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Coffee Break

Spazi nuovi

Antonino Saggio
 

Da almeno un quindicennio l'espressione in-between (in Italiano "il tra") è diventata ricorrente nelle discussioni tra gli architetti sostituendosi ai più antichi slogan "La forma segue la funzione", "il meno è il più", "il gioco sapiente dei volumi sotto la luce".

L'architettura non nasce più pura, nuova e sola, ma si incunea, riammaglia, attraversa ed è continuamente attraversata dal già esistente. Una delle prime esemplificazioni si ha nel Wexner center per le arti all'Università di Columbus dove Peter Eisenman (che all'in-between ha dedicato anche dei testi) conficca una costruzione-percorso tra due fabbricati esistenti. Si risparmiano così nuove aeree dall'edificazione e si creano spazi in sintonia con un generale interesse verso l'ibridazione e la complessità. L'operare "tra", per i suoi sostenitori e teorici, è infatti intimamente legato alla fase storica che stiamo vivendo. Se "i volumi puri" di Le Corbusier davano la direzione alla conquista del territorio da parte della civiltà industriale, l'in-between vuole appartenere alla civiltà post-industriale che ha sostituito l'implosione all'espansione.



Veniamo ora, con queste premesse, al centro Le Fresnoy completato da Bernard Tschumi nella città francese di Tourcoing nell'ex regione carbonifera della Francia nord-occidentale e che dell'in-between è non solo pregnante, ma anche innovativa, applicazione. L'edificio voluto da Dominique Bozo e da Alain Fleischer si propone come Bauhaus del 21esimo secolo. È insieme una scuola d'avanguardia e un centro di produzione che contiene tra l'altro un centro di risorse multimediali, due cinema, un auditorium, studi di fotografia e musica, una grande sala per performance e mostre, una biblioteca, uffici amministrativi, ristorante e molti laboratori dedicati a settori innovativi quali l'immagine elettronica, il film, il video.

Tschumi è noto al pubblico internazionale soprattutto per il Parco della Villette a Parigi basato sull'applicazione di un altro dispositivo progettuale di questo fine secolo: il layering (cioè il dividere un progetto in più strati -edifici, percorsi, verde, illuminazione- ciascuno concepito autonomamente e rimontato insieme nel progetto con tecniche di discontinuità cinematografica). A Le Fresnoy, senza tralasciare il carico di rimandi all'arte, alla filosofia, alla musica e al cinema contemporanei, Tschumi scopre una nuova potenzialità degli spazi interstiziali. La novità è che invece di basare il progetto su meccanismi planimetrici (come è stato fatto molte volte dopo Eisenman), decide di basarsi sulle potenzialità della sezione.

Affascinato dalla spazialità interne create dalle capriate delle fabbriche esistenti, decide di non abbattere i fabbricati (come era possibile nel bando di concorso), ma di sovrapporvi una nuova grande copertura che li riunisce sotto un unico manto. Tra il metallico nuovo tetto e quelli preesistenti ricoperti in laterizio si apre uno straordinario spazio interstiziale, uno spazio entre-deu. È un luogo carico di fughe prospettiche divergenti (la citazione a Piranesi è d'obbligo) ed è intensamente abitato da camminamenti, da entrate alle aule nei sottotetti e anche di luoghi per stare o assistere ad avvenimenti magari dalle falde dei tetti esistenti che sono stati apposta rafforzati. L'in-between assume in questo innovativo progetto una declinazione che apre a pensieri sulle relazioni tra l'esistente e il nuovo, tra il passato industriale e il presente elettronico e mediale, tra la nostra idea di esterno e quella interno, tra i movimenti rigidi di un corpo meccanico e taylorizzato e i movimenti fluidi legati alle informazioni e alle interconnessioni. La grande idea dell'architettura sotto forma di paesaggio contemporaneo si arricchisce di una nuova declinazione ma soprattutto quest'opera, così intensamente "pensata" da un architetto-teorico, smentisce la parola slogan che per semplicità abbiamo usato all'inizio. L'in-between (come le più antiche frasi di Sullivan, Mies o Le Corbusier) rappresenta per gli architetti un vero e proprio strumento di lavoro. Un dispositivo per costruire il mondo o, almeno, per cercare di farlo.

*

Vent'anni fa Frank Owen Gehry creò per sé e la sua famiglia una addizione a una piccola casa in stile nei sobborghi di Los Angeles. La costruzione era realizzata con materiali disadorni presi dalla strada e montati con fare collagista e traballante. Si poteva pensare, allora, alla ricerca di uno stravagante artista-architetto senza possibilità di impatto nell'operatività seria e concreta dell'architettura. Sappiamo che il contrario si è rivelato vero. Con quella casa prendeva corpo il Cheapscape, e cioè la presa di coscienza del valore estetico del paesaggio povero, derelitto, disadorno. Se Gehry ha scelto per il celebrato Museo Guggenheim di Bilbao una caotica intersezione urbana, e se è riuscito a trovare nuovi spazi e forme in un'area abbandonata dall'industria, le ragioni affondano proprio nella sperimentazione iniziata nel 1978 con la propria casa. L'esempio, come altre case-provetta della storia dell'architettura, ci deve mettere perciò in guardia.

Oggi siamo di fronte a un'altra casa, anch'essa sperimentale e apparentemente altrettanto assurda di quella di Gehry. Si tratta della Steinhaus, la Casa di pietra, che l'architetto austriaco Günther Domenig costruisce per sé da ormai una decina di anni a Steindorf, in Carinzia, e di cui possiamo cominciare oggi a capire la rilevanza.

La casa ha una planimetria aperta verso l'esterno nella quale si inseriscono volumi distorti in cemento o acciaio a partire da un cilindro vetrato che emergerà direttamente dal sottosuolo. L'incrocio tra le masse crea percorsi e cavità, disarticolazioni e aggetti e tutto sembra nascere dallo stridere di masse rocciose che formano crepacci e voragini.



La casa è paesaggio, fa paesaggio ma Domenig più che alle periferie urbanizzate di Gehry torna a guardare direttamente alla natura.

Ma non si tratta affatto di una natura buona e madre, calma e accogliente, sensuale e dolce come quella di molte opere dell'organicismo nordico, ma bensì di una natura tellurica, cattiva, violenta, difficile e tormentata.

L'uomo della civiltà post-industriale ed elettronica non può non rifare i conti con la natura. Nuove produzioni basate sul trattamento delle informazioni liberano energie e possibilità (l'industria manifatturiera deve dominare e sfruttare la natura, quella delle informazioni la può valorizzare) e gli stessi progressi della scienza forniscono teorie meno romantiche di quelle di un tempo: i frattali, il dna, i quanti, le pulsazioni di un universo in espansione, le regole delle catastrofi, un essere della natura insomma inquieta e dinamica.

Domenig in particolare, e qui si ricollega alla ricerca espressionista tedesca, cerca di catturare un momento primitivo, una specie di caos iniziale. Per cui la sua opera è costitutivamente non finita. A una vista superficiale appare "distrutta" o "decostruita" in realtà essa presenta il suo stesso formarsi. Come se la vitalità dell'architettura sia un attimo prima della forma.

Questa casa non ha interno o esterno ma è pervasa da un sentimento unico.

Per anni siamo stati abituati a concepire il progetto "dall'interno all'esterno". Le funzioni creavano le spazialità dell'opera e queste si spandevano rivelandosi all'esterno. Ora questa idea di spazio interno come organo-motore dell'architettura, se ha portato grandi avanzamenti nel disegno dell'architettura, ha scontato limiti pesanti nel farsi della città.

Attraverso la concezione del paesaggio si comincia ad affermare invece una concezione di spazio fatto da compresenze, da socialità interagenti, da logiche concertate tra interno ed esterno. Insomma da una concezione di spazio come organo, ci stiamo avviando a una concezione di spazio come sistema.

Difficile strada da percorrere, ma crediamo la si percorrerà. D'altronde basta guardare ad altri lavori meno sperimentali dello stesso Domenig (per esempio l'ampliamento dell'università di Graz) per vedere come si stia già procedendo. Se da Gehry abbiamo capito la forza formativa del paesaggio povero e residuale, da questa casa possiamo cominciare a ripensare allo spazio, al fare spazio come rete continua interno-esterno.

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Spazio organo vs Spazio sistema allora apre un grosso tema. Un amico ad esempio parlando di opere recenti si, e mi, domandava: "Ma insomma, in questi progetti non ci sono più spazi interni! Non ci sono più, non si raffigurano più?" L'osservazione è importante, proprio perchè alcune idee rispetto al passato, si sono effettivamente ribaltate. Per cercare di argomentare ci vuole una digressione.

Molto si basa sulla parola funzione. Parola che è alla base del modo di fare architettura basato appunto sul Funzionalismo. Ora se si chiede a un architetto un sinonimo di funzione 90 casi su 100 dirà "uso". Se chiedete a un non architetto difficilmente vi dirà uso ma ricorrerà ai termini listati dallo Zingarelli tra cui, tra parentesi, non c'è uso, ma mansione, rito, ruolo, espressione matematica eccetera.

Perché, allora, usiamo la parola funzione in questo modo?

Ma perché noi siamo cresciuti su un sentire degli anni Venti e della Nuova Oggettività in cui si sostiene che c'è un rapporto diretto tra uno spazio quindi un "organo spaziale" e la sua funzione. Non a caso il significato di funzione più vicino al nostro di architetti è quella della medicina tradizionale che sostiene che a un organo è legata una determinata mansione. Sappiamo da altre medicine e da altre culture che questo non è così tassativo. Tanto è vero che si può operare su un alluce, per guarire e stimolare tutt'altro.

Inoltre noi siamo stati educati come progettisti, e a maggior ragione le generazioni immediatamente precedenti alla nostra, sulla convinzione che la funzione di uno spazio in qualche modo si rappresenti, si riveli all'esterno. Ecco perché il centro della critica era lo spazio interno, l'idea dello spazio interno come motore dell'architettura. Ora questa idea si è modificata, si è molto arricchita. È arrivata in questi ultimi dieci-quindici anni una concezione spaziale che ha come motore la conformazione dello spazio pubblico.



Perché parliamo tanto di paesaggio come metafora fondamentale dell'architettura? Perché il problema dell'articolazione delle scene spaziali a partire anche dagli spazi esterni è diventato il centro; perché si è innescata una dialettica, che prima non c'era con questa evidenza, tra conformazione degli spazi interni e conformazione degli spazi esterni in un sistema di complessità maggiore rispetto a prima.

È una consapevolezza che ho riassunto in questa formula Spazio organo vs Spazio sistema che viaggia in una profonda rivalutazione e ricollocazione del nostro modo di essere nel mondo.

Antonino Saggio

[14dec2000]

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