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"Vent'anni fa, alcune esperienze dell'architettura radicale italiana furono
accolte quasi come scherzi goliardici: quando invece, per la prima volta, sia pure a un livello sperimentale, proponevano di sostituire,
finalmente, l'architettura del plastico con l'architettura delle cittą. Ma quelle esperienze, una decina di anni prima,
avevano, anch'esse, avuto un antecedente significativo (e altrettanto ignorato, o messo alla berlina): in una serie di progetti (di
laurea, di concorso) appartenenti ad un medesimo filone di ricerca avviato dal professor Giuseppe Samoną, insieme con giovani ricercatori
dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia".
Francesco Tentori, redattore capo della "Casabella" di
Rogers, autore di fondamentali studi su Le Corbusier e Pietro Maria Bardi, architetto e urbanista in Italia e in Sud America, professore
di progettazione urbana a Venezia, ripercorre quelle esperienze progettuali discutendone con i protagonisti.
Tentori vuole
riflettere ancora su quella fase pionieristica perché ritiene che i modelli elaborati siano validi, ma soprattutto perché crede
necessario "Ricominciare con il Moderno": riproporre cioč all'attenzione degli architetti i problemi, le contraddizioni, le
sfide di un mondo che si avvicina ai dieci miliardi di abitanti e che di quei progetti costituiva gią l'orizzonte.
Imparare da Venezia condensa queste idee attraverso l'esame di alcuni progetti poco
conosciuti o oggi dimenticati. Il primo č quello redatto dal gruppo Samoną per il concorso nazionale del Centro direzionale di Torino.
Siamo nel 1963 e in Italia č ormai scoppiato il benessere. Le faticose esperienze della ricostruzione postbellica -che avevano avuto un
campo di applicazione nei molti edifici dell'Ina-Casa- sono alle spalle. L'idea di comunitą e di quartiere, le prescrizioni del Manuale
dell'architetto o degli opuscoli dell'Ina Casa, il tentativo di disegnare progetti che ricordassero le realizzazioni nordiche di matrice
organica o i nostri aggregati rurali, lo sviluppo di una progettazione che tenesse conto anche delle scienze sociali, venivano a
rappresentare nell'Italia del boom un retaggio provinciale da "Paese dei barocchi". Ludovico Quaroni, a cui si deve questa
definizione, aveva vissuta quella fase e faceva pubblica autocritica non solo a parole, ma anche in un famoso progetto per le Barene di
San Giuliano a Mestre in cui proponeva l'esatto opposto di quanto progettato prima. All'ideologia del paese, sostituiva infatti una
dimensione territoriale dell'architettura perché i grandi emicicli sul lungomare intendevano essere strutture capaci di dialogare con
l'intera laguna.
Giuseppe Samoną aveva scritto alla fine degli anni Cinquanta un testo che divenne il fondamentale punto di
riferimento delle nuove idee: L'urbanistica e l'avvenire della cittą poneva in crisi l'urbanistica tecnica e prescrittiva dello
zoning per insistere sul fatto che era l'architettura stessa a fare la cittą. Alla Carta d'Atene, che riassumeva una visione quantitativa
e funzionalistica, si preferivano altre esperienze di Le Corbusier: come il piano Obus, dove una autostrada che conteneva ai piani
inferiori abitazioni e servizi si snodava per chilometri lungo il golfo di Algeri. L'architettura era diventava cittą e dettava i
rapporti con la natura, il paesaggio, il gią costruito.
Il tema delle grandi strutture terziarie e direzionali delle cittą
italiane (Torino, ma anche Firenze, Roma, Napoli, Bologna) appariva un programma calzante alle nuove idee e proprio il progetto di
Concorso del gruppo di Samoną ne costituģ una chiara applicazione. "Un solo immenso organismo edilizio fluente e elastico"
-scriveva Bruno Zevi- "in cui il processo di caratterizzazione segue le funzioni che, man mano, si precisano e si completano".
Un altro progetto pionieristico fu quello per la sistemazione della nuova Sacca
del Tronchetto a Venezia. Il gruppo di Samoną propose che tutte le funzioni del terminale ferroviario e marittimo fossero raccolte in due
isole artificiali che determinavano una forte e nuova immagine metropolitana. Ma la stessa tensione nel concepire l'architettura come
"fatto urbano" avveniva anche quando la scala era limitata al singolo edificio, come negli uffici della sede Anas di Palermo o
nella bellissima proposta per i nuovi uffici della camera dei deputati nel centro storico di Roma del 1965.
Questo nucleo di idee
(l'identitą tra architettura e urbanistica, la grande dimensione, il superamento dello zoning, l'autonomia disciplinare
dell'architettura dalle scienze sociali) anticipate nei progetti e nei libri di Samoną si travasarono nel lavoro dei collaboratori e dei
giovani docenti veneziani. Tentori ripropone all'attenzione un progetto di concorso del gruppo di Romano Chiviri e Costantino Dardi per
l'ospedale di Venezia. Non solo č un ulteriore sviluppo del medesimo ragionamento, ma il fatto singolare, e finora quasi sconosciuto, č
che proprio questo progetto fu la base di riferimento per il progetto successivo per l'Ospedale di Venezia redatto dal grande Le Corbusier.
Le
idee generate da Giuseppe Samoną hanno iniziato a permeare l'intera cultura architettonica italiana quando, a partire dalla seconda metą
degli anni Sessanta, Carlo Aymonino e Aldo Rossi hanno elaborato una lettura "architettonica" delle trasformazioni urbane e
contemporaneamente hanno realizzato un importante manifesto costruito: le residenze popolari al Gallaratese di Milano. Molte opere si sono
susseguite come quella di Valeriano Pastor e collaboratori per l'ospedale di Larino vicino Campobasso, il campus scolastico di Aymonino a
Pesaro, la grande corte residenziale di Rozzol Melara di Carlo Celli, il quartiere Zen a Palermo e l'Universitą della Calabria di
Vittorio Gregotti sino al Corviale di Mario Fiorentino, l'edificio di un chilometro che definisce un argine tra cittą e campagna nella
periferia occidentale di Roma.
"Imparare da Venezia", per gli architetti che si sono formati negli anni Settanta nelle
facoltą di architettura italiane, divenne d'obbligo: voleva dire riferirsi a una costruzione teorica che da quella Universitą partiva,
tentare di dare risposta attraverso l'architettura a quelle che apparivano le grandi esigenze della societą, proporre nuovi modelli di
vivere, di costruire, di concepire il rapporto tra architettura e cittą. Che ai modelli proposti in quella stagione se ne siano - secondo
noi a ragione - progressivamente sostituiti altri fa parte della evoluzione del pensiero e delle idee, ma ha ragione Tentori nel ribadire
che oggi č proprio la sfida intellettuale e professionale che di quel momento fu il dato caratterizzante a essere superficialmente
seppellita da una vacua "architettura del plastico".
Uno dei credo del funzionalismo fu coltivare l'illusione che
attraverso un processo concentrato sulla risoluzione di singoli problemi (l'alloggio, il sistema di distribuzione, la distanza tra
i fabbricati in rapporto all'altezza, l'uniforme esposizione solare eccetera) si potesse arrivare a creare la cittą. Ma gią negli anni
Cinquanta e Sessanta si sperimentņ che un processo "dal cucchiaio alla cittą" non riusciva a reggere negli esiti il confronto
con gli ambienti urbani precedenti. Č proprio nel ribaltamento di questa concezione sommatoria e analitica che la cultura italiana ha
dato un fondamentale contributo e molto grazie alla lezione di Samoną e della Scuola di Venezia.
In realtą Imparare da Venezia
lancia anche una speranza. Le idee, i concetti, i progetti possono trasformare la realtą, anche se nel loro farsi sono nebulosi, incerti,
contraddittori. Ecco perché, a volte, serve fare a posteriori una cronaca, come questa difficile ma appassionante.
Antonino Saggio
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[30dec2000] |