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Biennale Architettura, pensieri interrotti

Pietro Valle



Perché si dovrebbe parlare di specificità della Biennale Architettura quando, nelle ultime edizioni, è diventata una sommatoria di progetti accostati senza criterio a cui è appiccicato un concept a posteriori?

È possibile mostrare l'architettura, così tanta architettura, e renderla comprensibile? Non sembra. Plastici, video e renderings ad libitum: si produce un mostruoso effetto cumulativo in cui le identità si annullano e tutti sembrano compiere le stesse mosse progettuali. Più sono gli edifici in mostra e meno differenze incontriamo: è un rapporto inversamente proporzionale.

Più che presentare la varietà dell'architettura contemporanea, la Biennale, col suo formato, denuncia una generale omologazione che accumula progettisti e contesti diversi condannati a recitare le stesse forme. Ma forse, questa è la realtà dell'architettura contemporanea: una morbida prigione che si stringe sempre di più.

Che fare di fronte alla quantità di progetti da mostrare: dividiamoli in categorie. Queste costruiscono una mappa di riferimento. La mappa, tuttavia, non coincide con la realtà, è solo un'approssimazione. Le categorie finiscono per mescolarsi: le superfici diventano topografie, le topografie atmosfere e così via.

Le Corderie: le gondole di Asymptote denunciano lo scarto tra virtuale e realtà invece di colmarlo. Sono uno spreco di energia progettuale e costruttiva che produce una modesta scatola in cartongesso piegato. Nascosta dietro di esso vi è una struttura di travi reticolari curve prodotte con software 3d. La realtà è nascosta dietro alla scenografia, serve solo per farla stare in piedi.

Gli espositori, con le loro superfici forzatamente curve, costringono ad un secondo piedistallo sospeso sopra di essi per esporre i plastici. Altro che libertà dello spazio curvo! Qui si celebra il supporto del supporto. L'allestimento blob richiama il vassoio o la bacheca ortogonale: è il ritorno del rimosso... o del ridondante.

Percorrere le Corderie trasversalmente: siamo condannati ad attraversare più volte gli stessi plastici di fronte e sul retro senza riconoscerli. O a strisciare a lato di questo girone dantesco che reitera la condanna ad essere eterni spettatori.

Topographies uguale Surfaces e viceversa: c'è completa reciprocità. Tutto è un flusso curvo ma ha poco spessore. L'earthwork è diventato una pezza di tessuto di cui si celebrano le pieghe: non ha, non può avere inerzia. Altrimenti come si modella?

Transformations: il decorated shed è diventato soffice e avvolge morbidamente i programmi funzionali e i metri quadri necessari alla speculazione edilizia.

Plastici e renderings, le armi della presentazione, sempre e solo quelli. Chi sa leggere una planimetria? Ma quello è un residuo dell'era dell'astrazione. Ora tutto è presente, vi è completa coincidenza tra realtà e rappresentazione...

La sconfitta dei diagrammi. Non ve ne sono molti nelle presentazioni in mostra. Anche se ambiscono al ruolo di icona consumabile, richiedono in realtà troppo tempo per essere letti. Sono quindi relegati ad un ruolo marginale, a lato in basso.

Antirappresentazione: l'avvolgersi in involucri sinuosi annulla qualsiasi carattere degli edifici. I musei sono uguali agli uffici e agli aereoporti, si assomigliano tutti. In realtà, questo international style funziona meglio per complessi collettivi, preferibilmente privati e con molto budget. Dov'è l'edilizia di base? Dov'è l'abitare? Dove andremo a casa? Affari vostri, questo non c'entra con l'architettura.

È questa l'avanguardia? Ma le tecniche comunicative dell'avanguardia, lo choc, sono state appropriate dalla comunicazione pubblicitaria. Ogni innovazione è introdotta immediatamente nel circuito di consumo. Non esiste più un'avanguardia al di fuori del conformismo ma solo produttori di novità da dare in pasto al pubblico. I profeti dell'innovazione sono pubblicitari mascherati da critici.

Tutto è sottoposto ad una riduzione. Il digitale diventa rendering, l'architettura icona. Questa mostra non incoraggia le possibilità dell'innovazione, le riduce all'essenziale, a quello che serve. Il tempo perduto della ricerca non è considerato.

Atmospheres: anche la luce e la materia diventano figure. L'edificio è parcellizzato e ne vengono isolate delle parti, dei feticci tattili. Neanche la fisicità regge più all'impatto dell'immagine. Non c'è più realtà, non più architettura costruita. A quale edificio appartiene quel frammento di muro?

Hyperprojects: ma che cosa c'entra la piscina di Alvaro Siza con i megadevelopments speculativi in Cina?

A quale luogo appartengono le foto che inframmezzano i progetti? Dove sono quei paesaggi? Celebrano la texture delle superfici ma non è dato sapere se sono micro o macroscopiche.

La frammentazione, mito della contemporaneità, deve essere forzata tutta in un'immagine, in una sola. Gli edifici diventano espressionisti (che termine desueto...) perché devono mostrare tutto e subito. Non possono dispiegarsi nello spazio (irrappresentabile) o nel tempo (annullato). Non possono disperdersi nel contesto, sono sempre e solo un'eccezione. Peccato che le eccezioni stanno diventando troppe...

Gli architetti sono sottoposti allo stress di elaborare un'immagine per ogni uscita mediatica: bisogna continuare a sfornare progetti. Se poi uno di questi va avanti, è necessario tradurlo in costruito (con tutta quella fastidiosa diminuzione dell'effetto dell'immagine...). La materia sembra diventata una zavorra.

C'è, tuttavia, una contraddizione nell'affidare la comunicazione agli architetti: essa può essere un'avventura ma loro sono conservatori, devono sempre fissare le cose. Chi lascia i problemi aperti? Chi sa porre domande in un mondo di presentazioni?

Città d'Acqua: la strumentalizzazione delle immagini non è solo pubblicitaria, è politica. Il progetto spettacolare è usato per le strategie più o meno limpide delle amministrazioni pubbliche. In politica tutto è possibile: mutilare un edificio esistente con un rendering (il progetto di riuso dei magazzini del porto di Trieste), trasporre Bilbao in ogni città (Cina o Taiwan) e infilare un tozzo scatolone di policarbonato nelle Gaggiandre del Sansovino annullandone lo spazio acqueo.

I giardini: come sempre, qualcosa si salva. La possibilità di poter fare delle mini-mostre a tema supera l'episodicità dei progetti ridotti a particelle di una serie infinita senza differenze.

Gli architetti sono sempre informati e riusano (anche inconsapevolmente) quello che consumano. I ricordi si mescolano alle elaborazioni e vengono fuori citazioni incongrue. Il nastro rosso sull'asse dei giardini, per esempio, è una versione povera di Marsyas di Anish Kapoor (ve lo ricordate, il gigantesco trombone di gomma nella Turbine Hall della Tate Modern?).

Padiglione Italia, labirinto e specchio dell'identità nazionale: si ha sempre il dubbio che sia sfuggito qualcosa, che ci siano delle stanze che non si trovano.

Notizie dall'interno: è vero che le cose più interessanti sono avvenute nelle piccole cose, in quei luoghi chiusi dove si può sperimentare. Ma, tutto sommato, non è forse sempre così? Anche lo studio dell'artista è più sicuro della piazza pubblica. Il privato, tuttavia, non giustifica l'assenza di un discorso su un esterno di cui siamo tutti responsabili.

Andrea Branzi un giorno raccontò che la rivoluzione architettonica più radicale è stata quella dell'invasione degli impianti nel costruito esistente. Prospettò un mondo di vecchi appartamenti invasi da reti e canali che penetravano i muri: "Queste cose", disse, "hanno portato nel privato cambiamenti ben più radicali dell'architettura". Se così fosse, una mostra come Notizie dall'interno potrebbe eliminare completamente la progettazione. La realtà non è così coraggiosa, la mostra è autoindulgente, dà l'illusione agli architetti di potersi ritirare nel privato e continuare a creare. Poi ci sarà sicuramente qualche rivista milanese che pubblicherà...

Peter Eisenman riunisce Palladio, Terragni e se stesso in un'installazione che sembra il prodotto di un sonno interrotto dove molteplici sogni si accavallano ma non si integrano.

La Torre di Babele di Scolari è rotta in due pezzi ed è appoggiata per terra. Lascia intravedere un meccanismo a ghiere all'interno. Ricorda la macchina che macina il cioccolato nel grande vetro di Duchamp. Se iniziasse a rotolare macinerebbe anche il pubblico...

Eladio Dieste nel sottoscala. Lui era riuscito a fare le superfici curve con cemento e mattoni ma forse era troppo serio e i materiali troppo poveri.

Ivan Leonidov, alla fine della vita, dipinse su tavole di legno una summa delle sue visioni irrealizzate. Anch'egli è posto nel sottoscala del Padiglione Italia, come un ricordo che si vuole celebrare e parallelamente rimuovere. Mentre il rendering in CAD dell'Istituto Lenin perde tutta l'aura del progetto originario, le foto delle tavole lignee mostrano l'arcaica forza dell'utopia, una forza che travalica qualsiasi formato e si imprime come un'icona sacra. Jerzy Soltan, che lavorò per Le Corbusier per vent'anni, ricordava che questi scherniva tutti i colleghi contemporanei eccetto Leonidov. Di fronte al suo nome si arrestava come rapito da un terrore invincibile. Chissà chi può comprendere una tale lucidità nel marasma della Biennale...

Le sale concerti, con la loro ermeticità, giustificano i giochi formali che articolano un involucro opaco. Le più innocue sono quelle ipogee (UFO e Berger+Parkkinen) ma la loro è una sconfitta: si sotterrano per dichiarare che è impossibile avere un esterno.

Modi di mostrare 1: la sala multimediale (Corea, Danimarca, Portogallo) mutua dall'arte l'installazione e dal negozio il videogioco. È in fondo l'espressione più onesta della ricerca di comunicazione. Tenta tante strade senza fissarsi in una sola.

Modi di mostrare 2: Lo pseudo workshop situazionista invade il padiglione francese. Ci sono tante intenzioni, abbozzi, interviste, si vuole produrre l'atmosfera dell'azione. Si conclude poco ma ci sarà sicuramente un documento programmatico per la prossima puntata.

Modi di mostrare 3: l'esposizione seria del costruito (Spagna, Paesi Nordici) risulta assurda rispetto alla ricerca comunicativa altrui. Dimostra tutti i limiti del ridurre un edificio a foto in un light box. Si dovrebbero proibire questi formati e richiedere uno sforzo a tradurre l'architettura in elementi espositivi più articolati.

Modi di mostrare 4: il gabinetto didattico (Olanda). Lo guardi per capire che il diagramma è diventato territorio o per rimanere alla superficie di un cassetto estraibile?

Il mondo degli Otaku (Giappone) è una perfetta sintesi dell'intera Biennale: troppo in troppo poco spazio. Se solo Forster avesse avuto il coraggio di chiedere agli architetti in mostra delle case di bambola invece che delle ordinarie presentazioni, avremmo avuto un'intera mostra così. C'è poi una premonizione: un giorno guarderemo l'architettura su un monitor sdraiati a letto in una cameretta superaccessoriata. Tutti quegli edifici saranno come sogni di un mondo esterno dove non osiamo più avventurarci.

Tentativi di traduzione dell'architettura full scale in una mostra senza fare fiera dell'edilizia con le campionature: il Canada e l'Irlanda sono gli unici che ci provano. Le matrici metalliche di Saucier+Perrotte e il telaio ligneo di O'Donnell e Tuomey sono analoghi e reali allo stesso tempo. Sono brani di pensiero tettonico e invasioni nello spazio fisico. I due di Dublino, poi, sono tra i pochi ad associare a questo un discorso sul sociale.

Il panorama del padiglione tedesco nasconde invece di rivelare le architetture neo-moderne che si producono in quel paese. Non si capisce dove finisce la continuità e dove inizia il fotomontaggio. Il Deutschlandschaft è un piano-sequenza indifferenziato.

"Il corpo umano è il principale strumento di comunicazione spaziale nella megalopoli africana". Una frase che suona più o meno così è iscritta su un muro del padiglione belga che presenta Kinshasa. Questa evocazione di una presenza fisica (peraltro assente o puramente accessoria in tutte le architetture della Biennale) ha probabilmente conquistato al Belgio il Leone d'Oro. Il debito del colonialismo è diventato formula politically correct ma almeno qui qualcuno ricorda che il corpo trasuda energia e occupa lo spazio in maniera non indifferente senza bisogno di costosi apparati.

Sguardi Contemporanei: 50 Anni di Architettura Italiana: come al solito le istituzioni nazionali vanno sul sicuro e celebrano il passato già conosciuto. Al turista culturale offrono le opere dei maestri del dopoguerra mentre fanno ben poco per promuovere i contemporanei. Per tenere in vita i numi tutelari si smobilitano critici e fotografi. Questi ultimi sono posti in risalto mentre i progettisti vanno quasi in secondo piano. Siamo arrivati all'autocelebrazione dei compilatori...

Questa Biennale dimostra che non esiste rottura, opposizione o alternativa. Tutto viene reintrodotto nel circuito comunicativo. Come stabilire le differenze? Dove impostare dei punti fissi quando tutto è trascinato dentro e rischiamo di rimanere perennemente fuori, di essere irriconoscibili? È ancora possibile cominciare qualcosa? Con queste domande aperte crolliamo sulla prima panchina dopo un'intera giornata in piedi.

Pietro Valle
pietrovalle@hotmail.com
[26sep2004]

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