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Impressionanti
e convergenti il numero degli indizi del caso Caravaggio, un caso
che rimette in moto una relazione inevitabile con Francesco Borromini.
Quali sono questi indizi e soprattutto quale è "Il Motivo
di Caravaggio?". (Ci scusiamo per il linguaggio cifrato, ma questo
scritto è la continuazione del "Motivo
di Sant'Ivo" e senza quello non può essere compreso).
Gli indizi sono Flash, in Bilico, Attimo.
L'accademico e pre-massonico Poussin, in preda ai suoi vezzeggiamenti
pre-neo-classici è inorridito, e qualche decennio dopo la morte
dice: "Caravaggio è nato per distruggere la pittura".
E naturalmente ha ragione. Caravaggio distrugge la pittura come è
conosciuta sino allora, ed è un'azione violenta e lacerante.
La deve distruggere per creare una nuova visione. L'arte al suo culmine
è negativa. Deve eliminare quanto la precede per affermare
un nuovo modo di capire, di sentire e di vedere.
IN BILICO. La prima cosa che Caravaggio distrugge è il telaio
prospettico, o meglio l'idea stessa di finestra-cornice. Non è
il primissimo, intendiamoci, vi erano state avvisaglie nel corso del
Cinquecento, ma in Caravaggio è la premessa per la creazione
di un nuovo drammatico spazio.
Capiamoci.
Mai visto un Piero della Francesca (o un Masaccio o un Antonello da
Messina?). La finestra è la chiave. Il quadro è visto
attraverso una finestra-cornice che inquadra la veduta e crea profondità;
e la profondità è realizzata attraverso lo spazio prospettico:
uno spazio regolato, misurato e profondo. Caravaggio no. Caravaggio
chiude drammaticamente la finestra prospettica, comprime lo spazio
per farlo saltare fuori. Guardate il celeberrimo quadro alla Contarelli
de "La vocazione di Matteo". I personaggi sono schiacciati
in pochi centimetri e sono a ridosso dello spettatore. Non c'è
profondità. E la finestra nel quadro c'è, ma è
appunto chiusa, muta, tetra (e sempre sbarrate saranno le pochissime
che dipinge). Come dire: lo spazio profondo, respirato, infinito,
prospettico è finito. Tutto è drammaticamente qui davanti.
Le molte decine di metri che abbracciamo in un Piero, o lo spazio
dilatato sino al paesaggio lontano di Antonello viene così
improvvisamente racchiuso e compattato. È uno spazio intermedio
e nuovissimo che si pone tra la profondità negata
dello spazio prospettico "dentro" il quadro e una nuova
spazialità invocata "fuori" del quadro.
Ma
vi è dell'altro, e il suo "Canestro di frutta" del
1597-1598 all'Ambrosiana di Milano lo esplicita. Anche qui tutto si
svolge nei pochi centimetri della profondità della composizione
di frutta appoggiata su un asse posto contro il muro, ma il canestro
si sporge "oltre" l'asse e proietta la propria ombra sul
supporto. Quindi non solo si elimina la visione prospettica e si comprime
ai minimi termini la profondità, ma gli oggetti stanno letteralmente
in bilico: in bilico tra dentro e fuori, sempre pronti a cadere come
unica traccia certa della loro esistenza. L'essere in bilico è
una chiave di fondamentale importanza per capire la rivoluzione di
Caravaggio, che è sì spaziale e antiprospettica ma è
anche molto, molto altro.
PROSCENIO. Direte che questo spazio in bilico si adatta a una composizione
di frutta, ma che non funziona con i personaggi vivi della pittura
di azione. Esattamente il contrario è vero. Lo stesso tipo
di spazio si afferma praticamente in tutti i dipinti di Caravaggio.
Guardate la natura morta "vera" (quella della Vergine del
1604 per Santa Maria della Scala, ma rifiutata dai Carmelitani trasteverini
e oggi al Louvre). Dico natura morta "vera" in questo caso
della vergine, raffrontandola con la natura morta del canestro di
frutta, "falsa" perché raramente si era vista una
natura più violentemente viva. Ma torniamo al quadro della
vergine e al tema dello spazio in bilico e alla sua necessaria evoluzione.
Qui l'idea di cornice abitata è rappresentata anche fisicamente
da un drappo. Questo drappo racchiude, unifica e compatta la nuova
spazialità e immediatamente ci fa capire che la cornice abitata
è esattamente un proscenio. I personaggi non si collocano dentro
la scena, ma appunto direttamente sul proscenio, quindi accanto a
noi e spesso letteralmente sbalzano fuori.
Il
proscenio è certamente "cornice abitata" ma è
anche molto di più. Il suo essere in bilico tra dentro e fuori
non è solo un freddo gioco percettivo ma è la vita stessa
che si pone in questi termini. E lo fa senza metafora o retorica,
ma direttamente, in forza della sua stessa collocazione spaziale.
La vergine appena morta protende un braccio fuori dal quadro. È
un braccio in bilico come il canestro di frutta; si muove ortogonalmente
al proscenio ed è una freccia che ci colpisce quanto il pianto
di una donna che sta letteralmente disperata accanto a noi. Spesso
in Caravaggio il proscenio è attraversato da questi vettori
diagonali drammaticamente in bilico. Qui tutto il corpo della vergine
sbalza dal letto e attraversa diagonalmente il quadro, ma pensate
alla Croce della morte di San Pietro a Piazza del Popolo del 1602,
o al supporto che si spinge come una prua verso noi nella Deposizione
alla Pinacoteca vaticana del 1602-1604, o alla famosa mano del Cristo
che chiama Matteo ancora alla Contarelli del 1600 per non parlare
della tavola dei giocatori letteralmente in bilico e sospesa nello
spazio nello stesso quadro. Gli elementi in bilico tra dentro e fuori
e gli attraversamenti diagonali del proscenio naturalmente distruggono
la rotondità classica della composizione, tendono a rompere
l'idea stessa di rappresentazione in quanto recita separata. Questa
distruzione diagonale è una "sciabolata" (come è
anche fisicamente nel quadro di Giuditta e Oloferne alla Galleria
d'arte antica di Roma del 1599 che della diagonale e dell'essere in
bilico è manifesto anche dell'orrore).
CHIEDI ALLA POLVERE. Chi conosce i quadri di Caravaggio, ne riconosce
gli attori che di volta in volta popolano le tele. Mario (Minniti)
prima suonatore di liuto, poi giocatore nella taverna durante la chiamata
di Matteo, poi bravaccio in fuga nella scena dell'uccisione. Lena
(Maddalena Antognetti) come Maria sulla soglia o che aiuta il bambino
a schiacciare un serpente, naturalmente Cecco (Francesco Boneri) di
cui si segue tutta l'evoluzione da bambino a giovane uomo (angelo
con Matteo, Davide, Isacco, Giovanni Battista eccetera) e poi tanti
altri: il "Francesco" (che oltre il Santo è San Paolo
o il Cristo), "Matteo" (che di volta in volta rappresenta
il Santo, o San Girolamo o Abramo o San Pietro) o Narciso (nell'omonimo
quadro alla Galleria d'arte antica ma anche Angelo nella fuga d'Egitto
e giocatore nei bari), o Fillide Melandroni (in Santa Caterina o in
Giuditta). Questi attori sono i suoi protagonisti e ogni volta hanno
una parte diversa. Ma se c'è una spazialità in bilico
tra dentro e fuori, se questo spazio si chiama proscenio e mescola
ovviamente non solo dentro e fuori ma arte e vita quotidiana, se addirittura
i personaggi sono veri allora il pittore è anche un regista.
Ed ecco la novità e la distruzione. Caravaggio non è
un regista di balletti con figure nel paesaggio, o di incantate scene
di pensatori, ma è un regista verista, una sorta di iperrealista
al limite del pulp. I suoi attori non devono "primariamente"
raccontare le scene che il committente vuole, meno che le architetture
di un architetto servono a dare un tetto e uno spazio all'abitante.
O meglio, naturalmente servono I suoi quadri a raccontare le storie
del committente, ma sono ben al di là, incomparabilmente molto
e molto oltre. Michelangelo Merisi usa i santi e i martiri, risponde
alle richieste iconografiche del caso ma è di ben altro che
ci parla. I suoi attori parlano di una vita vera, verissima. Vera
nella violenza che difende un io diverso (come diversi erano Leonardo
e Michelangelo), vera nei piedi pieni di polvere, o nei sorrisi ammalianti
dei suonatori o nella frutta bella e bacata o nella posa incredibilmente
suggestiva di Lena o drammaticamente violenta di un atto brutale.
Caravaggio nasce "per distruggere la pittura". La sola entrata
in scena di questi attori della strada basterebbe da sola per distruggere
la pittura come la intendeva Poussin. La pittura diventa consapevolmente
sempre un autoritratto: le idee, le tensioni, le conoscenze, i personaggi,
gli amici e gli amanti sono tutti insieme i protagonisti non di una
messa in scena ma di una realtà personale e verissima del'io
che guarda e vive. Ma se si riflette ancora sulla "continuità"
con cui Caravaggio rappresenta i suoi amici, Lena, Mario, Cecco, Filippide
si scopre ancora altro. Caravaggio non presenta solo se stesso, ma
presenta attraverso il suo sguardo un intero "mondo". Un
mondo che da residuale è diventato con lui presente e spinge
per esistere.
FLASH. Naturalmente chiunque abbia visto un Michelangelo Merisi ha
notato per prima cosa la luce. O meglio l'ombra, oppure no, la luce.
Caravaggio letteralmente distrugge la luce e ricrea la luce. E se
vi è un senso a questa parola -luce- e a tante delle sue accezioni
metaforiche (porre sotto una diversa luce, vedere la luce eccetera)
questo "è" Michelangelo Merisi da Caravaggio. Torniamo
ad Antonello. In Antonello la luce è quella prospettica del
nuovo mondo, della cornice finestra, del personaggio del santo o della
Madonna posto in una luce universale, dorata che modella in leggerissimi
chiaroscuri le forme e che si perde in nebbioline azzurrognole nel
paesaggio. Caravaggio spegne le luci nella sua sala, tira il velo
e apre il proscenio e cala il mondo nel buio totale. I suoi attori,
che si muovono quasi come se fossero in due dimensioni nello spessore
del telaio, sono improvvisamente colpiti da un flash. La luce nuova,
la luce della modernità di Michelangelo Merisi è un
flash che taglia la scena. Distruggere la luce per crearne una nuova.
Ma perché?
Il perché ha due livelli: un primo livello è giusto
e corretto e dà una rassicurante spiegazione. La luce del flash
pone al centro l'evento che si sta svolgendo, ma non è sufficiente.
Caravaggio pone al centro l'evento, certo. Ma non si capisce perché
tante brutali distruzioni, tante rivoluzioni, tanti drammi personali
e artistici se fosse solo per porre attenzione al singolo evento.
No. Michelangelo capisce in quei vent'anni del suo lavoro in bilico
tra Cinquecento e Seicento che è proprio il tempo che è
finito, che a lui e a noi, solo l'attimo è il brandello di
senso che disperatamente abbiamo a disposizione. Solo l'attimo di
un flash è il nostro barlume, di vita, di desiderio, di possibilità:
solo l'attimo in bilico della sceltà "è".
Si tratta di un dramma di folle intensità. La vita, la storia,
gli amori, la violenza è quella dell'attimo. E Michelangelo
sente questo sulla propria pelle e cavalca senza sella e senza reti
come solo gli artisti possono fare, il dramma. Il Seicento che lui
inaugura è il secolo della crisi e più crisi di tutte,
come è ben noto, è in Italia. Un Paese che perde di
centralità e che sta per regredire velocissimamente a provincia.
Lui, Michelangelo Merisi, è l'ultimo dei sommi. In una genia
incredibile di artisti vi sono i più grandi dei grandi: i Michelangelo
Buonarroti i Leonardo da Vinci i Raffaello da Urbino (e scordiamo
Tiziano, Giorgione, Antonello eccetera eccetera). Ebbene, Caravaggio
sente forse che sarà lui l'ultimo che a questi sommi sarà
avvicinabile? Abbiamo già scritto per commentare il Narciso
(un quadro che basta guardarlo per ritrovare quasi tutti i motivi
che abbiamo ricordato). Ma non era Caravaggio il pittore degli stupefatti
e meravigliosi giovani con frutta, strumenti e pelli quasi trasparenti?
Proprio una figura per antonomasia della bellezza come Narciso diventa
così ombrosa? Narciso si guarda pensoso: sta per cadere forse
e la sua immagine si è formata per un solo attimo nello specchio
d'acqua. Finendo il Cinquecento, Caravaggio sente che è finito
il tempo. È finito il tempo come luce divina, come propensione
alla serenità, come spazio e tempo assoluto. Michelangelo sa
che il tempo moderno che comincia forse proprio con lui è quello
dell'attimo, dell'istante, del dramma e del bivio. Ogni momento può
presentarsi come quello della scelta, della morte o della vita.
Antonino Saggio
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[15oct2006] |