che veniamo a questo convegno ("Paesaggistica e linguaggio Grado Zero dell'Architettura" Modena 9.97) con l'invito che
abbiamo in mano. Un famoso filosofo, alla domanda "Chi parla?", rispose forse nella maniera più interessante, più profonda:
"E' la parola stessa". Quando è arrivato l'invito, si è acceso un problema: io sento che dentro queste due parole -Paesaggismo
e Linguaggio grado zero- c'è tutto. Sono parole che per noi, oggi, fanno riflettere. A questo punto potrei andarmene e dire: "Invece
di tre minuti ho parlato trenta secondi e sono stato bravissimo". Ma sarebbe un po' una fellonia, e quindi credo sia giusto
continuare per dirvi quali sono i contenuti che io ho visto in questa splendida titolazione del convegno.
Se poi qualcuno può
avere avuto qualche dubbio dopo aver ricevuto questo invito, bastava aprirlo e trovava Burri. E chi, se non Burri?
Allora, un passo brevissimo indietro. Come abbiamo capito da Zevi, noi siamo antichi: noi
architetti italiani siamo antichi. Lui vive con Lanfranco, ha parlato due minuti fa con Terragni, i nuraghi sono dietro l'angolo. Ma
abbiamo capito un'altra cosa: siamo antichi, noi italiani in primis, perché abbiamo il problema della modernità, e questo nessuno come
Zevi ce lo ha fatto capire. Siamo antichi perché abbiamo il problema della modernità. Sappiamo che modernità non è un concetto
temporalizzabile. Il problema non è se è più moderno Michelangelo o Libeskind, il problema non è Libeskind o Lanfranco, chi è il più
moderno? Se il problema della modernità non è un concetto temporalizzabile, allora che cos'è la modernità?
Io, come molti di voi, conosco a vari livelli il Professore da tantissimi anni, e quindi in
qualche maniera tutti abbiamo sentito questo problema. Ma io l'ho capito una volta, veramente, quando con le sue domande a trabocchetto,
mi disse "Ma insomma, che è questa modernità? ...". E io: "Certo non è temporalizzabile" e lui: "... la
modernità è quella che trasforma la crisi in valore".
Zevi interviene. "Ma non è mia!".
Saggio prosegue:
Non è sua, ma a me è arrivata tramite Lei. Duchamp ci ha insegnato che è fondamentale la scelta.
Allora la modernità è quello
che trasforma la crisi in valore. A questo punto abbiamo una chiave di lettura potentissima, abbiamo un'equazione matematica di una forza
incredibile per direzionare noi stessi, per capire il passato, quello che poi per noi italiani non è mai passato completamente, e per
proiettarci all'oggi e al domani. E allora riflettiamo un secondo, perché le armi servono anche per riflettere, e guardiamo
brevissimamente anche a questo secolo in quello che si può fare in un intervento quasi a braccio. Scopriamo, dopo la prima guerra
mondiale, di fronte a questa crisi atroce della grande guerra che aveva sconvolto l'umanità, due grandi risposte: quella dell'anima
dell'individuo, vedi Mendelsohn, vedi l'Espressionismo, e quella vincente, e lo dobbiamo dire che è stata la risposta vincente, quella
che vedeva comunque nella macchina e nel mondo dell'industrialismo, una crisi a cui gli architetti dovevano rispondere. E dovevano
rispondere come? Lo sappiamo: Nuova Oggettività, Funzionalismo e, soprattutto, una nuova estetica. Nasce il Bauhaus che, se lo pensate un
attimo, è veramente una grandissima risposta anche estetica, forse non solo estetica ma anche etica, a che cosa è il mondo
dell'industrialismo e come il mondo dell'industrialismo si può tramutare in valore estetico. Quindi grande crisi sul problema della nuova
città e dell'industrialismo, risposta a questo mondo della macchina attraverso tantissime cose che voi sapete, ma anche una nuova
estetica. Possiamo continuare in questo nostro secolo, in cui ci sono state molte crisi, e le crisi sono economiche a volte, ma altre
volte semplicemente crisi del pensiero, crisi della nostra collocazione rispetto al mondo e alle risposte che vogliamo dare a questo
mondo. E qui non faccio con voi questo percorso perché credo che i capisaldi ci siano, basti pensare alla seconda guerra mondiale, al
grande mito dell'urbanistica eccetera. Avviciniamoci un momento a noi, e pensiamo agli anni '70, agli anni '80, agli anni '90. Gli anni 70
sono stati, io credo, il momento in cui il centro del problema era il linguaggio, non solo perché Zevi ha scritto il "Linguaggio
moderno dell'architettura", e altri hanno scritto il "Linguaggio classico", ma tutto il problema dell'architettura sembrava
gravitare su questo problema del linguaggio. Erano gli anni in cui esistevano le grandi contrapposizioni e queste contrapposizioni
viaggiavano sul linguaggio. Vi ricordo soltanto come si chiamavano le riviste: Eisenman faceva "Oppositions", altri facevano
"Contropiano", "Controspazio", tutto era Contro, e il valore era un linguaggio diverso. Chi dava dei contenuti di
innovazione, che erano condensati nel linguaggio, e chi anche pensava di dare dei contenuti e delle innovazioni nel linguaggio, che si
scontravano uno con l'altro. Gli anni 80 sono gli anni, da un certo punto di vista, del postmodernismo, ma non solo: sono gli anni in cui
in tutto il mondo il problema del contesto era il nostro problema. Chiunque abbia lavorato come architetto lo sa e certo il problema del
contesto voleva anche dire la coscienza che forse la città non poteva crescere all'infinito, che forse dovevamo anche fare i conti con
l'esistente. Si sono date tante risposte, si sono date senza dubbio delle risposte mimetiche, revivalistiche, di retroguardia, ma in
quello stesso ambito, in quello stesso momento, come allargamento di questo problema nasce il cheapscape, cioè nasce la coscienza che
contesto è anche un contesto derelitto, abbandonato, povero, nasce in qualche modo anche il grande messaggio di Gehry. Ma anche Eisenman
lavora su queste problematiche, ha un'idea tutta metaforica di contesto. E oggi? Oggi abbiamo questo, abbiamo "Paesaggistica e il
Linguaggio grado zero dell'architettura". Io credo che noi (e noi architetti arriviamo sempre un po' più tardi perché nel dibattito
intellettuale il problema del rapporto tra uomo e natura non è certo del '97: già nei primi anni 70 nel dibattito filosofico e
sociologico questo era un tema fondativo), noi cominciamo a misurarci con il problema del rapporto tra i nostri artefatti e la natura.
Però, attenzione a questo nesso: la civiltà delle macchine non si incorpora nella fabbrica soltanto, e il problema del rapporto con la
paesaggistica non vuol dire necessariamente disegnare giardini, o fare giardini, o inserire giardini. Il problema è molto più ampio, di
cui questa è una sotto componente, ma il problema fondamentale che ci poniamo è il rapporto tra il paesaggio e la natura e
l'architettura. Il problema diventa quello che l'architettura stessa deve proporsi come nuova naturalità, come nuovo paradigma sintetico
che comprenda paesaggio e natura, come idea fondativa dell'architettura stessa, strutturante, un nuovo essere dell'architettura. E' una
formula un po' condensata: nuovo paradigma dell'architettura, il paesaggio.
Questo è pazzo, direte. Secondo me, non sono pazzo. E
per dirvi questo farò degli esempi, ed è l'unica cosa che posso fare, e lo farò soltanto con la forza della parola, se c'è. Da dove
dobbiamo partire per capire questa idea del paesaggio come nuovo paradigma dell'architettura? Da dove se non dal Giappone? E perché dal
Giappone? Perché è lì, è in quella cultura che c'è (fra l'altro moltissime cose partono dal Giappone nell'arte moderna: basti pensare
agli Impressionisti, alla rottura della scatola, ma questo ve lo risparmio) un rapporto tra artefatto e natura opposto al nostro. Non vi
cito neanche il grande tema della casa del tè, cioè il problema del matrimonio spaziale tra interno ed esterno, vi parlo soltanto della
differenza radicale e fondativa che c'è tra il tempio scintoista e il tempio greco. Il tempio greco ha in sé tutti gli enzimi della
perennità, di una sacralità basata sulla sua eternità, su un rapporto con la natura di tipo sì sacrale ma in fondo dicotomico. Il
tempio scintoista si ricostruisce ogni vent'anni, si deve ricostruire ogni vent'anni, è un rapporto con la natura e con il paesaggio che
ha un sentire opposto, in cui il valore è dato dalla sua provvisorietà, ed è un modo di ragionare opposto, completamente diverso dal
nostro, che rifonda dalle basi un rapporto diverso. E allora in Giappone gli architetti che hanno questo tipo di imprint, che cosa fanno?
Pensiamo un attimo: per esempio, io sono stato presentato come giovane e quindi
guardo architetti giovani, pensate a Toyo Ito: non possiamo pensare a Toyo Ito se non pensiamo a questo tentativo di fare della natura un
nuovo paradigma, ma un nuovo paradigma che diventa tecnologico, che diventa leggero, che diventa un'altra cosa. Continuiamo questo giro.
Facciamo un salto brevissimo in Australia. Pensando all'Australia non si può non pensare a Utzon, e la cosa non è casuale perché fra
l'Australia e i paesi nordici c'è un filo continuo. Utzon è talmente gigantesco, talmente sommo nella sua forza che ancora non siamo
riusciti a capirlo completamente. Utzon vuol dire l'Opera House, e Zevi l'ha descritta, e non credo che nessun'altra parola debba essere
aggiunta. Ma pensiamo anche a un architetto, che in realtà non è più giovane però è noto solo da pochi anni come Murcutt, pensate al
suo rapporto con il terreno, a queste architetture leggere, fluttuanti che però si muovono e sembrano catturare certe presenze anche di
una natura e di una cultura spontanea e popolare. E poi, saltiamo, continuando questo giro del mondo, per arrivare in California. In
California c'è Schindler che queste cose le aveva capite, perché era un viennese prima di tutto, e l'Art Nouveau l'aveva nel suo sangue,
e allo stesso tempo sente Wright e vive questo sentire il giapponese. E lui fa architetture che sono alberi, che vibrano continuamente. Ma
Schindler è nel passato ormai e quindi guardiamo un secondo di nuovo a Gehry. E Gehry fa una rivoluzione che è quella di cui abbiamo
parlato. Attenzione: il problema del paesaggio non è soltanto puramente la natura, ma è anche appunto un paesaggio secondo, residuale,
che diventa nostro valore.
In California tantissimi operano su queste
tematiche. Avete mai visto a come ultimamente i Morphosis, (per dire di un gruppo alla moda, ci sono appunto molti trentenni e quarantenni
che vivono di queste cose), fanno i plastici? Sono plastici, e quindi sono anche architetture, che introiettano il paesaggio in se stesse,
che diventano paesaggio. Sono curve di livello o onde trattate, non c'è neanche differenza tra come l'intorno e l'edificio sono fatti, e
questo vuol dire una ricerca in cui il problema è di nuovo rimisurarci con la natura e con il problema del paesaggio come valore
fondativo dell'architettura, come il problema dell'industria è stato valore fondativo del Bauhaus. Perché è la crisi cui siamo di
fronte: se noi non ci rendiamo conto che questa è la crisi, che dobbiamo misurarci su questo e che gli anni a venire non possono non
misurarsi su questa tematica, l'architettura diventa sorda, e noi non vogliamo che l'architettura sia sorda, ma dev'essere uno degli
avamposti della riflessione intellettuale. Muoviamoci ancora un poco verso Est, e chi troviamo? Troviamo Soleri, un pioniere di questa
problematica: fin dagli anni '60 tenta di realizzare un'architettura che dica questo, che faccia questo. Certo non ha i segni di questi
architetti che noi sentiamo più vicini a noi, però il problema è questo, ed è un pioniere dell'eretico, ed è stato un eretico per
questo, perché aveva cominciato a farlo trent'anni fa in questo suo piccolo studio con questi studenti con i sandali che venivano da
tutta l'America per aiutarlo a creare.
Vi posso citare Bruce Goff e altri, però non voglio fare una cosa troppo ricca. Andiamo in
East Coast e troviamo Eisenman. Avete visto soltanto per un momento il progetto di Chiesa di Eisenman? Si tratta di un'architettura come
la intendevamo prima, o veramente il problema del paesaggio è diventato nuovo paradigma? Sono due zolle, tre zolle che si articolano
telluricamente, dentro cui capita di esserci una chiesa, anche una chiesa nuova, diversa, eccetera, però in questo contesto a me
interessa far capire come un architetto di punta come Peter Eisenman si crei in quel progetto questo problema, esattamente questo
problema. E navighiamo, attraversiamo l'oceano e capitiamo in Spagna. Basterebbe fermarci qui, nominare Gaudì, e tutte le persone qui
presenti sono super informate, sicuramente più informate di me, per rendersi conto di come le cose più interessanti in Spagna nascano su
questo problema. Ve ne cito una, Enric Miralles non si può non citarlo, Miralles è tutto in questo, da quando fa gli arredi urbani a
quando fa i cimiteri a quando fa le scuole. Ripeto: il problema non è il tema, il problema è questa nuova consapevolezza. Ma voglio
citare un esempio in una chiave diversa: la municipalità di Barcellona ha fatto un'opera assolutamente straordinaria e incredibile che è
questo nuovo anello viario che costeggia le colline. È una infrastruttura che non solo si inserisce nel paesaggio, bensì fa paesaggio,
diventa paesaggio e allo stesso tempo genera nuove architetture, perché a volte si costruiscono delle scuole sopra la grande strada,
oppure dei campi gioco o degli uffici. Questa è un'infrastruttura incredibilmente importante, perché è un nuovo paradigma di
infrastruttura, di rapporto con il paesaggio, di modo in cui l'architettura può esistere, al di là del fatto che questa consapevolezza
sia portata fino in fondo nei singoli edifici. In Spagna ci sono altri personaggi di un certo interesse. Vi posso soltanto citare
l'ingegnere-scultore Calatrava. Secondo me il termine architetto è ancora un poco inappropriato, ma il grandissimo ingegnere-scultore
Calatrava, affronta il paradigma del movimento, e il problema del movimento è un altro ragionamento su questa tematica. E lasciamo
perdere il resto d'Europa, dove vi sono molte altre cose importanti (basti pensare ai paesi nordici) e torniamo un po' a Roma.
E,
per essere sinceri, non si può non parlare di Roma essendo romani. È una cosa troppo importante, e mi scuso di essere a Modena e di non
avere la capacità e la cultura di parlare di Modena. Io voglio parlare di Roma perché sento Roma. E a Roma m'incavolo anch'io, in
maniera diversa da come Franco e il Professor Zevi hanno fatto. Mi domando: "Se abbiamo una giunta tra virgolette 'ambientalista',
quale è la sua capacità di elaborazione culturale e di progetto reale sul nostro tema?". A Roma abbiamo ancora delle potenzialità
enormi: pensate a quello che è un progetto, che è un disegno, e che è il Parco Archeologico dell'Appia, e che consiste nel tentativo di
far capire come alla grande scala (e qui entra il paesaggismo inteso in un'altra maniera) architettura del passato, disegno urbano,
disegno territoriale si integrino.
Ma si tratta di rilanciare in grande questa idea. D'altronde se pensate un momento alle Fosse
ardeatine, vedrete subito come è possibile fare un'architettura che diventa che è paesaggio. Stona dentro il parco dell'Appia? Niente
affatto. Lo fa capire meglio. Perché mai non si potrebbe riprovare?
Questo è quanto sul Paesaggismo. Si tratta in fondo di capire
come fare architettura che non rispetti, non si adatti, non sia solo ecologica o intelligente (cose che certo non guastano) ma che si
trasformi essa stessa in nuova natura, in nuovo paesaggio.
E veniamo brevemente al perché del Grado zero del Linguaggio. Ma è
chiaro, mi pare. Se il problema si sposta in questa nuova sostanza il linguaggio in quanto tale si azzera. Forse il problema è combattere
gli accademismi, le architettura della città, la neo-metafisica? Ma questo non è più un obiettivo perché è il tema stesso che lo
esclude, storicamente. Come se nella nuova civiltà delle macchine alla trasparenza dinamica gropiusiana si contrapponessero gli stucchi
decorati. Semplicemente non esiste.
Se il problema è come credo cercare un'architettura che diventi paesaggio, che è paesaggio,
dobbiamo fare del linguaggio specifico un problema secondo. Cercare nuove semplicità, guardare alle altre ricerche con interesse e
freddezza per trovare nel nostro specifico le ragioni profonde.
In
maniera un po' provocatoria, voglio dire, per chiudere, che il problema forse non è il linguaggio ma è la parola stessa.
Zevi: Io
avrei dovuto interrompere Saggio dopo tre minuti o dopo tredici minuti, ma quando sono di fronte all'intelligenza, io mi arrendo. Ha la
parola Dennis Sharp.
*
Per trasmettere la rilevanza dei tre giorni di Modena proposti da Bruno Zevi sul tema
Paesaggistica e Linguaggio grado zero dell'architettura, dobbiamo mettere in ordine alcune esperienze. Esse sono, nell'ordine: la visita
alla avveniristica fabbrica della ditta Mirage, sostenitrice del convegno. Una gita al parco naturalistico sulle rive del Panaro, venti
chilometri recuperati in dieci anni dalla Provincia. Le relazioni di Bruno Zevi, di Günther Domenig e di James Wines. La visita al
Cimitero di Modena, realizzato dal recentemente scomparso Aldo Rossi. La mostra dei risultati del lavoro di 250 architetti per la
consultazione internazionale sul tema. Ma andiamo con ordine.
A Pavullo, sulle colline di Modena, sorge una fabbrica completamente
automatizzata. Grandi superfici, enormi macchinari, poche persone in camice che controllano via computer la produzione di un marmo
artificiale per certi versi migliore dell'originale. Ci si scorda, a volte, dell'idea di potenza, di successo sul mondo e sugli
avvenimenti, di efficienza e di razionalità che una fabbrica trasmette. È un messaggio che ancora colpisce e che, per le generazioni che
ci hanno preceduto, ha rappresentato un mito.
Nei libri di storia, la rivoluzione industriale è datata agli albori del XIX secolo,
ma l'industrialismo (cioè la presenza dell'industria quale strutturazione fondamentale della società) è penetrata nella coscienza
dell'arte solo in questo secolo e in architettura, solo dopo la prima guerra mondiale. Le Corbusier parlava negli anni Venti di
transatlantici, aerei e silos, diffondeva uno Spirito nuovo e una Macchina d'abitare, teorizzava come costruire con i suoi Cinque punti e
come fare una città zonizzata. Ma, come tutti sappiamo, la risposta più forte fu trovata da Walter Gropius. Non solo perché la scuola
di cui era direttore era strutturata sul rapporto arte-industria, ma perché l'edificio stesso del Bauhaus ne fu simbolo e paradigma.
Prima di Gropius la presenza dell'industria nell'arte era sentita come elemento di crisi e di disturbo: l'architettura ufficiale
continuava a disegnare edifici basati su vecchie certezze tipologiche e decorative e alcune avanguardie artistiche come il Futurismo e il
Costruttivismo potevano essere facilmente relegate nel limbo delle utopie. Ma Gropius capì come trasformare la crisi in proposta e trovò
una estetica di rottura, giocata sulla funzionalità assoluta, la libertà spaziale, la trasparenza. Da allora il mondo ha cominciato a
capire cosa poteva essere una estetica industriale e l'ha seguita e praticata.
Almeno dai primi anni Settanta, filosofi e
scienziati ci avvertono sempre più allarmati del pericolo per il nostro vivere di un indiscriminato sviluppo industriale. Buco
nell'ozono, inquinamento, malattie indotte. Pochi credono con l'entusiasmo del 1925 al valore tutto positivo, tutto di progresso
dell'industria. Nasce una crisi profonda nel rapporto tra uomo e ambiente.
La fabbrica di Pavullo, magnifica, potente, efficiente,
come ogni fabbrica può produrre danni. Le rive del Panaro sino a pochi anni fa erano una discarica a cielo aperto che ne raccoglieva i
detriti. Oggi le fabbriche esistono, ma una amministrazione intelligente, utilizzando fondi europei e locali e organizzando una task
force di giovani architetti, ha risolto il problema. Ha stimolato le industrie a cambiare alcuni processi e a depurare, poi ha
progettato, curato e mantenuto per venti chilometri (!) le rive del fiume dotandole di piccoli servizi per la gente. L'acqua è pulita, si
fa il bagno e si pesca, insomma un miglioramento.
È questo il primo
livello del paesaggismo, quello già penetrato nella coscienza diffusa. Sappiamo anche che bisogna fare case più sane, con materiali
possibilmente non dannosi, che sfruttino l'energia naturale invece di sprecarla inquinando. È facile da capire, difficile e faticoso da
fare, eppure progressivamente si dovrà e si potrà fare, soprattutto se chiare indicazioni legislative verranno a supporto.
Il
difficile, per dirla con Zevi, è come trasformare, ancora una volta, la crisi in valore, in una estetica adeguata alle nuove sfide.
Superata ogni ideologia meccanica ed industrializzante, misuratene i limiti e l'improponibilità, si cerca in una direzione diversa. Non
si tratta solo di ecologia o ambiente, di per sé riduttive e limitanti, e non si tratta neanche solo di un tema di applicazione (per la
stessa ragione che, nell'estetica della macchina, il problema non era la fabbrica di per sé, ma un cimento che investì tutto). Il
problema posto dal termine paesaggismo è che l'architettura stessa deve proporsi come nuova naturalità, come nuovo paradigma sintetico
che compendi paesaggio e natura quali idee fondative, strutturanti il suo nuovo essere.
Come trasformare, allora, questo elemento
di crisi (la perdita della centralità del meccanicismo e dell'industrialismo e l'allargamento dal concetto di contesto a quello di
paesaggio) in valore?
A riguardo le relazioni al convegno degli importanti ospiti stranieri sono state variamente articolate. Il
giapponese Kiyonori Kikutake sta tentando nei progetti recenti di coniugare le sue futuribili costruzioni a tali sfide. Il belga Lucien
Kroll è un pioniere della partecipazione e dell'ecologia. Il francese Henri Ciriani, forse alludendo all'intervento del connazionale
Claude Parent, ha ricordato che la parola libertà si coniuga a capacità di orientamento, a necessaria direzione di ricerca, non ad
arbitraria sperimentazione. Gunnar Birkerts è ormai da anni fautore di una architettura sotterranea. Una ottima idea, ecologica e logica
che sta avendo successo in Nord America. I critici inglesi Dennis Sharp e Peter Blundell hanno storicizzato la problematica.
Poi vi
sono state due grandi lezioni che hanno saputo riprendere sino in fondo la sfida di Zevi.
La prima è stata di Günther Domenig,
solitario e scontroso padre di tutta la scuola austriaca di Graz. Domenig ha fatto vedere solo la sua casa. Un'opera violenta, cattiva,
senza compromessi. Il tutto è ispirato agli scontri tra le masse rocciose, che fanno fessure, che stridono, che urlano e si dilaniano
come i crepacci. È certo un fare che guarda alla natura, la introietta e la trasforma in volumi disturbati. Ci ricorda che la natura non
è necessariamente buona, ma anche violenta e disperata. Un oceano che ci fa annegare, una belva che ci sbrana, un virus (è natura, no?)
che ci uccide. Domenig rilancia la stessa chiave che fu di Erich Mendelsohn (e di Häring e di Scharoun). Se Gropius �guardava alla
macchina e all'industrialismo come liberazione chi come Mendelsohn disegnava i suoi edifici sotto le cannonate, non poteva non sentire la
distruzione e il terrore che le stesse macchine potevano produrre.
Domenig è l'artista isolato (si è autodefinito, ed è
difficile smentirlo, un genio) ma per chi cerca anche risposte generalizzabili la lezione di James Wines, fondatore dell'americano gruppo
dei Site, è stata decisiva.
A Wines ha interessato per anni indagare un'architettura e una scultura contestuale. Cioè un'opera
che dica qualcosa per dove è, che non può essere spostata senza essere radicalmente perduta. Per esempio, dovendo abbellire un
parcheggio, non fa uno dei soliti "plug-in" astratti o costruttivisti, ma affonda e riveste di pece una fila di macchine.
Naturalmente
questa ricerca environmental negli ultimi anni, si allarga al problema del paesaggio, al rapporto tra uomo e ambiente. Crea
architetture spesso fatte di acqua, di terra, di luce, ma è proprio la ricerca di una espressività propria al tema del paesaggismo ciò
che il suo lavoro indica. Wines non è solo in questa ricerca. Dai giapponesi Toyo Ito (che crea sottili mulini a vento altamente
tecnologizzati), o Tadao Ando (che sviluppa l'antico amore orientale verso il matrimonio spaziale tra interno e esterno) o Arata Isozaki
(che nel suo Padiglione giapponese a Cracovia decanta il tema dell'onda), all'australiano Glenn Murcutt che disegna costruzioni sollevate
dal suolo che vibrano e si muovono nell'aria. Dai californiani Morphosis che fanno architetture paesaggio sin dal modo stesso di
graficizzarle, a Frank Gehry che mostra un paesaggio secondo e residuale sempre presente negli scarti, a Peter Eisenman che disegna una
chiesa per Roma come se fosse fatta da zolle telluriche, a Zaha Hadid, a Daniel Libeskind a Enric Miralles. Se si guarda l'opera di questi
architetti si coglie che cosa vuole dire fare del paesaggio un nuovo paradigma.
Sono nuove complessità rispetto a quelle dei maestri nordici dell'organicismo. La ricerca di oggi non vede solo la
natura come pacificato controcanto umano al mito artificiale dell'industria, ma sa che la sfida è storica, perché la nuova modernità
deve misurarsi con la natura. Assorbendone leggi nascoste (i frattali, il Dna, i movimenti delle onde o i cumuli di sabbia), evocandola
(anche nelle sue tensioni e movimenti sotterranei e spaventosi o in quelle di un universo in espansione), capendone le tensioni e
rilanciandole, facendosi insomma essa stessa paesaggio.
Per
"costruire la natura" dobbiamo infine "de-costruire l'architettura", cambiarla profondamente nelle sue attuali
coordinate: "Se l'architettura deve sopravvivere, con ogni probabilità dovrà essere distrutta nella sua definizione attuale"
dice Wines. Cosicché essere a Modena a pochi giorni dalla tragica scomparsa di Aldo Rossi, può aiutarci a capire ancora meglio. Il
cimitero di San Cataldo è un'opera integralmente protesa al problema dell'urbanità e rimanda a una città rigorosa, ferreamente
autodisciplinata tanto distante dal tema del paesaggismo e della zeviana urbatettura quanto De Chirico lo è da Pollock o da Burri. È
anche un opera simbolo degli anni Settanta, quando il problema del linguaggio e le contrapposizioni su di esso erano il centro del
dibattito architettonico. Ma questo convegno ha associato al paesaggismo un "grado zero del linguaggio dell'architettura". Vuol
dire, crediamo, che proprio per l'importanza del tema qui proposto con sismografica sensibilità il problema del linguaggio di per sé
passa in secondo piano. È la ricerca di una nuova sostanza che lo azzera.
Grado
zero vuole dire allora non solo linguaggio né aulico né popolare, ma anche scrittura amodale, all'indicativo che punti al senso, al
contenuto ancora da sondare della parola stessa paesaggismo.
Antonino Saggio
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[11dec2000] |