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Il libro The Origins of Modern Architecture rivela l'interesse della cultura
anglosassone per la cronaca. In questo caso si tratta di una raccolta antologica che, attraverso 27 articoli tutti provenienti dalla
rivista americana "Architectural Record", fornisce un quadro, nelle intenzioni "oggettivo", del dibattito
architettonico che percorre quel paese dal 1891 al 1916. Il curatore Eric Uhlfelder introduce ne "L'arrivo dell'età moderna" i
temi principali. Innanzitutto l'impetuoso sviluppo economico ("La nazione era letteralmente in movimento e spingeva ad ovest
costruendo nuove città dappertutto") e allo stesso tempo l'instabilità del sistema con la grande crisi del 1893, la ripresa dopo il
1897 e di nuovo il panico del 1907.
In ogni caso "le opportunità abbondavano" in una fase che è ricordata come
quella della seconda rivoluzione industriale. Il curatore ricorda poi gli eventi più importanti della architettura. Innanzitutto
l'invenzione della costruzione a scheletro, adoperata per la prima volta coerentemente nel 1885 nel famoso Insurance Building di Chicago
di William Le Baron Jenney, poi l'esposizione colombiana del 1893 e il dibattito tra storicismo e Art Nouveau con il ruolo a seconda dei
casi di avanzamento o di ritardo attribuito a questo movimento artistico. Secondo Uhlfelder "seguendo la tendenza dell'Art Nouveau
verso le forme naturali, Wright abbracciò un'architettura organica caratterizzata dall'integrazione di contesto e pianta, forma e
materiale".
Insomma attraverso la raccolta di articoli di tipo,
taglio e carattere diverso (da brevi note di commento, a testi di bilancio, da reportage o studi sulle grandi trasformazioni urbane, da
una dettagliata analisi della costruzione del "vero tipo americano" -il grattacielo- a testi dedicati alle nuove realizzazioni
in particolare a New York) si fornisce un quadro su un'epoca di sicuro ottimismo e fiducia.
Leggere la selezione di articoli qui
riproposta è senz'alcun dubbio interessante per lo specialista e forse anche per un lettore curioso a un "com'erano" gli
architetti americani di quegli anni soprattutto perché assieme ai testi vi è un'ampia selezione di foto d'epoca che anche, o forse
grazie, alla loro stessa patina ci trasmettono i contorni di un'epoca.
Ma gli stessi testi cosi montati e scelti sembrano anch'essi
patinati e levigati e le tensioni, i contrasti, le crisi quasi assenti. Il curatore non vuole scorticare i nodi di attrito preferendo una
pacata quanto pragmatica selezione documentaria. Il suo approccio si manifesta, oltre che nell'Introduzione, anche nella ripetitività di
articoli sul tema dell'edificio alto e sulla contemporanea omissione di altri temi pur presenti nella stessa rivista (come l'articolo sui
fratelli Greene, che forse al lettore di oggi avrebbe fatto piacere rileggere, o a quelli sul tema del disegno del paesaggio su cui "Architectural
record" in parecchie occasioni si soffermò).
Gli articoli di maggior peso come "Twenty Five Years of American
Architecture" di A.D.F. Hamlin del luglio del 1916 sono saggi di puro establishment culturale. Qui si glorifica l'invenzione
della struttura a scheletro e ancor più il ruolo dell'Esposizione Colombiana del 1893; si cita appena di sfuggita il lavoro di Sullivan e
neanche una parola è spesa per il ribelle, e in quel momento socialmente poco raccomandabile, Frank Lloyd Wright. La grande acquisizione
su cui i soloni della critica di AR si soffermano è il trionfale arrivo anche in America del neoclassicismo come quello della enorme
Pennsylvania Station a New York. Emerge in questo lungo articolo come anche in altri come "The art of High Building" di Barr
Ferree o "Architecture in the United States" di Claude Bragdon o "The New Architecture. the First American Type of Real
Value" di A.C. David una tesi di fondo: finalmente anche in America si è fatta strada una concezione di bellezza e dignità della
fabbrica urbana, le città non hanno solo una esplosione vitale quanto primitiva di eventi ma vi è posto anche per il decoro. Il
business, motore di ogni scelta architettonica americana, si deve confrontare con le regole interne alla disciplina, regole che finalmente
stanno prendendo piede perché le Università da quelle storiche a quelle di nuova fondazione hanno finalmente una solida impostazione
Beaux-arts arrivata dalla Francia.
Richardson
In questo quadro i tre
grandi che la storiografia ci ha consegnato come gli autentici innovatori dell'architettura di quel paese (Richardson, Sullivan e Wright)
assumono un ruolo secondario. Il primo è relegato a uno stile "inadeguato" alla nuova società americana, il secondo è citato
a bocca stretta vista la poco fortuna che ebbe dopo l'ondata di neoclassicismo, il terzo, come si è detto, è praticamente mai ricordato
negli articoli critici di quest'antologia.
Ma se il lettore vuole, attraverso questa stessa raccolta, è possibile anche tracciare
una "contro-storia" proprio a partire da un lungo e bellissimo articolo di Wright, riccamente illustrato e che occupa ben 66
pagine del libro. Wright nel marzo del 1908 tributa su AR un commosso omaggio a Sullivan e d'altronde per capire la grandezza di
quest'architetto basta confrontare le sue costruzioni con una grottesca opera pubblicata in un articolo della sezione "Architectural
Aberrations". Sullivan capisce come trovare una espressività organica alla struttura a scheletro, come evitare il "piling
up", il puro sovrapporre.
Wright, in questo suo "In the
Cause of Architecture", redatto quando ancora l'Unity Temple era in costruzione, segue una strada completamente diversa
dall'establishment. Nel suo articolo non attacca frontalmente ma i suoi principi, la sua filosofia, il suo orizzonte è opposto e la sua
parola chiave è sincerità. Sincerità dei materiali, dell'organizzazione funzionale, della rispondenza tra articolazione spaziale
interna e esterna. Uno dei modi fondamentali è trasformare il principio costruttivo della struttura a scheletro da idea puramente
utilitaristica a logica di conformazione spaziale. Nel suo Larkin Building e in tante e tante Prairie houses, Wright fa architettura
attraverso la dialettica tra potenti strutture portanti e schermi liberi. Le une sono indipendenti dalle altre ma insieme conformano
spazio e costruzione.
Il libro si segnala anche per altri due articoli; l'uno è un divertito scritto ("Paris School Days: How
the Student Lives and Works" di George Chappel) sull'atmosfera e sulle fatiche degli studenti nelle scuole di architetture nei giorni
della consegna. Ai computer e ai plotter che invariabilmente all'ultimo momento non rispondono più si sostituisce l'esaurimento delle
candele e l'urlo "sto disegnando al buio". L'altro articolo ("The Wild Men of Paris" di Gelett Burgess, pieno di
sottili quanto evidenti segnali di ammirazione anche extra artistici per gli artisti Bohemien) è un reportage veramente originale e
stimolante sui pittori fauves e cubisti. Emerge lo sconcerto insieme a un sincero bisogno di comprensione: forse "il brutto" è
diventata una categoria estetica? È bello quest'articolo in conclusione all'antologia. Ci spinge a riflettere su quanto le nostre stesse
convinzioni vadano sempre rimesse in gioco e come gli eventi della nostra cronaca quotidiana abbiamo bisogno di strutture interpretative
attraverso cui tentare di costruire, comunque e sempre, una storia. Almeno la nostra.
Antonino Saggio
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[26dec2000] |