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Coffee Break

FORUM

Il forum di Coffee Break raccoglie commenti e osservazioni inviate a partire dal novembre 2000. Si propone come struttura in continuo aggiornamento e crescita attraverso un lavoro collettivo per l'approfondimento dei temi trattati nei singoli contributi. Lo scopo è l'allargamento del bagaglio di informazioni, preferibilmente reperibili in rete, ma anche lo sviluppo di riflessioni critiche. Si vuole incentivare una presa di posizione sugli argomenti trattati, l'intreccio delle problematiche e anche la conoscenza e il diretto contatto fra i partecipanti. Ogni contributo è vagliato e discusso dalla redazione in base alla pertinenza e all'interesse che esso presenta in qualità di approfondimento. La pubblicazione non è automatica, ma rappresenta il riconoscimento di un contributo ad una costruzione comune. L'articolazione del lavoro di selezione è creata dal gruppo redazionale di Food for Minds (ovvero Antonia Marmo, Italia Rossi, Roberto Sommatino) che sceglie, edita, organizza e in qualche caso approfondisce con ulteriori link, riflessioni o commenti i contributi inviati. Si partecipa inviando a antonino.saggio@fastwebnet.it una email che abbia come oggetto il titolo del pezzo di riferimento e, se si vuole, un titolo esemplificativo dello specifico contributo. La redazione si riserva il diritto di operare tagli e decidere se pubblicare.

 

pace maker | gli architetti | le idee | le interpretazioni | it revolution

PACE MAKER
(questa sezione ospita contributi generali su Coffee Break e sulla comunicazione in rete)




Quello che segue, consegue

Gli interventi pubblicati in Coffee Break rappresentano in qualche modo una scommessa [...]. Testi impegnati, consistenti, generosi [...] offerti giorno per giorno. La scelta, diciamolo subito, non è stata procurare a tale ingente mole di scritti un'uscita editoriale analoga a quella cartacea. L'autore ha piuttosto scelto di usare la rete per costruire qualcosa insieme ai suoi lettori [...].
La rete, oltre a prospettarsi come sistema dalle molteplici potenzialità per lo sviluppo dell'architettura, è anche un mezzo formidabile per avviare nuove pratiche di elaborazione testuale e di comunicazione. [...] Saggio privilegia il rapporto con i lettori, chiede loro di reagire, di rispondere, di inaugurare un dialogo che estenda la dimensione del testo scritto attraverso approfondimenti, collegamenti, conferme e confutazioni. Questo gioco si costruisce sulle connessioni, esiste in funzione della capacità di propagarsi in rete, prolifera attraverso lo sviluppo di collaborazioni che restituiscono, se ben orchestrate, concretezza ed attualità al materiale originario. [...] Un testo opportunamente collocato in rete è soggetto a questo genere di influenze al punto da consegnare alle tradizionali note ed ai riferimenti esterni una funzione di scambiatori bidirezionali capaci di produrre eventuali feedback dinamici all'interno del testo originario [...].

Marco Brizzi
brizzi@dada.it



PaceMaker. Potenziale in cerca d'autori

Proviamo ad assumere il concetto trasversale e ibrido di PaceMaker per rendere un'idea della struttura/funzione/ambiente FORUM che si organizzi secondo le sue modalità logiche, mutuandone ed estendendone dinamiche e caratteristiche chiave.
PaceMaker (da leggere, con un calembour, anche come Creatore/Costruttore di Pace, di ritmi e pulsazioni anche per il cuore) come tentativo di aprire i ritmi della conoscenza per scambiare e assumere informazioni, creare contatti, far scattare confronti, far sviluppare energie e innescare sinergie, aprire e moltiplicare strade tra i vari livelli di lettura e scrittura per costruire senso e sensi che non siano scontati, ripetitivi, ridondanti o semplicemente compiaciuti.
PaceMaker che, come struttura cellulare pacemaker (o dispositivo artificiale analogo...), si ponga come area culturale che generi impulsi, muova e "recluti" risorse, organizzi l'attività di altri attori, stimoli e trasmetta informazioni, segnandone passi tempi e modi, in virtù di una più elevata quota di autonomia/iniziativa, per costruire aree più reattive.

Se si osservano i sistemi naturali si noterà che, laddove nella continuità di un processo in divenire si costituiscono aree di maggiore densità, queste tenteranno ad organizzare il processo accogliendo e orientando le forze. Una perla nasce da un granello di polvere intorno al quale inizia una lenta sedimentazione, che senza il granello non avverrebbe; il granello è, per cosi dire, l'appiglio, il pacemaker, quello che in un orchestra batte il tre.

Tutto questo è reso possibile grazie a un altro "movimento", una "Differenza di Potenziale", una più elevata e autonoma capacità di generare potenziale di azione da parte di un PM, che nella continuità/uniformità degli eventi irrompe con una zona di più alta "densità" attrattiva: pensiamo a un universo come una griglia uniforme, in stato di quiete, nella quale in un certo punto si muova qualcosa, perché ci sono condizioni di movimento/fermento/innovazione/qualità/quantità maggiore che innescano il processo, e si crei un'increspatura con picchi e avvallamenti: la piega presa dalle cose permette il formarsi di nicchie e appigli, intorno ai quali sciama, converge, si polarizza tutta una serie di elementi/idee/riflessioni che cominciano ad addensarsi trovando nuova espressione e organizzazione...pensiamo alla formazione di una duna di sabbia, al suo variare, al suo spostarsi...
La differenza di potenziale innesca la "migrazione" di elementi, dai quali attinge il processo di generazione dal caos, intorno a un'area, vale a dire che si creano condizioni perché il caos si organizzi in vie di senso: si dà un universo in potenza in cerca di autori menti pensieri da addensare secondo varie forme intorno a un campo, con un processo in fieri, sempre aperto ad accogliere e rilanciare nuove combinatorie.

Prendiamo la lezione dei sistemi naturali per mettere le mani nel processo, esplicitarne le caratteristiche, i meccanismi, le logiche, e pensare a questo FORUM proprio come a una zona di maggiore densità, spazio che "recluti" attività, interessi, pensiero e ne sia crogiuolo, un generatore di differenza di potenziale, un PaceMaker.
Ecco che un Forum può diventare l'espressione, per dirla con Bateson, della "struttura che connette", uno spazio privilegiato di estensione/esplicitazione dello spazio mentale collettivo.

Antonia Marmo
antonia.mar@katamail.com



Caffè Voltaire: Dibattiti in differita

L'open-source è un valore costituente del web e la consapevolezza di questo è ogni secondo più matura e diffusa.
Tale valore diventa forza potenziale di espansione infinita, se le presenze sono attive e reattive.

Risposta, controrisposta, moltiplicazione dei contributi, amplificazione delle questioni: il feed-back a cascata, in direzioni imprevedibili, consente alla pubblicazione di innescare "reti", dove ogni contributo è luogo di sospensione possibile, tra i possibili molteplici percorsi all'interno di un unico, continuo processo di iper-costruzione.
I percorsi teorici che sono proposti in questa rubrica non danno soluzioni conclusive ai dubbi, ma esiti solo parziali.

Perchè ad essere pubblicate sono anche sensazioni, sensibilità, intuizioni, con l'animo di chi mette un seme in un terreno fertile ed attende una crescita, uno sviluppo.
Non si vuole puramente dare e ricever informazioni, non si tratta di una modalità a senso unico, ma viceversa, si vogliono innescare reazioni a catena, costruire reti dinamiche di comunicazione.

Il motivo è intellettuale, con una volontà prima di tutto etica: mettere a disposizione i propri pensieri e le proprie scoperte, viaggi intellettuali che diventino patrimonio comune, risorsa ulteriore, esperienza fruibile.

È un motivo intellettuale, ma è anche impulso emotivo, di chi sente la necessità di interrogarsi sulle cose ed ha bisogno di condividere con gli altri, perché gli entusiasmi non si possono contenere e vogliono essere comunicati; perché vogliamo esserci, vogliamo partecipare ai cambiamenti e renderne partecipi gli altri; è un impulso prima di tutto vitale.

Come in un virtuale Caffè Voltaire, si confrontano i punti di vista, alla ricerca di nuove soluzioni e nuove crisi; si aprono confronti, dibattiti in differita, per promuovere le intelligenze e potenziare l'immaginazione.

Italia Rossi
if_rossi@hotmail.com



Percorsi della mente

Il "Dictionnaire abrégé du Surréalisme" di Breton ed Eluard, pubblicato nel 1938, riporta questa definizione: il "cadavere squisito" è un "gioco con carta piegata, che consiste nel far comporre una frase o un disegno da parte di più persone senza che nessuna possa tener conto della collaborazione o collaborazioni precedenti. Il primo tentativo che si fece originò la frase "Le cadavre exquis boira le vin noveau" (il cadavere squisito berrà il vino novello) dalla quale proviene il nome del gioco.
Il forum di Coffe Break fa inevitabilmente pensare ai "cadaveri squisiti" di Breton. Lo spirito dell'operazione è vagamente e piacevolmente surrealista, e ciò nonostante la fondamentale contraddizione di basarsi sulla conoscenza dei contributi precedenti anziché ignorarli. La partecipazione è, infatti, indubitabilmente e necessariamente consapevole, responsabile certo, per cominciare ma non fino alla fine.

Spieghiamo: del Surrealismo c'è il potenziale coinvolgimento, totale e radicale, grazie al web, delle discipline più varie, di domini, universi, province o solo orticelli, a partire, è vero, dall'architettura, ma per arrivare chissà dove; e c'è, soprattutto, la ricerca di una rottura degli schemi classici di ragionamento, non fino all' "automatismo psichico" o alla trance medianica, ma di certo sino all'innesco di pensieri e riflessioni possibili solamente all'interno di una comunità profondamente interconnessa: idee emergenti e, per questo, in qualche misura inconsce; e poi c'è la struttura della rubrica, fatta di contributi che si accodano man mano ad una lista a crescita infinita, che non è altro che quella del gioco surrealista, aggiornata, corretta.

Il risultato è in qualche modo un testo fatto di contributi scollati fra loro (o meno), persino contraddittori (o forse no) ma che sempre, e meglio senza intenzione, collaborano ad un'emersione di significati altri e imprevisti.

Roberto Sommatino
robertosommatino@libero.it



Progettare con i sogni

Gli edifici analizzati in coffee break, sono tutti parlanti, anzi in alcuni casi "urlanti" in un mondo dove bisogna urlare per farsi sentire. Urlare in architettura vuol dire catturare l'attenzione non solo degli esperti in materia (...troppo facile), ma delle persone comuni, quei non "addetti ai lavori" per cui i progettisti passano giorni (...e notti ...in fondo si progetta anche con i sogni!) per dare forma alle parole. (se si progetta anche sognando.... leggere un articolo di coffee break la sera è di grande aiuto).

Cristina D'angelo
archicri@kataweb.it

GLI ARCHITETTI



[con riferimento a "
Frank Owen Gehry. Luna meccanica"]



Calder e i tipi di reti

Effettivamente l'opera di Gehry ha grande forza espressiva. (architettura-scultura); e certamente si possano cogliere certe analogie tra opere come il Guggenheim di Bilbao e "Forme uniche nella continuità dello spazio". Ma esiste una sottile differenza.

Lo spazio di Boccioni è uno spazio denso. È materia viscosa, di cui ogni singolo atomo si tiene all'altro saldamente e mai si frammenta o si confonde con altri corpi ed altre sostanze. Tuttavia ciò non impedisce a due corpi di incontrarsi e relazionarsi resistendosi, sfiorandosi, penetrandosi, mettendo sempre in scena una lotta. È tutto un misurare la forza e il potere reciproci, affondando o ritirandosi, come in qualsiasi confronto. Tale sostanza ha, dunque, personalità e manifesta volontà e desiderio nel movimento. Ma un corpo che si muove incontra sempre la resistenza del corpo-atmosfera, giacché questa stessa è considerata come un'entità materiale: il dibattimento sconvolge le forme, mai la loro individualità e unità costituzionale. Sono, infatti, "forme uniche nella CONTINUITÀ dello spazio". E quest'ultimo è, dunque, la somma sintetica e interattiva di due entità in continuo movimento.
Per ciò che riguarda il Guggenheim, è indubbio che anche qui il movimento sia determinante, ma in un modo differente. Come premessa vorrei dire che l'architettura di Gehry va compresa, a mio avviso, sempre e comunque alla luce dell'anima fondamentalmente pop dell'architetto, sebbene con certe caratteristiche del tutto originali. E questo non per il fatto che egli collabori con Mr Oldenburg, tantomeno per la poetica del chepscape. Piuttosto è pop, è tutto americano, un certo modo di porsi di fronte alla realtà, che non è domandarsene l'essenza, comprenderla (come, invece, fa Boccioni), quanto piuttosto un viverla, prenderla di petto, agirla, agire. In questo senso il cheapscape si inserisce nell'attitudine a manipolare la realtà partendo dall'accettazione profonda di ciò che vediamo come fatto. Questo è utilizzare la "poverissima rete incrociata" delle recinzioni dei campi di basket (piuttosto che "dei pollai di campagna"!). Questo è accettare i rifiuti come prodotto naturale della società che viviamo, ed utilizzarli come un qualsiasi altro materiale, tanto più se economico e in grande disponibilità.

Ma tornando al Guggenheim, vorrei proporre un altro parallelo, sempre con uno scultore, ma questa volta americano: Alexander Calder. A differenza dei lavori di Boccioni, gli elementi costituenti le strutture di Calder sono sempre e comunque superfici, a volte variamente piegate (specie negli "stabiles"), altre addirittura bidimensionali. Ed il valore spaziale si coglie nel movimento della struttura: i piani, le superfici formano un volume virtuale, che è quello dell'area del movimento. Non più, dunque, la massa, per quanto stravolta dal movimento; pesante, per quanto dinamica; fatta di bronzo. Ma piuttosto lamiera sottile, per quanto deformata fino ad essere richiusa su se stessa; leggera, da sembrare piegata con le dita; a sezionare come lame l'ambiente. Lo spazio è riempito, piuttosto che pieno, di movimento, ed è definito dall'andamento delle superfici. Tutto è estremamente light, nel duplice significato di leggerezza/trasparenza. E, con questo, rimando ad un'opera di un altro artista americano, Bill Viola, chiamata "The veiling": consiste in una successione di schermi verticali paralleli di materiale traslucido, sui quali sono proiettate le immagini di due corpi. Queste ultime si tramutano in successive visioni (una per ogni schermo) di dimensioni diverse.
È figura senza peso, è un corpo sottile, è "anima luccicante".

Italia Rossi
if_rossi@hotmail.com



Cattedrali

Ho trovato molto interessante il paragone da lei suggerito tra l'enorme edificio costruito a Bilbao da Gehry e le antiche cattedrali del nord Europa edificate a partire dal XII sec. Il processo costruttivo, ma soprattutto il valore simbolico accomuna enormemente i due tipi di cantieri che ergendosi come enormi macchine polivalenti lasciano un segno indelebile nel paesaggio circostante. A tal proposito vorrei riportare qui di seguito alcuni versi tratti dal libro "Le radici delle cattedrali" di Roland Bechamann, che forse riescono a spiegare meglio il tipo di accostamento:
"Si possono menzionare città dove l'intera popolazione riusciva a stare dentro la cattedrale, e altre dove questo edificio poteva contenere più di due volte la popolazione urbana. Non bisogna dimenticare che la cattedrale serviva non soltanto la città, ma anche la regione circostante, e soprattutto che essa non era destinata semplicemente all'esercizio del culto e alla preghiera, che permettevano una forte densità per metro quadrato: sfilate, ricevimenti ufficiali, cavalcate, rappresentazioni teatrali ecc. vi avevano luogo regolarmente. Non si lesinavano inoltre le spese per questi edifici, che contribuivano al prestigio della città e dentro i quali ci si doveva trovare a proprio agio. Non vi erano vincoli di superficie da rispettare ne limiti massimi di spesa. La cattedrale, per l'ampiezza della sua superficie in rapporto alla città da servire, ha qualche analogia con gli anfiteatri e con i circhi dell'antichità, le dimensioni dei quali, rapportate a dei nuclei urbani che erano, come si è dimostrato, molto modesti, ci meravigliano ancora adesso".

Loris Rossi
lorisrossi@katamail.com



[con riferimento a "Peter Eisenman. Lotta al cubo"]



Essere tra

Per capire entro quali ambiti si muove oggi il rinnovamento dell'Architettura, ho scelto di analizzare le nuove sostanze con le quali si è misurato l'architetto americano Peter Eisenman nel concepire il progetto di una chiesa a Roma.
La sua creazione passa attraverso l'interpretazione dell'oggetto da realizzare ed il piatto si arricchisce di nuovi contributi grazie all'analisi di plastici, modelli diagrammatici (che permettono una riflessione teorica sul tema) e plastici informatici. Attualizzare il virtuale è la svolta nella nascita del progetto; vengono infatti superati i limiti geometrici e i vincoli architettonici permettendo di vedere in anticipo, oltre, superare le forme legate agli schemi nello spazio cartesiano. Grazie ai modelli informatici il progetto può essere costruito in un parallelo tra interno ed esterno che vengono modificati di continuo in un processo evolutivo quasi senza fine.
La chiesa di Eisenman nasce nella tensione verso due aspirazioni: la prima è il rapporto fra vicinanza e distanza insita nel concetto di pellegrinaggio e nell'idea dei moderni mezzi di comunicazione; la seconda è la nuova relazione fra Dio, uomo e natura.
E proprio dalla natura vengono prese le forme per simboleggiare la situazione di vicinanza e distanza. Il soggetto diventa il cristallo (simbolo di purezza, trasparenza) ed in particolare la condizione dei cristalli liquidi; essa è di sospensione (parallelismo con la situazione umana) fra il cristallo statico e lo stato liquido. La condizione di ''essere tra" propria del cristallo liquido dà la possibilità al progetto di inserirsi nel sito, quasi irrompendo dal sottosuolo, in maniera naturale, proprio secondo l'ordine delle molecole di un cristallo. I diagrammi dei cristalli liquidi sono stati studiati come possibilità di produrre deformazioni capaci di modellare gli spazi e lo spazio tra essi; in questa direzione l'architetto americano scopre le potenzialità dei vuoti che nascono tra volumi netti e volumi ripiegati.
L'uso del computer ha permesso quindi all'Architettura di andare oltre la semplice rappresentazione, offrendole un nuovo ruolo; una rinascita come occasione per inventare, scrivere, superare ancora una volta i propri limiti fisici, aderire alla complessità del mutare fenomenico zigzagando verso una nuova forma espressiva in cui lo spazio è la narrazione.

Gabriele Chieppa
brio_75@yahoo.it



[con riferimento a "Architetti In Sicilia. Percorsi dell'imprinting"]



Sicilia non finita

Mi chiedo se abbia senso parlare di Gibellina in termini architettonici come è fatto nell'articolo. A cosa serve parlare di architettura quando essa diventa simbolo del fallimento in toto di un programma che non ha voluto realmente ridare vita alle zone terremotate?
Avevano ragione i contadini del Belice: "...Completati edifici, case, scuole, chiese, centri civici, per non morire di fame dovremo trasferirci in Svizzera. Qui rimarrà il deserto con le cattedrali vuote".

Gibellina Nuova è città vittima di un terremoto metaforico; doppia beffa per i suoi abitanti, conosciuti per le opere di architettura costruite per ridare loro abitazioni e servizi, ma dei quali non si conosce la reale condizione di vita socio economica.

L'architettura di Gibellina è solo simbolica, dunque non elemento propulsore: architettura disegnata - non per niente luogo ideale per Purini -.
Voglio fare un paragone/provocazione: Gibellina come Berlino. Entrambi campi di sperimentazione linguistica dell'architettura. Peccato che le basi sociali ed economiche siano talmente differenti da non potere dare uguale giustificazione all'impegno degli architetti coinvolti. Personalmente, sono del parere che il simbolo della Nuova Gibellina sia il crollo della chiesa di Quaroni, evento che di diritto si colloca all'interno dell'anormale linea di condotta del processo post-sismico, determinato da programmi di ntervento assolutamente mediocri, che non hanno mai colto nel segno e che hanno trascurato il dato principale: l'occupazione lavorativa della popolazione residente, aspetto colto esclusivamente da Danilo Dolci, Mumford e Friedmann.
A Gibellina entriamo come si entra in un museo, quasi in silenzio, parlando a bassa voce e cercando di non fare rumore camminando. Buffo, ma proprio a Gibellina possiamo dire -finalmente!- che non esiste più il problema di come debba essere un museo, se l'architettura debba starsene buona buona per non prevaricare le opere d'arte esposte oppure emergere. Qui il museo è l'architettura...
Lei ha lasciato trasparire le personali perplessità, ma non è andato a fondo al problema del significato che possono avere opere di architettura fini a se stesse, in quanto non in uso, non curate, quasi abbandonate. Non creda che la mia sia una critica a quanto esposto, ma avrei gradito se avesse un po' più affondato il coltello, chiedendosi anche cosa abbia spinto gli architetti coinvolti a misurarsi esclusivamente in senso sperimentale, consci che le problematiche del Belice fossero ben altre che la bella e pregevole architettura di concetto.

Per chi conosce l'architettura è intrigante girare per Gibellina e venire a contatto con le diverse ricerche degli anni 70 nell'architettura italiana; gli abitanti di Gibellina non lo sanno e poco si rendono conto del perchè arrivino turisti ad osservare i loro ...nuovi ruderi.

Nuovi ruderi che in Sicilia sembrano essere di regola. A pochi chilometri da Gibellina ne troviamo uno di cui nessuno parla, probabilmente perchè aleggia ancora il fantasma di Calogero Mannino - che poi tanto fantasma non è - .

Cinque anni fa scrissi un articolo pubblicato in ANATKH, che esordiva così: "Sciacca, via Panoramica delle Terme, teatro popolare, va in scena L'Incompiuta, da un'idea di Giuseppe ed Alberto Samonà, prodotta dalla regione Sicilia, per la regia di Amministrazioni pubbliche varie (...) il teatro popolare di Sciacca non ha mai potuto esprimere se stesso se non nel suo essere "architettura incompiuta", ovvero quel qualcosa che, proprio per il suo stato di abbandono, perde ogni potenzialità, diventando oggetto deturpante".
La cosa più amara fu constatare che già nel 1982 la rivista Casabella presentava l'opera titolando
"Finalmente pronto a funzionare il teatro a doppia sala di Sciacca". Con l'autorevolezza che è propria di una rivista culturalmente presente, Casabella si macchiava di tale svista, forse non inconsapevolmente. Assolutamente ridicolo.
Credo ci sia grande affinità tra Sciacca e Gibellina.

Sciacca è esempio della "appropriazione indebita e malavitosa che dalle speculazioni in grande scala agli abusi dei piccoli attraversa per intero l'isola" , di cui Lei parla.

Io ammiro la Sua schiettezza nel descrivere la situazione del compromesso siciliano, ma sono cose che tutti sappiamo, è un'evidenza. Ciò che non emerge mai è la compromissione tra architetti, imprese, istituzioni, mafiosi. Comanda Mannino? Ok, tutti alla "bottega" - così veniva chiamato l'ufficio manniniano a Sciacca - ed i giochi erano fatti.

Paolo Ferrara
pglf@antithesi.info



Mediterraneo, Sicilia e Moderno

Seguo il naturale svolgersi delle curve della Costiera Amalfitana, quasi come segni generati dal movimento circolare delle cupole variopinte, simili a trottole di maiolica. Mare, luce, rocce chiare ed aspre, piante selvatiche, cielo azzurro e campanili coronati da volumi cilindrici, tarsie policrome, archi intrecciati, intonaco bianco, dedali di scale e scalette, passaggi voltati, collegamenti sospesi, case che sembrano germogliate dai costoni rocciosi, torri di difesa che scivolano giù verso le onde, altre, in alto, velate dalle nuvole: tutto questo rimane impresso nei miei occhi...
Come fare a dimenticare che laggiù, verso sud, oltre la distesa del mare, c'è la Sicilia? ...
Ricordo le impressioni di una sera di luglio, quando per la prima volta mi ritrovai presente nella Palermo che viveva lì, prima e senza di me, giacendo in quella che una volta poteva chiamarsi Conca d'Oro, ossequiata e difesa dalle solenni sagome dei monti che la circondano...

Uno stupore continuo e senza riserve davanti ai caldi echi d'Islam di S. Giovanni degli Eremiti e S. Cataldo, con le loro cupolette rosse e gonfie posate sulle coperture piatte, davanti a S. Giovanni dei Lebbrosi, alla Martorana, al Duomo, alla Cappella Palatina, davanti alla Zisa e al Palazzo della Cuba, coi loro volumi compatti, netti e squadrati, simili a enormi parallelepipedi di roccia appena sbozzati, mossi solo da modanature leggermente incise a formare archi ogivali di svariate dimensioni e proporzioni, come strani cerchi nell'acqua...

È purtroppo vero che , procedendo nei decenni successivi del secolo appena trascorso, la multiforme, rigogliosa, ridondante anima vitale della Sicilia non fu capace di dare all'architettura moderna di questa regione una propria autonoma fisionomia, una vera tradizione locale...

Nel desolante panorama del dopoguerra siciliano nasceva, comunque, a Palermo, la Facoltà di Architettura che sarà negli anni a seguire luogo di sperimentazione e sviluppo di nuove linee culturali, rifugio di una poliedrica sensibilità, ricettiva di esperienze nazionali ed internazionali, che riunisce "l'universale dell'architettura e la specificità siciliana".
Alberto Samonà, Vittorio Gregotti, Gino Pollini, Pierluigi Nicolin: sono solo alcune delle personalità che hanno guidato la Sicilia in un'infaticabile, continua ricerca di una propria identità architettonica, certamente non favorita dal difficile contesto ambientale.
Non fatemi parlare di speculazione edilizia, abusivismo, mafia...
Voglio ancora vedere l'imprinting di cui parla Antonino Saggio, voglio ancora riconoscere nelle opere dell'architettura contemporanea quella Sicilia che "ha conosciuto il posarsi delle costruzioni greche" usando "il mare come sfondo e la luce come materia" e che "cerca l'architettura come inno al cielo"...

È proprio nel rapporto tra architettura e paesaggio (così differente dal modo di sentire del Nord sempre teso a dominare la natura, ad imporsi come creazione ex novo) ed architettura e città, nodo cruciale dei dibattiti del neorazionalismo italiano, che la Sicilia ritrova oggi la sua personalissima dimensione, fatta di Mediterraneo e di Storia, ma allo stesso tempo molto distante dai paralleli sviluppi del panorama italiano...

Rientrano in questo quadro, denso di suggestioni internazionali, le opere di Pasquale Culotta e Giuseppe Leone, esponenti della "scuola di Cefalù", realizzate nella suddetta città, sia lungo l'asse di espansione che nel centro antico, facendone un vero e proprio laboratorio, assimilabile alla Urbino di Giancarlo De Carlo. Ritroviamo in questi interventi un costante bilanciamento tra le nuove realizzazioni e le preesistenze, ottenuto mediante suture sempre chiare e decise, ma mai esasperate, volte a valorizzare i percorsi pedonali, i camminamenti, gli spazi vitali: piccoli progetti integrati nelle strutture originarie, tasselli perfettamente incastrati nei frammenti di epoca anteriore, passerelle, scale, attraversamenti, capovolgimento del rapporto tra pieni e vuoti, volumi puri, edifici ricavati da un unico blocco di materia, in cui l'intonaco assume valenza di abito totale ed il colore diventa parte costitutiva del progetto. Anche nelle opere di Marcello Panzarella, sempre a Cefalù, ritroviamo lo stesso riguardo per la connessione alla città e per le strategie di collegamento, insieme all'intento di orientare l'attenzione del passante verso un interno architettonico da riscoprire. Gli stessi temi sono affrontati in altre produzioni siciliane, come, ad esempio nella villa progettata da Tilde Marra a Lampedusa. Esiste, infatti, un filo conduttore che comincia a delineare un nuovo stile mediterraneo, nato nella terra siciliana e vibrante di influssi internazionali, improntato ad "una monomatericità colorata, una interpretazione mistica di costruzione come scultura abitata", ad un "riannodarsi all'esistente senza rigidezze geometriche e planimetriche", assecondando "la libertà degli edifici nel contatto con il cielo e il loro profondo radicarsi nel suolo irregolare", senza mai indugiare in "una assialità, una facile simmetria, un gratuito formalismo" (A. Saggio).

Paola Ruotolo
p.ruotolo@eartmagazine.com

LE IDEE



[con riferimento a "Il coraggio di aprirsi"]



Comunicazione possibile

Alcune persone pensano che basta avere uno strumento che "fabbrica informazione" per avere potere, alcune persone pensano che basta leggere un giornale per avere "informazioni", alcune persone pensano che basta avere internet nella propria casa per avere informazioni, alcune persone pensano che basta avere la propria home page per dare informazioni, alcune persone pensano che basta stare seduti davanti ad un televisore per capire cosa succede nel mondo.
Ma l'informazione è comunicazione, e la comunicazione è una "scienza".
Per "vendere" le proprie informazioni bisogna saperle comunicare. Non puoi essere un buon politico se sei muto.
La migliore informazione è quella che arriva dritta allo scopo. La migliore informazione ha la migliore estetica, quando per estetica s'intende la forma più corretta per comunicare una determinata informazione.
Anche l'architettura ha bisogno di una corretta informazione da comunicare. Che cosa comunicano gli architetti moderni? Quali sono le strade per dare la giusta informazione architettonica alla nostra società?
Per l'architettura moderna, l'informazione si è trasformata da un'estetica razionale, finalizzata dalla praticità dell'oggetto architettonico, ad un'estetica "economica", vale a dire finalizzata alla creazione di una macchina che a sua volta produce nuove informazioni.
Trovare un'unica espressione comunicativa potrebbe portare ad un appiattimento delle informazioni con un'omogeneizzazione dell'estetica portandoci ad un "think same".

Luigi Valente
pento@pulpit.it



Adesione intellettuale

Potremmo sempre allinearci all'idea di un viaggio a Sidney o a Bilbao per tornare poi a vivere tra le nostre preziose memorie e convincerci che, per sentirsi parte di questa collettività laica capace di erigere le "nuove cattedrali", è sufficiente un'adesione intellettuale.

Laura Pedata
laurapedata@libero.it



La Sindrome di Salieri

A poche centinaia di metri dalla Facoltà di Architettura di Roma viene oggi (21/4/2002) inaugurato il nuovo auditorium progettato da un architetto conosciuto in tutto il mondo tranne che nella nostra facoltà (al di fuori di qualche sporadica invettiva).
Qualche giorno fa Curzio Maltese ha definito molto felicemente questo atteggiamento, quello di coloro che storcono il naso per un Nobel a Fo o un Oscar a Benigni, come "sindrome di Salieri".
Non una lezione, non il coraggio di esporsi per delle critiche, semplicemente il nulla.
Non c'è da stupirsi vista la quasi nullità di opere realizzate da coloro che oggi preparano i futuri architetti; ma c'è da chiedersi come sia possibile che nessuno si renda conto che, in uno stagno di acqua immobile da decenni, l'auditorium rappresenti un sasso lanciato, volumi e non parole, che non potranno che essere una grande occasione per tutti, l'inizio di una nuova stagione.
Non ho mai visto tante pagine di giornali e riviste parlare di architettura, grandi architetti, da Nouvel a Rogers, da Fuksas a Purini, che parlano con toni entusiastici dell'opera, il maestro Chung che dopo la prova generale abbraccia il progettista, e i luminari della nostra facoltà che non se lo filano...
Non ce la facevo proprio a tacere.
Visite al cantiere con il contagocce, lezioni manco a parlarne. Ho avuto l'occasione di visitare il cantiere tre volte ed oggi andrò all'inaugurazione, ho allungato tante volte la strada per andare a casa per passare da corso Francia e poter sbirciare qualche cosa, e in facoltà...il silenzio.
Penso che Renzo Piano faticherà molto meno a vincere concorsi in tutto il mondo che ad essere accettato nell'ambito universitario; spero che alla fine ce la possa fare, il contrario sarebbe un delitto.

Emanuele Aronne
ema4saggio@tiscali.it



[con riferimento a "
Affioramenti"]



Costruzioni della Mente

Ho letto "Affioramenti", suggestivo non solo nel titolo ma anche soprattutto per i concetti illustrati e le evocazioni che suggerisce in chi si occupa prevalentemente di architettura della mente.
C'è la possibilità, infatti, procedendo per via di metafora, di trovare intensi legami tra quanto lei ha scritto e quello che sostiene la teoresi psicoanalitica, denominata spesso anche "psicologia del profondo". Freud ha spesso usato metafore di varia natura per illustrare le sue intuizioni: piuttosto famosa è forse quella che associa il lavoro dello psicoanalista a quello dell'archeologo, entrambi impegnati nel far affiorare attraverso stratificazioni sovrapposte i "tesori" lì sotto sepolti. Il loro lavoro procede dall'alto, ma questo vuol dire che il paesaggio si è andato costruendo attraverso un procedimento inverso, e cioè dal basso.
Ancora, sempre lui, Freud, suggeriva di vedere il nostro spazio mentale come una casa a più piani: nei piani alti abitano le nostre migliori intenzioni, la rappresentazione di noi più accettabile, il nostro agire e il nostro desiderare che ci spingono alle cose egregie, anche alla astrazione che produce contributi alla teoria scientifica, o che fa comporre versi. Questi abitatori dei piani alti si comportano come quei ricchi, o nobili, che disdegnano i parenti poveri, maleducati, caciaroni... che però abitano la stessa casa, solo che stanno ai piani bassi, nei sottoscala, nello scantinato. Sono parenti, seppure alla lontana.
Sono forse un po' troppo abituato a pensare in termini topologici tali da farmi considerare naturale la collocazione del desiderio nel basso. Forse sono anche un po' troppo abituato a considerare (e in maniera decisamente antiromantica) l'espressione "desiderio" come complessa, vale a dire come una costellazione che include una stratificazione che procede dai "bisogni" (gli elementi più in "basso"), dagli istinti, dalle pulsioni, fino ai desideri più "alti", le aspirazioni di realizzazione attraverso comportamenti etici. In fondo, che tra fratelli ci possa essere invidia è piuttosto naturale; che questa invidia possa essere alimentata da odio e possa produrre fantasie omicide, lo è ugualmente; che possa avere spazio nella mente il desiderio di sottrarre spazio all'altro e di conquistarlo solo per sé, è alla base del desiderio di fare guerra (quante volte definite fratricide). Ma fortunatamente questi elementi mentali non producono sempre o solo distruzione: la loro trasformazione produce costruzioni.
La trasformazione degli elementi del basso presuppone un procedimento fluido, un produrre water front, soglie liquide mobili, non stagnanti, che possano far affiorare (a volte di più, a volte di meno) la loro presenza, unica speranza che io credo abbiamo per poterli controllare: l'orografia è una, anche se molte montagne (ricorda la metafora dell'iceberg?) stanno sott'acqua.

Eugenio Tescione
eugetes@posta2000.com



Krisis

"Affioramenti", soprattutto nella prima parte, mi ha regalato attimi di serenità interiore e di leggerezza. Multimedialità esasperata e performances virtuali sembrano diventati, forzatamente, i nuovi lari della architettura: la certezza che la Crisi è solo apparente (il concetto di krisis contiene in sé già il suo superamento avendone raggiunto l'acme) mi è stata data anche dalle sue riflessioni sui progetti di Eisenman e Tschumi. Disegnare e segnare attraverso le cose che ri-affiorano mi sembra atto di grande sensibilità.

Raffaele Cutillo
cutillo@ofca.net



Fuzzy Architecture

Mi capita spesso di addentrarmi in due mondi apparentemente lontani dal mio, la psicologia e la chimica, dove la ricerca e la sperimentazione si spingono in territori suggestivi... per me due piatti da cui attingere incessantemente concetti da ibridare con il mondo dell'architettura e del progetto.
Comincio dal mare magnum dei "legami deboli" o "fuzzy knowledge" o "loose coupling", che partendo dalla bio-chimica investe i campi dell'economia, della sociologia, fino alla neurobiologia e alla psicologia appunto, tema che può offrire anche a noi architetti un nuovo paradigma, un nuovo alfabeto, essendo per sua natura concettuale un tema "liquido", complesso e "stratificato", estremamente adatto a rappresentare e ad aderire al mondo contemporaneo in continua e instancabile evoluzione e interazione. L'epistemologia della scienza, nel suo significato più ampio, va in questa direzione.
Provo ad essere più esplicita e a far capire perché la teoria dei "legami deboli" ci offre oggi un forte aggancio sia dal punto di vista concettuale sia per i possibili esiti formali e spaziali.
In chimica da un singolo atomo si possono creare tantissimi aggregati di atomi dette molecole. Ma la struttura molecolare, e anche la sua forma, è influenzata dal tipo di legame che si è instaurato tra i singoli atomi della molecola, che a sua volta influenza la struttura e la geometria tra le molecole stesse e quindi di tutto il reticolo cristallino. Questo tipo di legami non è fisso, prevedibile e non è strutturato a priori ma molto flessibile, pur dando vita a elementi definiti; faccio un esempio: prendiamo dell'acqua... tra le sue molecole non c'è una struttura reciproca fissa e specifica, ci sono legami mobili non perfettamente strutturati, non "chiusi", e in ragione di tutta una serie di variabili esse si spostano si assemblano si trasformano con facilità, ma alla fine l'elemento a cui danno origine è sempre acqua, cioè un elemento preciso e identificabile. Così come, detto in parole povere, anche i due fili del DNA sono tenuti insieme da legami deboli. Durante la divisione delle cellule la molecola del DNA si svolge ed i legami deboli fra gli accoppiamenti si rompono, permettendo che i fili si separino, dando vita alla sequenza genetica di un nuovo organismo. [...]

Antonia Marmo
antonia.mar@katamail.com



[con riferimento a "Il Vuotometrico. Architettura dello spazio"]



Autostrade virtuali

La realtà contemporanea è sempre più caratterizzata da due tipi di "rete", quella dei trasporti e quella delle telecomunicazioni. La relazione tra fra le due è forte. Infatti, il linguaggio del mondo informatico fa uso continuo di analogie con il mondo dei trasporti: si "naviga" su Internet, si visitano dei "siti" in Rete.
L'architettura da sempre si è dovuta relazionare con la prima e negli ultimi anni abbiamo dei tentativi di relazione anche con la seconda.
Un esperimento di grande interesse e quello illustrato da Felix Arranz nel articolo: "Algo pasa en la arquitectura... CONTEXTOS VIRTUALES Y ARQUITECTURA CONTEMPORÁNEA", in cui descrive come si può realizzare un angolo virtuale all'interno delle nostre case, sovrapponendo alle pareti due schermi che proiettano di volta in volta immagini differenti.
In futuro, forse, potremo scegliere di abitare in qualunque parte del mondo poiché essere al centro di una rete di connessione dipenderà non più soltanto da dove ci troviamo fisicamente, ma soprattutto dal nostro potenziale informatico di connessione e comunicazione.

Natale Gencarelli
natgenc@hotmail.com



[con riferimento a "
Spazi nuovi"]



Potenziale

Penso alla Land art che trova un rapporto diverso facendo dello spazio un supporto e un soggetto delle nuove forme di invenzione artistica. Per la sua stessa natura effimera infatti apre le porte all'idea di intervento nello spazio come "esperienza", non solo spazio "naturale" di vallate e montagne, ma anche spazio urbano: basti pensare all'intervento di Christo al Parlamento di Berlino, rivestito con chilometri di stoffa o alla Torre del Vento di Toyo Ito dove ogni impulso esterno è trasformato tramite impulsi elettrici in luce diversa. Ma stessa cosa si può dire degli interventi sul paesaggio e prendo come esempio uno stage che mi è capitato di fare in Francia dal titolo "lire et écrire l'espace", che mi ha principalmente portato a vedere lo spazio non solo come costruito, ma come infinita possibilità di intervento.

Alessia Roselli
alrosel@tiscali.it



Evoluzione dinamica

L'evoluzione non-lineare, sembra, ormai, caratterizzare il nostro presente, e quindi il nostro futuro, e in questo gioca un ruolo determinante l'informatica.
Per molte delle metropoli contemporanee non è possibile costruire un sistema di controllo e di previsione e nemmeno procedere per stati di equilibrio. Il sistema è dinamico e l'equilibrio non è più concepibile.
In relazione ai sistemi dinamici per descrivere il caos delle realtà metropolitane contemporanee, riporto un passo che mi sembra molto lucido tratto da: Geografia Urbana, B. Cori, G. Corna Pellegrini, G. Dematteis, P. Pierotti, UTET Torino, 1993, pag 114.

"La città può essere pensata come un ecosistema (in generale un ecosistema è un insieme di popolazioni vegetali e animali e delle relazioni che questi hanno fra loro e con le componenti fisico-energetiche dell'ambiente in cui vivono. Tali relazioni si concretizzano in flussi di materia, energia, informazioni che , collegando i vari elementi del sistema, realizzano l'organizzazione del sistema e ne determinano il grado si stabilità) solo se teniamo presente un suo carattere fondamentale, che la distingue dalla maggior parte degli ecosistemi naturali: quello di essere un sistema aperto, in costante squilibrio energetico con l'ambiente esterno... Oggi ogni ecosistema urbano ha come suo ambiente esterno l'intero pianeta, e ciò spiega perché non esistono più limiti alla crescita dimensionale della città. Non solo, ma è proprio il continuo superamento dei vecchi limiti che rende la città un sistema sempre più energivoro."

In questo contesto l'architettura viene contaminata da segni che sfuggono alla codificazione tradizionale e all'evoluzione lineare e analitica tipica del movimento moderno. Questi segni sono strettamente connessi alla modalità dell'agire nomade, cioè un agire privo di controllo, che segue un'evoluzione non-lineare e che necessita di un nuovo linguaggio per essere descritto.

Natale Gencarelli
natgenc@hotmail.com



[con riferimento a "La via dei simboli"]



Concatenazioni emozionali

L'architettura contemporanea, partendo da un certo modernismo e postmodernismo, sempre più rifiutandone la maniera, demotivata e occludente, sta divagando in tutte le direzioni della differenzialità.
È un'architettura "multiculturale" che, attraverso una sofisticazione degli strumenti culturali e tecnici, mostra i disagi ambientali, gli spaesamenti, le incertezze di identità della società in cui vive.
L'architettura si sta mettendo a disposizione del caos.
La paura profetizzata da Victor Hugo, quando temeva che il libro distruggesse il ruolo dell'architettura, sembra essere stata esorcizzata, come una nuova cattedrale gotica, ricca di simboli e sublime stupore, essa è risorta dalle sue ceneri, incarnandosi e vestendosi di "comunicazione", per palesare il nuovo sentire comune.
Oggi l'architettura contemporanea, mentre ripercorre con maggiore proprietà e adeguatezza tecnologica le astrazioni, semplificazioni, ancora prevalentemente stilistiche del razionalismo e di altre tendenze del movimento moderno, sta affrontando un'inedita fase di sperimentazione innovativa, che è in rapporto con la terza rivoluzione industriale, ma più esattamente con le novità tecnico- scientifiche dell'elettronica, del controllo delle condizioni ambientali, delle ingegnerie biologiche e genetiche, dello sviluppo dell'informazione.
Le tematiche dell'androide o del cyborg, nipote di Frankenstein, estremizzano quella che è soprattutto una mutazione antropologica.
Il corpo dell'architettura si modifica per seguire le radicali evoluzioni dell'uomo contemporaneo.
I nuovi maestri come Peter Eisemann, Daniel Libeskind, Zaha Hadid, hanno in comune una visione della città contemporanea lontana, e, forse, più realistica di quella armonica e ordinata immaginata dai padri razionalisti, e ad essa contrappongono una città mutante, in continua evoluzione, contraddittoria ed emblematica, ove " creature simboliche" mostrano il sistema delle artificiosità emozionali del loro tempo.
Le risposte in tale direzione non vengono date utilizzando schemi e categorie prefissate, espressione di un determinato potere politico, ma confrontando categorie di qualcosa di indefinito, di vago, di nuovo.
La nuova architettura non si pone come modello di comportamento, non promette paradisi artificiali ma, dialettizzando il conflitto tra romantiche nostalgie e ironie contemporanee, diviene il luogo in cui l'immaginario collettivo può scatenarsi, farsi sentire.
Si va contro l'ordine centrato, grigliato, naturale o macchinista, si cerca lo sgretolato, l'anomalo, non tanto per creare inquietudine ma, per liberare il differente regime dell'immaginario in una rete relazionale aleatoria che esclude lo sviluppo di una manualistica per tipi e modelli.
L'architettura si libera dalla pretesa di proporre un modello totalizzante e può nuovamente dispiegare comportamenti plurali e concatenazioni comunicazionali.

Alessandra Ciccotti
ciccottandra@libero.it



Tre tipi di Simbolo

L'architettura contemporanea è simbolo.
Il significato di simbolo in architettura può essere, a mio parere, inteso con diverse accezioni:

a.. Il simbolo può essere un messaggio celato da metafora. Una metafora costituita da elementi architettonici che richiamano alla mente immagini e idee che costituiscono il messaggio implicito e interpretabile dall'osservatore, che è quello che il progettista vuole trasmettere. Un esempio di questo concetto di simbolo come metafora può essere rilevato nello "Yad Layeled" Museum Kibbutz Lohaniemei Ha' Getaot (Arch. Rami Karmi) dove la spirale che si vede nell'immagine sottostante rappresenta un vortice oscuro (l'Olocausto) la cui risalita consente di raggiungere la luce centrale.

a.. Il simbolo può essere un esplicito messaggio pubblicitario che diviene parte integrante dell'opera architettonica. A questo proposito riporto uno dei tantissimi esempi di architetture di questo tipo che caratterizzano la nostra epoca dell'informazione: la sede centrale della McDonald's di Helsinki ( Arch. Mikko Heikkinen, Markku Komonen).

a.. Il simbolo può essere la monumentale architettura rappresentativa di una città, come nei casi, ampliamente illustrati nel suo articolo, del Guggenheim o dell'Opera House.

Marina Lo Re
marina.elle@tin.it



Matrice iniziale

Se i maestri del movimento moderno hanno realizzato delle architetture funzionali capaci di rappresentare il mondo industriale, gli architetti odierni vogliono confrontarsi con il mondo informatico, che domina quest'epoca.
Viviamo in un periodo di grande trasformazione dove l'architettura sente l'esigenza di rinnovamento, in un'epoca in cui la comunicazione gioca un ruolo di protagonista in tutti i settori.
Nella battaglia tra architettura tradizionale e d'avanguardia i protagonisti risolutivi sono stati gli architetti del movimento moderno, che pur vivendo in un determinato contesto culturale sono riusciti a promuoverne uno nuovo, frutto di una ricerca alternativa che ha dato un nuovo aspetto all'architettura.
Gli architetti di oggi attraverso le loro opere vogliono suscitare emozioni e stabilire un dialogo con le persone. Per rispondere a questa nuova esigenza di "comunicazione" si recupera l'idea simbolica dell'opera, abolita in precedenza dai maestri del movimento moderno. Viene recuperato il "simbolo" che ha finalità diverse rispetto al passato, non più valore rappresentativo del potere religioso o politico ma mezzo di narrazione dell'artista.
In questo rinnovamento diventa sempre più importante il ruolo che assume l'informatica, in principio come strumento di progettazione fino ad arrivare ad oggi dove è la matrice iniziale dell' idea progettuale.
L'architettura e l'informatica si fondono in un'unica arte e diventano il mezzo attraverso il quale l'artista comunica.

Roberta Mililli
robertamililli@tiscali.it


Nuova vocazione

Una "nuova vocazione" dell'oggetto architettonico? È un desiderio di trascendere dalla materia e dalla funzione? È una volontà di essere e poter dire? L'edificio che racconta, che emoziona, che nel suo volere apparentemente emancipare da se stesso l'osservatore, lo condiziona con la sua forte identità, diventando osservatore esso stesso...cito due immagini esemplari: il Museo Surralves a Porto e la Escuela de Perodismo a Santiago de Compostela, di Alvaro Siza, che sorprendono, perché nascoste in un linguaggio apparentemente diverso ma che rende più vero e radicato questo atteggiamento.
Le persone vengono incanalate, a loro insaputa, ignare di appartenere alla composizione architettonica, ignare di interagire e, perché no, di modellare il volume con il loro camminare: inizia la narrazione, con un largo incipit e uno scambio di ruoli tra osservatore e architettura. Un percorso catartico, immagini che si appellano alla memoria e ci danno continui riferimenti ad altro. Ma tutto pian piano viene svelato. Lo spazio interno nasconde, dietro la sua pensabile entropia, una volontà a rompere la scatola...crea ponti con l'esterno attraverso dei muri che piegano e occhi che aggettano ad inquadrare qualcosa [...]

Debora Carbini
debee_@hotmail.com



SimbolicoSimbolo

È attraverso l'uso di simboli (simbolismo) che si ottiene un'architettura simbolica (riferita al simbolo)?
Probabilmente nel caso di Utzon l'operazione sembra riuscita, un'architettura contenente simboli diventa un simbolo.
Sicuramente non è sempre così.
Prendendo in considerazione le due opere di Renzo Piano citate nell'articolo, ritengo che il Beaubourg possa essere considerato un edificio simbolico, mentre il Museo di Amsterdam un'architettura simbolista.
Il primo riesce a incarnare la natura tecnocratica degli anni settanta (ne è simbolo), senza l'uso di elementi metaforici.
Il Museo della Scienza usa il simbolo della nave per cogliere i fermenti del porto, "...da sempre deputato allo scambio delle merci diventa luogo di rapporto virtuale, esperenziale e sociale" (Elisa Ossino, L'Arca, 121, dicembre 1997), ma non è un simbolo.

Mauro Rossi
mauro.rossi@tiberweb.com



[con riferimento a "Dalla terra al CAD"]



Rapa calcolatore

Il calcolatore è sicuramente la rapa del nostro secolo, ma tanto il primo come il secondo denunciano più il bisogno di informare o di essere informati?
I modelli lignei di Michelangiolo prima di servire ai mastri costruttori non erano forse necessari allo stesso Buonarroti per aiutarsi a esprimere le sue idee?
Quando eseguiamo una modellazione siamo noi che valutiamo quali siano le viste da mostrare per controllare i punti significativi del nostro progetto o per una verifica dello spazio progettato.

Andrea Di Laurenzio
andreo@tiscalinet.it



Strutture gerarchiche

Ecco cosa intendo, quando trovandomi a parlare di architettura, il più delle volte il mio sguardo si rivolge in altri tipi di fonti. Le strutture gerarchiche le avrei senz'altro potute spiegare con una mia descrizione, ma anche in questo caso preferisco riferirmi a un testo esistente, e precisamente alle "affinità elettive" scritto da W. Goethe.
Nella parte dedicata al prologo è lo stesso Solger che dimostra la totale comprensione del romanzo. Egli ammira come "estremamente ingegnoso" il modo con cui i personaggi vengono contrapposti tra loro solo in gruppi, mentre poi i componenti di ogni gruppo sono l'un l'altro non poco affini, pur distinguendosi tra loro in maniera così ampia, così sicura, così conseguente che "anche in queste loro diversità sembrano genialmente divisi in sottogruppi". Ammette che "qualche volta i personaggi sembrano agire più per volontà dell'autore e specialmente ai fini della situazione da crearsi, che non per se stessi e in obbedienza alla loro intima natura".

Loris Rossi
lorisrossi@katamail.com



Disegnare

Riporto un brano della premessa di Bruno Zevi in "Rinascimento e manierismo. Controstoria dell'architettura in italia", Enciclopedia Tascabile, Tascabili Economici Newton, 1995:

"È l'età della prospettiva, scoperta deleteria poiché, al posto della realtà vissuta, pone come obiettivo la sua rappresentazione tridimensionale. Da quel momento, a parte i trasgressivi, gli architetti non pensano più agli spazi, ai volumi, agli snodi e ai percorsi, ma solo al modo di graficizzarli. Per facilitare tale compito, impoveriscono la loro strumentazione, geometrizzano, mortificano l'edificio in uno scatolone. Impera da allora l'assolutismo sadico del disegno, che provoca una strage professionale: migliaia e migliaia di persone dotate rinunciano a fare gli architetti perché "non sanno disegnare", mentre a quelli che sanno disegnare dovrebbe essere precluso l'accesso alle facoltà di architettura."

Questo brano di Zevi può, a mio avviso, essere attualizzato e descrivere appieno il difficile rapporto tra architettura e informatica. Si potrebbe affermare che troppo spesso, purtroppo, molti architetti non pensano più all'architettura "reale" ma solo a quella "virtuale". Troppo spesso oggi nelle fascinose rappresentazioni elettroniche dei progetti si sacrificano l'architettura e i suoi contenuti reali.

Michele Lisena
mlisena@inwind.it



Liberare l'anima

Da Pietro Abelardo (Dialectica, prima metà del XII sec.) a Leon Battista Alberti ("De Re Aedificatoria", forse 1445-1450) a Raffaello ("Lettera a Baldassarre Castiglione", 1515), la natura mentale del progetto non è mai stata posta in dubbio.
Quello su cui è possibile discutere è la tecnica di restituzione dell'idea architettonica, da sempre influenzata dalla "maniera cognitiva" (cioè dal modo di pensare) proprio d'una data cultura, e che a sua volta determina il risultato architettonico. Da Vitruvio ("De Architectura", ultimo quarto del I sec. a.C.), per tutto il medioevo, e rimanendo agli esempi citati, per l'Alberti ("De Re Aedificatoria") e Raffaello ("Lettera a Leone X", 1519, scritta con Baldassarre Castiglione), la rappresentazione dell'idea architettonica era affidata principalmente a disegni di piante, sezioni, prospetti. D'altronde la maniera cognitiva diffusa nell'Europa occidentale sino a buona parte del XX sec., è stata dominata dai concetti aprioristici di orizzontalità, verticalità, perpendicolarità.

MICHELANGELO, dall'interno del modello rinascimentale, opera una prima importante RIVOLUZIONE: pur accettando per buoni programmi celebrativi, un'idea di visione monocentrica, forme di comunicazione figurative, modelli urbani chiusi e sistemi di costruzione continui, riesce a percepire la complessità della realtà e la crisi di valori che attraversa la cultura del suo tempo. E cerca nuovi parametri di comprensione del reale: alla presunzione delle regole di natura, immutabili e intelligibili, sostituisce la consapevolezza della mutevolezza della realtà vivente, della distanza della realtà materiale dalla perfezione, della dignità e della potenza espressiva di ciò che non è come gli altri avrebbero voluto che fosse. L'architettura diventa espressione d'uno stato dell'anima, che interpreta la vita vissuta come dramma. Michelangelo riesce, come Cezanne, a rappresentare per paradosso, attraverso la mutevolezza, l'essenza delle cose (vedi i "Prigioni" del 1530-34).

Il neoplatonismo non rappresenta una via di fuga, ma la percezione chiara e distinta della preminenza dell'idea non solo sulla funzione, ma anche sulla forma (vedi il tema del "non finito"). Non importa lo studio dei tipi, né la sostituzione delle regole imperanti con altre: da questo punto di vista la rivoluzione michelangiolesca è superiore a quella tentata da Victor Horta col suo nuovo stile.

È a Michelangelo che si devono i processi mentali da cui scaturiscono le architetture-sculture di Gehry: Buonarroti stesso riteneva di essere nato per la scultura; e se credeva che "la pittura mi pare più tenuta buona quanto più va verso il rilievo" ("Lettera a Benedetto Varchi", 1546), probabilmente doveva pensare lo stesso per l'architettura (poiché "la pittura, e l'architettura e la scultura trovano nel disegno la loro sommità"; Francisco De Hollanda, Dialoghi romani con Michelangelo, 1548).

Quello che Michelangelo possedeva, e che nessun modello elettronico potrà mai riprodurre, è la capacità di "cogliere" idee: nel proprio cervello, o meglio, nella propria Anima.

Massimo Fanasca
maximo@mclink.it



Input e nuovi paradigmi

Oggi siamo sicuramente appartenenti a una epoca di mezzo, ove gli aspetti di crisi, di slancio verso la modernità e di rigurgiti passatisti, imperniano il modo di fare e di essere dell'attività umana.
Risulta chiaro che ogni epoca è stata interessata dall'affermarsi di un proprio paradigma tecnico-economico che "propone" ripercussioni più o meno puntuali, dal modo di sviluppare i rapporti economici, dal modo di concepire l'espansione della città, al modo di intendere e di fare architettura.
Illuminante per capire l'evoluzione della tecnologia e l'influenza che questa ha avuto sul mondo in tutti i suoi campi, sono gli scritti di Enrico Ciciotti che in un libro " Competitività e territorio" fa chiarezza sui caratteri dominanti e gli input che hanno caratterizzato i vari paradigmi nel mondo cosiddetto contemporaneo, in un arco temporale che parte dalla fine del 1700 per giungere fino ad oggi.
1. 1770-1840 PRIMA MECCANIZZAZIONE: Input principali sono stati ferro ed energia.
2. 1830-1890 FERROVIE (VAPORE) : Input principali sono il carbone ed i trasporti.
3. 1880-1940 INDUSTRIA PESANTE : Input principali sono il vapore e l'acciaio.
4. 1930-1980 PRODUZIONE DI MASSA : Input principali sono l'elettricità ed il petrolio.
1970-... TECNOLOGIE DELL'INFORMAZIONE : Input principale è la microelettronica ove le informazioni hanno un carattere rilevante come input, e la produzione assume sempre di più aspetti di DEMATERIALIZZAZIONE.

Antonio Castelluccio
antcastelluccio@libero.it



[con riferimento a "La rivoluzione informatica"]



La stiratura e le nuove pieghe della mente

La stiratura può essere vista come metafora dei cambiamenti antropologici della nostra società.
Rispolverando le stanze della memoria mi sono ricordata di questa installazione datata 1993 ad opera degli architetti Liz Diller e Ricardo Scofidio.
Mi sembrava interessante l'idea di come un oggetto, la camicia, e il suo uso all'interno della quotidianità, potesse ben rappresentare i cambiamenti della nuova sociètà contemporanea, che rifuggono ogni schema pre-ordinato, prestabilito volgendo lo sguardo al caos, alla casualità, all'interattività di differenti livelli che abbracciano campo dello scibile.
L'antica scacchiera metropolitana, trasposizione nel contesto urbano, dei rigidi formalismi della città industriale, lascia il posto alla era delle informazioni, degli ipertesti, della tecnologia nuova.
Si attua una nuova lettura delle facoltà percettive e motorie del corpo umano, l'esplorazione di nuovi linguaggi espressivi, l'ampliamento della libertà di azione.
Bad Press prende in esame la stiratura, un'attività domestica ancora guidata da principi di economia del movimento progettata da ingegneri dell'efficienza a cavallo del secolo.
Nello stirare una camicia, ad esempio, con uno sforzo minimo è possibile ridarle forma trasformandola in un'unità bidimensionale e ripetitiva che occuperà uno spazio ridotto.
Lo schema standardizzato della stiratura "disciplina" sempre la camicia dandole forma piatta e rettangolare che trova il proprio posto all'interno di sistemi ortogonali di esposizione degli oggetti: gli imballaggi, i display espositivi, i cassetti del comò, gli scaffali degli armadi o le valigie.
Una volta che l'indumento sarà indossato porterà su di se i segni della logica ortogonale dell'efficienza.
Le pieghe parallele, gli angoli retti di una camicia pulita e stirata sono diventati emblemi ricercati di raffinatezza.
Cosa succederebbe se l'attività di stiratura si potesse liberare dell'estetica dell'efficienza? Forse gli effetti della stiratura diventerebbero rappresentazione dell'era postindustriale e l'immagine del funzionale si tradurrebbe in dis-funzionale.

Alessandra Ciccotti
ciccottandra@libero.it



Nuovi domini

Premessa. Sin da quando ero una "matricola" ho sempre pensato che l'architettura non potesse fare nette distinzioni tra spazio, uomo e natura, e che progettare un edificio o una piazza significasse per questo una simultaneità di considerazioni e un rincorrersi di temi mai contemporaneamente afferrabili; ero quindi convinto che "fare" architettura avesse una sorta di responsabilità sociale, estesa ben oltre i limiti della disciplina. Quell'idea, confusa e a volte paralizzante di cui avvertivo il grande "peso" (inteso come "fatica" e non certo come "importanza"), prende oggi, con l'IT, nuovi e inattesi significati che rendono il tutto maggiormente complesso ma che forniscono anche gli strumenti per governare i nuovi fatti. E i nuovi accadimenti da cui voglio partire per "parlare d'architettura" riguardano proprio il rapporto tra lo spazio, l'uomo e la natura. [...]

Roberto Sommatino
robertosommatino@libero.it



Profezia

Le nostre città saranno invase da migliaia di "mostri metropolitani"?
Le gerarchie scompariranno e la struttura piramidale della società e dell' architettura muteranno in una struttura orizzontale, rizomatica, simile alla Rete?
Viviamo in una società dove la parola chiave è Globalizzazione, le nuove tecnologie corrono così veloci che nemmeno gli addetti ai lavori riescono a stargli dietro.
L'architettura riflette e dopo Bilbao cerca lentamente di rifondarsi, o almeno cerca di capire cosa gli sta succedendo.
La rivoluzione informatica è inarrestabile, sostengono alcuni, bisogna cavalcarla per non rimanere indietro, cercare di intuirne le traiettorie per non restare spiazzati e entrare vincitori in questo terzo millennio già avviato.
Uno dei nodi centrali è costituito dal rapporto tra architettura e Potere (politico, economico, sociale), argomento spinoso se consideriamo quanto Internet stesso sia rappresentativo di un paradosso di dimensioni monumentali: portatrice di un ideale anarchico e sovversivo, ma anche spettro di un Grande Fratello latente.
Lo sviluppo della nuova architettura non può prescindere dalla capacità di metabolizzare l'orizzontalità della rete, la sua potenzialità rizomatica. Appare pienamente condivisibile, in quest'ottica, l'orientamento levyniano per "un'architettura senza fondamenta, come quella delle imbarcazioni [...] l'architettura dell' esodo fa crescere un cosmo nomade tra universi di segni in espansione [ ...] Lungi dall' istituire un teatro della rappresentazione, l'architettura del futuro assembla zattere di icone per attraversare il caos .[...] traducendo il pensiero plurale, essa erige palazzi sonori, città di voci e canti, istantanei, luminosi e mobili come fiamme." (da Pierre Levy, L'intelligenza collettiva. Per una antropologia del Cyberspazio. Feltrinelli 1996).

Natale Gencarelli
natgenc@hotmail.com



Il Quarto Elemento

"Tre cose in ciascuna fabrica -come dice Vitruvio- deono considerarsi, senza le quali niun edificio meriterà esser lodato: e queste sono l'utile o comodità, la perpetuità e la bellezza. Percioché non si potrebbe chiamare perfetta quell'opera che utile fusse ma per poco tempo, overo che per molto non fusse comoda, overo, ch'avendo amendue queste, niuna grazia poi in sé contenesse".
Questo è quanto scriveva, in pieno Cinquecento, Andrea Palladio prendendo spunto dalle parole di Vitruvio.
Operando una traslazione di questi concetti nell'epoca attuale possiamo confermare che i requisiti fondamentali per un organismo architettonico sono la FUNZIONALITÀ, la STABILITÀ (la resistenza), e l'ESTETICA.
Tre attributi che oggi sono ancora necessari ma non sufficienti.
Una forte accelerazione al ritmo del globo è stato indotta dall'entrata in circolo dell'elettricità; negli ultimi cinquant'anni i suoi effetti sono stati amplificati dall'introduzione di nuove tecnologie, legate chiaramente all'elettronica e all'informatica. Le pesanti informazioni (che da sempre hanno viaggiato incise su oggetti: pietra, papiro, pergamene, carta) si sono dematerializzate in leggeri e veloci impulsi elettrici sfondando il muro spazio-temporale e creando una intreccio infinito di INTERCONNESSIONI: la rete.
Nella nostra società, quindi, in piena rivoluzione informatica, assume grande importanza la DIMENSIONE COMUNICATIVA.
E proprio di un ulteriore livello comunicativo ha bisogno di rivestirsi e impregnarsi l'architettura moderna (moderna in senso a-temporale come frutto di reazione ad una crisi). "Un edificio non è più buono solo se funziona, è solido, spazialmente ricco, ma perché rimanda ad altro da sé". (Saggio, 1998)
Un libro che mi ha permesso di analizzare a fondo le radici dei SEGNI ARCHITETTONICI COME FATTI COMUNICATIVI è stato scritto da Umberto Eco nel 1968 e s'intitola "La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale".
In questo mio scritto cercherò di delineare lo sviluppo dei livelli di comunicazione tra uomo e oggetto; di evidenziare come oggi l'architettura sia diventata un amplificatore di significati essendo portatrice di metafore, di messaggi traslati. [...]

Gabriele Chieppa
brio_75@yahoo.it



Sulla Rivoluzione Informatica... ovvero... sulla Comunicazione... ovvero... sul Paesaggio

L'architettura nella rivoluzione informatica può manifestarsi tramite metafore, simboli, icone in modo più o meno intellettualistico o anche dichiararsi violentemente in creazioni virtuali, cybernetiche sottoforma di carapaci volanti, forme involute, blob trasparenti dettati da leggi matematiche e fisiche, legittimando la loro natura improbabile con algoritmi e frattali.
Uno dei pionieri di "architetture estreme" è MARCOS NOVAK: il suo lavoro fertile consta di architetture virtuali e temi cruciali per quegli architetti interessati alla CYberteoria.
"Il CYberspace è architettura e ha un'architettura e contiene un'architettura " (Novak).
La nuova liquidità del virtuale è all'interno di un oggetto composto tramite algoritmi, condizionato da un programma che genera genotipi.
"Concepiamo algoritmicamente (morphogenesis) e numericamente, roboticamente (new-tectonis), abitiamo interattivamente (spazio intelligente), telecomunichiamo istantaneamente, siamo informatizzati in immersione (architettura liquida), socializziamo non localmente (dominio pubblico non locale) e rovesciamo virtualità (trans-architetture), presupponiamo una nuova soft-Babilonia"  (Novak).
Una nuova posizione d'avanguardia che presuppone che la nostra paletta architettonica digitalizzata ci sta conducendo a creare una città situazionista cablata, mentre noi lottiamo con alcuni spostamenti massicci di paradigma che la nostra epoca deve affrontare e affronterà.
Questi cambiamenti non sono senza forma, sono caratterizzati dagli aspetti del cambiamento metamorfico, agglomerati sotto il prefisso "trans": tras-mutazione, trasgressione ecc...
La sensuale, fluida forma del progetto richiama e trova la forma nell'esperimento, in metodi per i quali la forma si autodefinisce derivando dal software di matematica e ingegneria 3D una serie di forze agenti su una superficie elastica. [...]

Tiziana Ambrosino
tiziana.ambrosino@libero.it



[con riferimento a "
Il Motivo di Caravaggio"]

Lettura in bozza

La bozza di Caravaggio è bellissima e illuminante, e capisco anche perchè non può essere compresa senza la lettura del "Motivo di Sant'Ivo". Sono molti a loro volta "i motivi" di questo scritto che condivido fino in fondo. Trovo ad esempio che "spazio in bilico, proscenio, e flash," per citarne alcuni, siano davvero gli ingredienti incredibili del set caravaggesco. Un set non a caso, allestito attraverso un gesto fondamentale: "CALA (Caravaggio) IL MONDO NEL BUIO TOTALE" (espressione felicissima che cito dall'articolo). Questa operazione, pregna ancora di quel mistero provocato a teatro dal buio che precede l'apertura del sipario, innesca tutto lo svolgersi del dramma (non a caso nasce il dramma barocco),e fa di lui indubbiamente un regista. La luce è proprio quella del FLASH (altra parola illuminante) e l'immagine dell'attimo, non del lasso di tempo, è quindi un'istantanea. Questa luce del resto anche quando è conica diciamo, sembra pericolosamente letale, pompata a forza in quel proscenio, che proprio per questo motivo appare ancora più COMPRESSO. Come non condividere lo stare "IN BILICO?" E' uno spazio funambolico, di alta probabilità di perdita di equilibrio. Gli amici di Caravaggio infatti (va sempre rimarcata questa scelta verista) interpretano personaggi che si sono trovati talmente in alto, in una posizione per così dire "di vertice", che lo spazio su cui poggiano non può che trovarsi pericolosamente ristretto. Io trovo che parlare di Caravaggio come un "regista iperverista ai limiti del Pulp", sia oltre che un atto di coraggio, anche una grande intuizione intellettuale. Certo che il regista mette sempre se stesso nella scena, ma quando si tratta di un autoritratto il suo è sempre fare un autoritratto parlando con eloquenza di un tema altro. Proprio come Narciso che rispecchiandosi nell'acqua coglie la propria immagine deformata. Mi piace l'accenno "all'io diverso". E non posso che rimarcare il fatto che la vera diversità va difesa con la violenza. E' un mondo di pericolose incertezze dove si cavalca "senza sella e senza rete", e dove le scelte personali, non vengono sublimate nelle scene rasserenanti del Poussin, o in qualche alcova segreta, piuttosto diventano "comme l'eau qui coule" dove Narciso rispecchiandosi ogni giorno (e indulgendo pure nell'amarsi) rappresenta il mondoŠ Ma noi purtroppo, a differenza degli americani non abbiamo i "gender studies" che potrebbero dirci molto altro su questi ragazzi che sembrano proprio dei "castrati". Inutile aggiungere che di questi tempi, dove ci si trova sempre di più "IN BILICO" sull'orlo di una pericolosissima controriforma culturale ­ basta constatare come facilmente si trovino in rete articoli di architettura nei quali si usa il termine barocco secondo la vecchia accezione negativa - questo itinerario di disvelamento dei nostri barocchi, che dal Motivo di Borromini (architettura?) passa per quello di Caravaggio (pittura?), non può che appassionare chi ha a cuore la vera questione: lo spazio, che Caravaggio (trovo fondamentale questa tesi dell'articolo) stava già capendo essere prima di tutto quello delle"SCELTE".

Antonino Di Raimo
antonino_diraimo@hotmail.com



Falciata dada

Mi ha sempre incuriosito questo metodo di studio, e come vedrai in futuro (almeno spero) mi influenza direttamente. Mentre sei immerso nel vivo della ricerca contemporanea e nello spessore della sua complessità arriva una falciata trasversale imprevedibile - almeno per noi - che ti riporta a Borromini e subito dopo a Caravaggio. In realtà chi ha seguito le tue lezioni sa bene che si tratta di riferimenti forti, di una sorta di filo conduttore già steso. Insomma mi colpisce anzitutto il "metodo", che peraltro sintonizza molto con quello zeviano e cioè questo continuo altalenare tra figure perturbanti, realmente d'urto: senza tempo. Costruire una struttura d'indagine e di verifica che sia innervata nella complessità della cultura contemporanea, nelle sue contraddizioni, e con questa fare dei carotaggi all'indietro. Il risultato è di una fragranza sorprendente. La forza sta quindi nel metodo, cioè nell'articolazione del pensiero, nel tuo lavorare per livelli e parole chiave. Questa è per me la prima, grande lezione, che ritrovo con prepotenza sul "motivo di Caravaggio". Conosco poco Caravaggio, ma entro con estrema facilità nella tua cornice d'analisi. Vi entro con facilità perché la tua lettura è chiarissima, densa di parametri. Vi è poi la potenza della contaminazione e la sua capacità di aprire nuovi orizzonti all'architettura. La riflessione che fai sullo spazio di quella finestra che da' un accenno di profondità e poi bruscamente la nega con la chiusura netta, rimanda alla lettura spaziale che Zevi faceva di S. Ivo e cioè "quello spazio che tendenzialmente va al di là del suo involucro murario". Ma in Caravaggio rivedo questa citazione in una versione più drammatica. La finestra chiusa sembra davvero uno strumento di protesta assai vicino agli espedienti dadaisti, ai gesti eversivi di Dunchamp. E' in quest'accezione fai benissimo a specificare in apertura la forza dirompente dell'arte. E' la sacrosanta verità: l'arte è autentica quando è maldestra. Vi è infine l'energia di un linguaggio verbale - il tuo - (forgiato sull'esperienza spaziale) che ha un effetto adrenalinico e che a me ricorda sempre Argan. Sono rimasto folgorato dalle parole di Argan su Degas e non solo, perché ad certo punto nel parlare di arte lui aveva affinato un linguaggio espressivo che era esso stesso arte. Una sorta di arte che genera l'arte, e in questa tuo rimbalzo su Caravaggio io ho avvertito una spiritualità, una drammaticità negli scatti rivoluzionari che è qualcosa che si può comprendere solo costruendo le proprie lenti della contemporaneità e, attraverso queste, guardare indietro.

Giovanni Bartolozzi
bartolgi@hotmail.com


LE INTERPRETAZIONI



[con riferimento a "
Bruno Zevi"]



Maestro Palinsesto

Questa mattina mi chiedevo quale personaggio meglio di Bruno Zevi potesse meritare una così appassionata interpretazione.
La figura di Bruno Zevi si presenta nella mia vita come un grande palinsesto: anche se contraddice la stessa definizione, a me piace immaginarlo grande, infinito e molto profondo. Un palinsesto speciale dove il tempo perde ogni senso. Qualcosa di consolidato, stratificato, già pronto. Un palinsesto che parte da un grado zero e vuole la sua storia ancora una volta.
In questi anni all'università lui non c'era eppure è stato il mio maestro.
Ho incontrato Zevi solo tre volte, una di queste è stata ad una mostra del pittore romano Achille Perilli. Il pittore e il critico osservavano un quadro sempre più da vicino quasi fossero risucchiati, fino a che Zevi indicò un punto molto preciso dell'opera come un punto magico, la scintilla da cui con forza nasceva qualcosa che andava oltre, bucava la tela pesante e invasa di materia e correva giù nelle viscere della terra.
È stato un attimo che mi ha insegnato a guardare.
Stupefacente come il maestro sia ancora tra noi. Sempre troppo pochi. Quelli dei no.

Rosario Patti
rosso.p@tiscalinet.it

IT REVOLUTION



[con riferimento a "Temi il demo?"]



Una storia o tre storie?

Questo libro suggerisce diversi spunti di analisi sull'evoluzione del linguaggio, sul modo di comunicare e di interagire degli uomini. L'autrice insiste molto sulla comunicazione e sull'apprendimento come narrazione; quindi per illustrare gli stimoli che il libro ha indotto in me, proverò a raccontare una storia: la mia storia in rapporto al digitale...
UNA STORIA TRADIZIONALE...
"Un giorno Marina si iscrisse alla facoltà di architettura, all'epoca i suoi strumenti di comunicazione erano una matita e la sua voce. La matita e la voce le permettevano di trasmettere agli altri i suoi pensieri, ma il messaggio che riusciva a trasmettere era poco "accattivante" se confrontato con quello che riesce a dire oggi con le sue "conquiste" nel modo digitale. Al terzo anno della facoltà decise di avvicinarsi al modo dell'informatica, il suo avvicinamento all'inizio era stato molto superficiale perché in sostanza aveva solamente sostituito la matita con il mouse con l'intento di guadagnare in velocità, precisione e resa del disegno. Vi erano due aspetti del mondo dell'informatica che non era ancora riuscita a capire: in primis che il nuovo strumento forniva la possibilità di comunicare un messaggio in modo diverso e ad un numero di "ascoltatori" molto più ampio; inoltre che il contenuto del messaggio, soprattutto in riferimento al mondo dell'architettura, doveva necessariamente cambiare in relazione al cambio di strumento. Il desiderio di conoscenza e di scambio la fece entrare in questo mondo di ''solidarietà internettiana'' ma non era ancora abbastanza perché il suo modo di pensare non era ancora cambiato, aveva si allargato i suoi orizzonti, ma vedeva ancora il computer come il "sostituto" di una matita per disegnare, di una penna per scrivere, di una calcolatrice per contare e di una biblioteca per le sue ricerche. Oggi Marina ha capito di dover cambiare approccio, di non dover più usare il computer come un semplice strumento operativo con il quale "rappresentare" le sue idee progettuali, ma come uno strumento per far nascere le sue idee, farle evolvere, verificarle e metterle in pratica...".
Questo modo di raccontare una storia è il più tradizionale, ma nulla dice che esso sia il più efficace. Nel libro si descrivono infatti diversi tipi di storie, o meglio, diversi modi per raccontare storie; a lungo si parla di storie raccontate con il linguaggio visibile, linguaggio che meglio si applica al digitale.
Il mio è un esperimento atto al confronto tra i diversi linguaggi illustrati nel testo: la forma narrativa scritta di tipo tradizionale, il linguaggio grafico-figurativo (digitale), il linguaggio non lineare degli iperdocumenti.
UNA STORIA DIGITALE... [...]

Marina Lo Re
marina.elle@tin.it



[con riferimento a "
Si può fare di più"]



Dall'Araba Fenice al Work in Progress

La distruzione, se pur non totale del Teatro La Fenice di Venezia, a causa dell'incendio del 1996, ha avuto come conseguenza la volontà di ricostruzione dello stesso, si ripropone però un conflitto; imitazione del "perduto" teatro, oppure rielaborazione moderna ?
Ripercorrendo le tappe storiche del teatro troviamo, a mio avviso, delle somiglianze con la leggenda dell'Araba Fenice, quel variopinto uccello sacro agli Egizi.
Il primo teatro è inaugurato su progetto di Giannantonio Selva nel 1792, nel 1836 è distrutto da un incendio, un anno dopo i fratelli Meduna hanno l'incarico di curarne la ricostruzione.
Quest'uccello riprende vita e forme uguali, caratteristica questa che rende originale l'animale e inconsciamente, ci si aspetta che originale e immutevole sia anche il Teatro la Fenice.
Altra caratteristica, che accomuna l'uccello con il Teatro è la presenza dell'acqua, il primo si nutre di rugiada, la quale ne garantisce la sopravvivenza, il secondo "sorge" come frutto nutrito dall'acqua, elemento che la sera del 29 Gennaio 1996 lo ha abbandonato, i rii limitrofi ad esso per lavori di bonifica erano in secca.
Da questo secondo incendio, molti si aspettano che "lo scomparso Teatro", riprenda vita non con un rinnovato aspetto, magari migliore perché no, ma nella rievocazione dello stesso.
Negando la trasformazione, si vuol negare in qualche modo la storia e quel che essa ha portato e reso concreto.
È il passare del tempo che scolpisce, colora, profuma gli oggetti e le persone, ogni evento caratterizza, in maniera più o meno profonda ed evidente, ogni cosa che esiste.
Se nel tempo il Teatro la Fenice è diventato un simbolo, oppure è nato già con questo ruolo, non basta per molti architetti e persone comuni a voler negare qualcosa che nel tempo si è svolto.
L'incendio c'è stato, questo avvenimento è stato sicuramente una disgrazia ma, qualcuno immediatamente o subito dopo aver asciugato le lacrime, si è accorto che nel rogo sotto le ceneri, c'era una piccolissima fiamma che alimentava il fuoco della possibilità.
Come ha a lungo insegnato Bruno Zevi, si può ripartire da un "Grado Zero":
''La città deve presentarsi come un ''work in progress", un non finito.
No all'accademia ai vincoli prospettici, alla simmetria, al monumentalismo (che opprime l'individuo). Il progetto non può negare l'eccezionalità.
Il museo di Bilbao di Gehry, il museo di Libeskind sono conquiste non solo dell'architettura, ma anche delle giurie, dei committenti, dell'opinione pubblica. Se questo non avviene in Italia è perché gli architetti non sono capaci.

Leontina Vannini
leontina@gilles.zzn.com



[con riferimento a "DDek"]



Un nuovo alfabeto

"L'elettricità è l'anima dell'età moderna, l'informazione è il suo spirito." (Erik Davis, 1998).

La forza di questo libro ritengo sia nel presentare il passaggio alla nuova era informatica e al valore che essa assume nel quotidiano come un processo logico, inevitabile e quindi facile e accessibile e tutti. Quando dico facile intendo un processo naturale e necessario, come l'avvento dell'alfabetizzazione che viene descritto. La creazione dell'alfabeto, e il come ci si è arrivati comporta un cambiamento fondamentale, che non è tanto nell'evento materiale, quanto nel determinante cambiamento del processo mentale che vi è alla base. Da questo momento in poi l'alfabeto diviene una "tecnologia centrale nell'elaborazione umana dell'informazione". Se sostituiamo adesso nella frase precedente la parola Internet a quella alfabeto il risultato è evidente: una nuova era che per caratteristiche di velocità e spazio non può essere uguale alla precedente e che è caratterizzata da una nuova "informazione" che per le medesime caratteristiche deve trovare un nuovo modo di divulgarsi.
Il problema che si pone è ora come far convivere e interagire il virtuale e il materiale, soprattutto in un campo così strettamente correlato al concetto di spazio come quello dell'architettura. L'architettura non interagisce con il virtuale solo perché esso è lo strumento per crearla ma anche in senso opposto. L'architettura nel senso "tradizionale "viene influenzata e contaminata dal virtuale. Il punto è riuscire a stabilire un limite, a capire quanto vi debba essere dell'uno o dell'altro, per evitare che la materialità o la virtualità risultino ridondanti e superflui se messi a confronto. Combinazioni felici esistono, e qui se ne presentano alcune, come il caso di alcune gallerie che hanno dedicato una loro sezione ad una estensione virtuale. Un interessante esempio presentato dell'utilizzo del virtuale è quello dell'Art+Com di Berlino, in una città che è luogo di memoria si cerca, attraverso la virtualizzazione della città stessa e la presentazione di materiale che documenta il passato di Berlino di rievocare la memoria e di ricollocarla dove ormai ha perso di forza caricando di nuove metafore la città reale. Si parla quindi di interazione tra reale e virtuale, ma fino a che punto ci si può spingere? Ci sono prove, vedi le università
totalmente virtuali o le cybercittà, di come uno spazio totalmente virtuale non funzioni più. Forse, come dice Tanaka, questo succede perché c'è una difficoltà ad identificare il proprio io in Internet. La nuova strada dunque va ricercata altrove. Come si può allora ricollocare il virtuale? Abbiamo sentito più volte i grandi architetti parlare di "pelle dell'architettura", allora forse il virtuale può essere la nuova membrana che avvolge l'architettura. Questa idea di pelle è efficacemente rappresentata in un progetto di Moller e Joachim Sauter, "Networked Skin", che hanno sviluppato per Ars Electronica a Linz in Austria: un edificio a due piani, la cui particolarità sta però nel rivestimento, nella pelle, essa che è infatti costituita da pannelli di vetro traslucido che di giorno danno sulla facciata l'impressioni di una parete puramente decorativa opaca di vetro bianco verdastro, mentre di sera la stessa superficie cambia funzione. Gli stessi pannelli funzionano come uno schermo di proiezione ovvero mandando e-mail o file di immagini o altro ancora, tutti coloro che sono connessi alla rete possono vederle accolte e proiettate su questo "globo virtuale" che le differenzia per provenienza. Si capisce come quindi il nuovo spazio virtuale abbia anche una parte completamente e materialmente progettabile. E questo porta direttamente alla creazione di nuove figure, si parla qui di cybertect, che siano in grado di concepire e gestire in maniera unificata lo spazio fisico, mentale e virtuale, comprendendone meccanismi e soprattutto interazioni. Perché risulta così importante decifrare le possibilità di connessione tra materiale e virtuale? Forse perché "l'architettura dell'intelligenza" avrà nuove esigenze che bisogna prevedere, deve essere un'architettura connettiva quindi capace di aggiornarsi affinché possa risultare sempre e comunque utilizzabile e al di là del tempo.

Alessia Roselli
alrosel@tiscali.it



Dall'alfa-principio all'e-principio fino all'e-world

Il nostro è ormai un "e-world", un mondo in cui le informazioni non sono più elaborate soltanto tramite l'alfabeto e, quindi, la stampa e i libri, ma sono sempre di più reperibili su internet grazie al World Wide Web. Internet, dunque, insieme all'alfabeto, costituisce la tecnologia centrale dell'elaborazione umana di informazioni e l'individuo è oggi in grado di sviluppare una "mente connettiva". Non una "mente privata" o "spazio mentale" a cui siamo abituati, un universo privato totalmente individuale dedicato all'immaginazione e al pensiero, e neanche uno "spazio fisico" esterno oggettivo, governato dalle discipline razionali, ma "menti private connesse tra di loro attraverso il cyberspazio". Questo non comporta che lo spazio interno (né tanto meno quello esterno) saranno rimpiazzati dal cyberspazio e dall'ambiente cognitivo supportato da computer e Internet; anzi, la scoperta più interessante di Ddek è che esistono delle vere e proprie analogie tra spazio mentale e cyberspazio...
Uno schermo connesso è una meravigliosa opportunità per un individuo, "è il punto di coincidenza tra lo spazio mentale dell'utente ed il cyberspazio", e oltre ad essere una "finestra sul mondo", come avveniva per i mass media prima dell'avvento del Web, permette all'utente di entrare direttamente nel mondo.
Il cyberspazio è definito da Ddek come un "terzo regno fra, intorno e dentro lo spazio fisico e mentale". La parola chiave è, dunque, "connettività" e l'"Architettura Connettiva" è una disciplina che provvede all'interconnettività fisica e mentale dei corpi e delle menti e, quindi, permette alle menti che collaborano ad uno stesso scopo di riunirsi e quindi di "connettersi".
Nel raffronto tra il mondo delle comunicazioni fino al 1992 (invenzione del World Wide Web) e l'avvento del Network emergono sorprendenti differenze che invadono tutti gli ambiti disciplinari. L'architettura sin dall'antichità prediligeva la visione frontale e, ignorando gli altri sensi, era mero oggetto di percezione visiva, mentre oggi il Network è ovunque e invade tutti gli spazi, investe tutti i sensi contemporaneamente e sfida la visione frontale. L'alfa-principio, quello dell'alfabeto, che ha accompagnato l'era meccanica, sta cedendo il passo all'e-principio, quello governato dall'elettricità che ha permesso ad internet di esistere.
Grazie alle nuove tecnologie si è passati dalla predominanza visiva a quella tattile, la mente ora può migrare verso lo schermo liberamente.
Ovviamente questo nuovo "spazio" porta con se nuovi strumenti, nuove tecnologie dell'interfaccia del cyberspazio si fanno largo nei nostri Personal Computer; queste tecnologie diventano nuovi organi di senso, alle volte costituiscono veri e propri "arti fantasma". In un'intervista rilasciata a Chiara Sottocorona Ddek afferma che: "Ogni estensione tecnologica che lasciamo accedere alle nostre vite si comporta come una specie di arto fantasma, mai abbastanza integrato al nostro corpo o alle funzioni della nostra mente, ma mai realmente al di fuori del nostro make-up psicologico" (>).
Molto presto i "Tunnel della Memoria Collettiva", le "Gallerie Virtuali", le "Hypersuperfici", l'"Art Impact, Collective Retinal Memory", l'architettura relazionale del "Alzado Vectorial", le "Global Villane Square"(GVS) e gli "European Palace" saranno parte integrante della nostra vita sociale e saremo in grado di fare uso di questi strumenti con la stessa disinvoltura con cui comunichiamo tramite i nostri telefoni cellulari e la nostra posta elettronica oggi.

Laura Pedata
laurapedata@libero.it



[con riferimento a "Leggere"]



L'Illusione

Le immagini e il movimento dei progetti di Gianni Ranaulo dimostrano che lo sviluppo della tecnologia può rendere più vivibile l'ambiente, facendo comunicare la città con l'esterno, l'ambiente con l'uomo, e può suscitare delle emozioni il più delle volte illusionistiche. Le emozioni che ci regala il progresso tecnologico stanno ormai sostituendo quelle offerte dalla maggior parte delle espressioni artistiche. Da un dipinto di Giacomo Balla, che evoca il movimento, si passa ad ampie superfici coperte da schermi che trasmettono filmati e immagini in movimento. Ora si mettono in gioco, quanto più possibile, sperimentazioni di nuova era, unendo alla parte emozionale anche Architettura pura. L'emozione del movimento può essere accompagnata anche da un efficace sistema di insonorizzazione o di illuminazione in grado di rivelarsi come una vera "strategia" per apparire ed illudere. E attraverso l'illusione e l'uso di immagini, video e insegne elettroniche, comunicare e informare. Mi vengono in mente alcune installazioni o progetti di allestimento fatti da alcuni artisti contemporanei che ricorrono sempre più frequentemente a veri e propri piccoli spettacoli che amplificano l'idea e spesso coinvolgono il pubblico. Trasformare tutto in un video che integra immagini con parole e suoni, permette di ampliare l'impatto dell'opera, dell'idea che la sostiene, delle emozioni e dello stupore che essa suscita. Aumenta così la possibilità di coinvolgere il pubblico e di accrescerne la sensibilità culturale. [...]

Ramona Vitale
r23v@wappi.com

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