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Texaco di Patrick Chamoiseau è uno dei libri più belli che abbia letto. Lo consiglio
perciò a tutti. Ma in particolare agli architetti, agli urbanisti-sociologi, a chi cerca nella complessità del terzo mondo nuove
domande. Perché è uno dei più belli? Naturalmente per tante ragioni mescolate.
Andando per ordine, direi:
1. Ha il
carattere epico-storico di molta letteratura del Sud America (vedi Marquez). La storia si sviluppa, attraverso il succedersi delle
generazioni dai tempi della schiavitù ad oggi. Un arco di circa duecento anni. La scena è la medesima, la Martinica francese, ma i
luoghi si trasformano con le persone. Inoltre, mentre siamo abituati a conoscere gli influssi della cultura spagnola e portoghese
nell'America del Sud, meno noti sono quelli di origine francese.
Memorabili qui sono le pagine dedicate al 1848 con il decreto di
abolizione della schiavitù, il miraggio della libertà dalla terra rivoluzionaria di Francia, l'impatto della sua letteratura e della sua
lingua. L'autore pare ne inventi una tutta sua. Come dice Kundera, "non mescola francese e creolo per creolizzare il francese ma per
chamoisizzarlo". Naturalmente questo aspetto si perde in italiano. Ma sulla spinta della bella traduzione, si potrebbe riscoprire
l'originale.
Questo carattere epico-storico crea la struttura forte del libro, ne dà l'impalcatura. Vi è inoltre la struttura del
flashback. La protagonista principale (Marie-Sophie Laborieux, fondatrice della bidonville di Texaco, "una vecchia capressa, molto
alta, molto magra, con un viso austero, solenne, e con occhi immobili") ricorda il padre, il nonno, la madre e le loro storie
scrivendole in dei quaderni che saranno quelli che userà il Tracciator di Parole, (montandoli insieme alle osservazioni del
Cristo-Urbanista, chiamato per radere al suolo Texaco).
2. Il romanzo naturalmente tratta congiuntamente della morte e della
vita. E lo fa rivelando, o almeno a me è parso, il rapporto tra Storia e Progetto.
La Storia ha a che vedere con la scrittura (per
definizione, se non sbaglio). La Storia (il valore, la testimonianza del passato) attraverso la Scrittura diventa una delle armi più
importanti dell'umanità per sconfiggere la morte. È quello che fa Marie-Sophie nei suoi quaderni, che a volte tiene sulle ginocchia,
seduta di fronte alla baracca, come per farsi forza e compagnia. (Tra parentesi, il ruolo della religione, l'altra tecnica umana per
esorcizzare la morte, è qui messa in subordine. La religione è narrata come superstizione, come rito infantile. Il romanzo è
profondamente laico: la Storia è il vero culto dell'uomo sembra dire l'autore).
Giancarlo De Carlo
Ma dall'altra parte c'è il Progetto. Tutto il libro è anche la storia del rapporto tra
la città coloniale ("Incittà") e città spontanea. Mille volte costruita e mille volte demolita sino alla sua affermazione di
esistenza.
Ora se la Storia è passato (morte), è in primis Scrittura, il Progetto è futuro (amore), ed è, quindi, Disegno.
Questa possibile interpretazione si dipana nel libro in mille rivoli. Alla presenza dell'amore (visto sempre, incredibilmente per un uomo,
"tutto al femminile" come accoglimento e progetto) sono dedicate pagine bellissime, ma anche nei particolari, vi è lo stesso.
Lo scrittore si chiama Tracciator di parole. Come se disegno e scrittura, futuro e passato, nel fare romanzo debbano essere
indissolubilmente legate.
3. Il libro è una miniera di migliaia di altre cose. Fornisce chiavi per creare nella mente
l'associazione giusta, la metafora indimenticabile. Al rapporto tra città spontanea e città costruita o di cemento per esempio è
dedicata questo paragrafo:
"Nel cuore antico: un ordine chiaro, governato, standardizzato. Attorno: una corona ribollente,
indecifrabile, impossibile, mascherata dalla miseria e dai pesi oscuri della Storia. Se la città creola avesse avuto a disposizione
soltanto l'ordine del centro, sarebbe morta. Ha bisogno del caos delle sue frange. È la bellezza ricca dell'orrore, l'ordine fornito dal
disordine. È la bellezza palpitante nell'orrore e l'ordine segreto in pieno disordine. Texaco è il disordine di Fort-de-France; penso:
la poesia del suo Ordine. L'urbanista non sceglie più tra ordine e disordine, fra bellezza e bruttezza: ormai s'innalza all'arte: ma
quale?".
5. Nel libro oltre a tutto questo e alle cose che ciascuno, dopo, porterà sempre con sé, c'è' una tensione
nascosta, un fine ultimo. È quello verso la poesia. La scrittura ne è come di nascosto, con pudore, punteggiata. E la poesia in questo
romanzo di città, di storia e di progetto, di morte e d'amore, di scrittura e disegno non può che essere, incredibilmente pare se non lo
si è ancora letto, rivolta come ultima sfida a noi.
"Dell'urbanista la Dama fece un poeta. O meglio: nell'urbanista lei
chiamò il poeta".
Antonino Saggio
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[31dec2000] |