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Il Vuotometrico. Architettura dello spazio

Antonino Saggio
 

Una nuova idea si sta facendo strada per progettare lo spazio delle città.

Con un neologismo si potrebbe chiamare Vuotometrico. Ma che cosa vuol dire? Cosa presuppone il termine? Soprattutto: quale è la differenza con il Planovolumetrico che ha governato le espansioni periferiche, e non solo italiane, per buona parte di questo dopoguerra?.

Prima di rispondere bisogna ricordare alcune questioni.

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In Maniera di pensare l'urbanistica -forse il testo teorico fondamentale per la città nata dal funzionalismo internazionale- uno schizzo paragona l'isolato di un ipotetico centro europeo con una rivoluzionaria contro proposta. L'edificio ottocentesco ha un andamento trapezoidale che segue gli accidenti della maglia viaria, si attesta con una cortina compatta lungo le strade perimetrali mentre l'interno è una caotica saturazione di ampliamenti e piccoli cortili. Il risultato per la città è la rue corridor, cioè un inefficiente e inadeguato sistema di circolazione sia per i pedoni che per le sempre più numerose automobili. Dal punto di vista edilizio, si ha inefficienza nel taglio degli appartamenti, casualità nel rapporto con la luce solare, condizioni igieniche malsane, assoluta mancanza di verde.


Immagine tratta da Costruire, n. 144.

Le Corbusier dimostra, con il libro del 1946 i progetti, gli schemi, le conferenze e La Carta d'Atene a firma dei Congrès internationaux d'architecture moderne, che alla medesima densità fondiaria (cioè con lo stesso numero di abitanti per ettaro) le scoperte della architettura e dell'urbanistica possono permettere di ottenere quei vantaggi di salubrità, di igienicità, di efficienza che gli standard della nuova società industriale ormai impongono.

È il modo diverso di concepire il suolo che permette l'alternativa. Il terreno, prima parcellizzato, diventa un bene pubblico e si configura come una lastra piana, prevalentemente verde, con alberi, piccoli sentieri. È un vassoio sul quale -sollevati su pilastri in modo da non interrompere la continuità del terreno- si posano gli edifici e, di nuovo sopraelevate, corrono su viadotti le strade.

Avviene così uno scollamento fondamentale e carico di conseguenze: edifici e spazio pubblico si distaccano l'uno dall'altro. Gli edifici, liberati dalla strada corridoio, diventano blocchi perfettamente funzionali nelle loro dimensioni, esposti alla luce secondo le leggi più opportune, studiati nei dettagli di organizzazione distributiva, nel disegno delle singole cellule. Lo spazio della città prima plasmato dagli isolati in strade e piazze è governato dallo standard, dallo zoning, dai rapporti astratti tra volumi puri sotto la luce che dialogano tra loro o con il paesaggio lontano (come avviene nella grande realizzazione di Chandigarh, in India).

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Queste idee, qui sin troppo brutalmente sintetizzate (perché Le Corbusier in una prima fase pensò agli immeuble villas -grandi isolati a corte-, e poi edifici à redent che ancora creavano una sagomatura degli invasi) non sono state senza ricadute operative. Anzi. Si possono citare numerosi esempi, oltre le stesse realizzazioni delle Unité d'Habitation, ne ricordiamo altre due emblematiche. L'intervento di Roehampton a Londra del Greater London Council e il Villaggio olimpico di Roma coordinato da Adalberto Libera e Luigi Moretti in cui trova posto anche l'assunto della strada carrabile in quota realizzata nel viadotto di Pier Luigi Nervi.

Ma, girovagando per l'Europa, vediamo questa concezione in atto massicciamente nella ricostruzione post bellica e soprattutto nelle esplosione delle periferie pianificate dei decenni successivi. Naturalmente si tratta spesso di una drastica riduzione dell'idea: grandi edifici multipiano formati da cellule identiche l'una all'altra, strade carrabili larghe ma anonime, aree di terreno ben mantenute al Nord ma degradate al Sud. Edifici, strade, terreno rimangono però entità separate, incapaci di determinare delle relazioni spaziali significative, di creare una continuità.

La cultura architettonica italiana nel primo dopoguerra -pur se esistevano le premesse e alcune realizzazioni- non abbracciò completamente la tesi del funzionalismo urbanistico ma optò per un misto originale: un ritorno nostalgico al paese insieme agli echi della lezione organica e paesaggistica svedese. Il concetto di quartiere, di unità di vicinato, di comunità insieme a una industria edilizia ancora artigianale, segnarono moltissimi esempi per tutti gli anni Cinquanta guidati dall'Ina Casa, mentre gli interventi di speculazione fondiaria che vi sorgevano intorno deturpavano le città prendendo dal complesso di indicazioni moderniste solo una: il cemento armato e la possibilità di sviluppo in altezza.

Attraverso Giuseppe Samonà e Ludovico Quaroni all'inizio degli anni Sessanta avviene una importante svolta: da una parte si sviluppano alcuni assunti del funzionalismo (che diverranno standard dello stato con la legge ponte del 68 e con le battaglie di Giovanni Astengo e dell'Istituto nazionale di urbanistica) dall'altra si fa strada una nuova idea una nuova concezione presente in alcuni grandi piani dello stesso le Corbusier. È una idea territoriale dell'architettura che, dilatando le forme e monumentalizzando la residenza, crea non più volumi isolati ma macrostrutture in grado di proporre una alternativa di forme e di funzioni alla città speculativa.

Dal progetto di Quaroni delle Barene di San Giuliano del 1960, al Corviale di Mario Fiorentino del 1975, passando per realizzazioni importanti come il Gallaratese di Carlo Aymonino o Rozzol Melara di Carlo Celli questa fase segna un contributo importante della cultura italiana che verrà condensata nella formula "Parte di città". Appunto settori urbani in cui architettura e urbanistica si mescolano.

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Ma i progetti vengono mal realizzati, per fasi scollegate tra servizi e residenze e spesso dopo molti anni rimangono incompleti. I criteri di assegnazione sono burocratici e clientelari ma soprattutto due idee fondative della primitiva concezione vengono tradite facendo, a cascata, cadere tutta la costruzione.

I viadotti pensati da Le Corbusier non vengono quasi mai realizzati, invece viene costruita una rete spesso sovrabbondante di circolazione carrabile con svincoli, margherite e altre forme dell'ingegneria del traffico che distruggono grandi porzioni di terreno. Il manto erboso, il vassoio verde su cui poggiano gli edifici, diventa una terra di nessuno: ricettacolo di depositi, di detriti quando non di accampamenti di girovaghi. Non piantumate, non curate, necessariamente non gestite da alcuna forma di intervento pubblico, né tanto meno privatizzabili perché scollegate dagli appartamenti, si rivelano spesso un grosso sbaglio, o meglio, un lusso: come, per ragioni simmetriche, la dotazione di servizi che erano previste e a volte anche realizzate (e subito devastate) dentro i progetti.

La drastica riduzione a realtà, a norma di progetto del complesso di idee della cultura architettonica nazionale e internazionale, si appiattisce nel planovolumetrico. Le zone gialle dell'edilizia economica e popolare dei Piani regolatori consentite dalla legge 167, per essere realizzate in interventi spesso di grandi dimensioni, necessitano di uno strumento. Già la parola planovolumetrico dice molto. Si disegnano gli snodi stradali anulari che isolano i complessi gli uni dagli altri e sul terreno si dispongono, appunto, volumi. A volte si creano anonimi blocchi governati solo dalle quantità delle norme, in altri casi si disegnano fantasiose, aggrovigliate o anche pregevoli composizioni.

Ma lo spazio "tra" i volumi ? Lo spazio per la vita degli abitanti per il dipanarsi della vita e dell'immagine sociale? Lo strumento non le norma in alcun modo, né dà solamente la quantità pro capite come risultante appunto tra i volumi metrizzati e misurati. Il tutto diventa ancora più caotico perché il progettista che disegna il planovolumetrico, d'abitudine , non progetta i singoli edifici. Quest'ultimo, si trova con masse già predisposte con criteri che magari avrebbe rifiutato, ed è stretto dall'altra parte da una nota rete di vincoli di varia natura. Chi va abitare i complessi si calerà in queste contraddizioni pagandole sulla propria pelle, sulla propria infelicità quotidiana. Mentre la città e l'architettura potrebbero garantire parte grande della qualità dell'esistenza.

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Le Cassandre servono, ma a poco. Un'altra strada è da indicare, da percorrere. Tessuto e Scena sono due idee che danno un'alternativa concreta.

L'idea del tessuto si basa sul ribaltamento di una delle concezioni della Carta d'Atene, ma nasce nell'ambito degli stessi Ciam e si comincia a sviluppare nel lavoro di progettisti che aderirono al Team X (tra l'altro Giancarlo De Carlo, Ralph Erskine, Aldo Van Eyck). Il terreno non è più un vassoio su cui poggiare volumi, ma un insieme da progettare attentamente come un insieme compatto in cui interagiscono spazi, strade, edifici, sistemi verdi e lastricati. È una strategia che è stata sviluppata concretamente tra i primissimi dall'Atelier 5 nel progetto di Halen a Berna che, pur ispirandosi per moltissimi aspetti proprio a Le Corbusier e alla sua Unité, ne ribalta le quantità in orizzontale. Al vassoio verde, omogeneo e pubblico alla base degli edifici si sostituisce la territorialità per creare soglie di privacy tra la scala collettiva e quella privata. Gli interventi vengono governati da una griglia omogenea di case basse ad alta densità, ma la griglia si svuota, si apre e si chiude crea un continuum di relazioni tra i vari ambiti che della città storica, dei piccoli camminamenti, delle improvvise sorprese, richiama atmosfere e valori con mezzi e standard moderni.

È una proposta che trova sviluppo non solo in ambiti periferici ma anche nella città consolidata: per primo con il lavoro di Louis Sauer a Philadelphia dove si attua il recupero del quartiere centrale di Society Hill attraverso appunto un sistema a tessuto, capace tanto di aderire alle maglie urbane preesistenti quanto di creare nuovi ambiti, nuovi spazi, nuove relazioni. 



Poche ma significative le esperienze italiane che a questo modello si rifanno: si pensi però alle case della Giudecca di Gino Valle. Non a caso un'eccezione in tutti i sensi: per il controllo del progettista del disegno di insieme (il planovolumetrico) come dell'effettivo sviluppo del progetto, per la facoltà che l'architetto conquista sul campo di derogare dalle norme di regolamento edilizio, per la stessa capacità di dirigere il cantiere e di lavorare con un costruttore illuminato quanto lo stesso committente (l'Istituto case popolari di Venezia).



Ma assieme a questa strada che si base sull'idea di tessuto, (e di conseguenza: griglia, continuum e nuovi sistemi distributivi) nel dibattito culturale emerge un'altra idea: quella della "Scena urbana". La nascita in questo caso è antitetica al moderno, assiomaticamente si pone come un superamento che vuole riscoprire spesso nostalgicamente forme e memoria del passato. I volumi puri sotto la luce avevano fatto piazza pulita di una tradizione di costruzione della città che aveva origine nella Roma barocca e nel disegno organico, sinuoso e affascinante dei suoi spazi pubblici: da Fontana di Trevi a Trinità dei monti.



Paolo Portoghesi ha compiuto un lavoro storico e di scavo operativo su questo patrimonio sino a combinare i suoi studi con l'idea del paesaggio naturale scavato dalle forre in una sua proposta per "Roma interrotta".

L'impostazione urbana di matrice barocca aveva in parte influenzato la costruzione di alcune città europee nell'Ottocento, ma si era trasformata all'inizio di questo secolo, soprattutto in Italia, in una vacua e posticcia scenografia. Dalle cartoline d'epoca emergono esempi come l'Esposizione etnografica in piazza d'armi del 1911 realizzata a Roma dal giovanissimo Marcello Piacentini. La stessa scenografia e gli stessi stilemi stucchevoli che si ritrovano, settanta anni dopo, nelle rese stilistiche delle Piazze d'Italia a New Orleans, nel centro civico di Poggioreale in Sicilia, nelle magniloquenti nuove Parigi periferiche.

Ma guai a buttare il bambino insieme all'acqua sporca: in queste pur stucchevoli parate vi è un enzima vitale: lo spazio urbano è un vuoto che non può essere trattato come meccanicistico risultato di volumi astrattamente funzionali... È nn vuoto, naturalmente, da progettare non con gli stilemi del kitsch americano-franco-italiano, nè con la magniloquente e statica unitarietà di quelle proposte, ma con frammenti, con pezzi sbilanciati, dinamici, asimmetrici, carichi di tensioni e non di rassicuranti certezze fuori tempo. Preesistenze, pezzi di natura, nuovi volumi, a volte anche piccoli brani di memorie archeologiche possono combinarsi attorno allo spazio occupato dagli abitanti. Al vassoio orizzontale si può sostituire anche un insieme di piani inclinati che permetta la stratificazione in altezza: sotto la quota zero, scavando, e poi sopra: terrazze, tetti abitati, giardini in un continuo di spazi orizzontali e verticali.



Esempi? Alcuni li abbiamo citati. Nel panorama internazionale si pensi al modo di comporre lo spazio urbano non solo di Peter Eisenman, di Rem Koolhas o di Zaha Hadid (che da una logica di volumi puri, pur se telluricamente esplosi, cominciano a cercare una nuova concezione dello spazio "tra" le cose) ma soprattutto al lavoro di Jo Coenen e Tadao Andao, o di Steven Holl e di Alessandro Anselmi. Nei progetti di questi architetti prende corpo un ibrido di straordinaria vitalità: l'architettura e il linguaggio moderno sono portati avanti ma al contempo una nuova consapevolezza del valore civico dello spazio pubblico, della scena dove le attività si svolgono emerge.



Le prospettive deformate, i piani inclinati, la sagomature dei cavi, l'organico rapporto con la natura o con l'acqua si sposano alla leggerezza, alla trasparenza, ma anche alla fisicità di nuove dinamiche forme, di nuovi fondali: La logica di creazione dei cavi è -come dice, proprio Anselmi- "sommatoria", analitica: recupera la lezione dell'organico (sino alla recente riscoperta di Wright) e abbandona ogni insieme sintetico, statico, unitario degli accademismi di tutti i tipi e di tutti i tempi. L'architettura è fatta di concerto con lo spazio che conforma: la vita interna si travasa con naturalezza in quella esterna.



Due opere guida. Forse il progetto più chiaro di una combinazione tra scena e tessuto è il Byker Wall di Ralph Erskine, cui "La Sapienza" di Roma ha concessa una merititatissima laurea ad honorem. Un grande muro ondulato in pianta e alzato che detta la misura del progetto con lo spazio della città e della natura e che al contempo racchiude una serie di edifici bassi e continui: tessuto e scena, griglia e monumento urbano, serialità ed eccezione, verde e vita, ricerca della felicità di chi abita. Un progetto che non si sarebbe potuto mai concepire con un Planovolumetrico ma che ha bisogno di nuove idee e di nuovi strumenti.



Ma forse il più grande artefice di una nuove consapevolezza e il candese trapiantato in California Frank Gehry. Lo spazio cavo non solo è il centro di ogni composizione, non solo è conformato da fantastici pezzi sculturoei, ma dentro di esso emerge anche un inaspettato e modernissimo valore figurativo: l'aereo appeso alla parete del museo, il binocolo dell'agenzia di pubblicità a Los Angeles o il grande pesce sul lungo mare di Barcellona. È un nuovo geniale ibrido che ci fa d'un colpo ricordare che nei grandi cavi barocchi un posto preminente era destinato all'arte pura: alle sculture-fontane di Nicola Salvi a Trevi di Pietro Bernini nella Barcaccia di Piazza di Spagna nella scultura del figlio Gianlorenzo al centro della piazza Navona. 

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Già il Team X, con le parole di Alison Smithson, lo sosteneva: "l'architettura è una forza attiva della vita stessa. Non è più sufficiente "fare degli edifici", dobbiamo crearli in modo tale che diano significato allo spazio intorno ad essi nel contesto dell'intera comunità". Tessuto e scena urbana forniscono strumenti di progetto per lo spazio tra le cose, lo spazio per la vita. Sono strumenti che potremmo usare tutti, pur senza raggiungere le vette di Erskine o di Gehry.



Ma vi è anche bisogno di un nuovo indirizzo normativo: un vuotometrico, appunto, che renda possibile lo sviluppo dello spazio (oggi ostacolato da norme e regolamenti concepiti solo per i pieni), che ne strutturi le potenzialità, che dia strumenti per operare sui nuovi vuoti che la stessa città consolidata sempre più offre: i tanti nodi irrisolti di centri grandi e piccoli, le parti abbandonate di scali ferroviari, le industrie dismesse, gli scali portuali inutilizzati e anche qualche squarcio che dovremo per forza di cosa ricavare nelle nostre periferia, demolendo.

Antonino Saggio

[13dec2000]

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