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Manuel Orazi



SEI DOMANDE SU METAMORPH, 9. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITETTURA, LA BIENNALE DI VENEZIA

 
Manuel Orazi (Macerata, 1974) frequenta un dottorato di eccellenza in storia dell'architettura e della città presso la Scuola di Studi Avanzati di Venezia; collabora con la casa editrice Quodlibet. Ciò che mi ha sempre divertito in una Biennale di architettura è notare la discordanza fra ciò che alcuni visitatori dicono a voce durante la vernice e ciò che in seguito dicono per iscritto. Per restare fedele al detto di Oscar Wilde, "mai fidarsi delle prime impressioni: sono quelle giuste", ho posto cinque domande identiche –più una personalizzata- ad altrettanti interlocutori incrociati a Venezia durante l'inaugurazione e raccolte nei giorni immediatamente successivi. Gli interlocutori di questo forum hanno punti di vista dissimili (un critico, un docente, un urbanista, un architetto, un editore), vivono in luoghi distanti fra loro, in alcuni casi non sono neanche lettori abituali di ARCH'IT e l'unica cosa che li accomuna è l'età: tutti sono trentenni, me compreso. La speranza era quella di poter offrire cinque letture discordanti di questa Biennale, in grado di guardare al di là della pura occasione.

[08oct2004]
  Circa quarant'anni or sono "Casabella" pubblicò un'inchiesta (1) dove furono poste sei domande a "un certo numero di architetti rappresentativi per matura esperienza o maggior giovinezza", alcuni dei quali allora sconosciuti: ne risultò uno spaccato né accademico né disciplinare dell'architettura italiana e in alcune risposte (2) sono oggi leggibili i prodromi delle direzioni diverse che alcuni dei partecipanti avrebbero imboccato negli anni successivi. Più modestamente, la mia ambizione è quella di contribuire a chiarire alcune posizioni in campo oggi, non solo in Italia, in un contesto globalizzato del tutto diverso da quello dell'ultima direzione di Ernesto Nathan Rogers.

Manuel Orazi
manuelorazi@virgilio.it
1. Casabella continuità, n. 251, 1961, numero monografico dedicato all'inchiesta.
2. Per esempio quella di Aldo Rossi, Luciano Semerani e Silvano Tintori –in quel momento tutti intorno ai trent'anni-, ora in Aldo Rossi, Scritti scelti sull'architettura e la città 1956-1972, a cura di Rosaldo Bonicalzi, CittàStudiEdizioni 1995, pp. 145-156.
 
  Sei domande a:

GIOVANNI DAMIANI, Venezia
FILIPPO DE PIERI, Torino
LUCIO GIECILLO, Roma
EMANUELE MATTUTINI, Londra
LUCA MOLINARI, Milano
 
SEI DOMANDE A GIOVANNI DAMIANI

Non hai l'impressione che i progetti alle Corderie suddivisi nelle categorie individuate da Kurt Forster (topografia, superfici, atmosfera, iper-progetti), in fondo finiscono per assomigliarsi un po' tutti? Non pensi che sia inquietante quanto siano limitate le soluzioni formali che gli architetti più noti sembrano passarsi come in una partita di football americano?

 
Giovanni Damiani (Trieste, 1972) ha studiato allo IUAV di Venezia; ha curato, fra gli altri, una monografia su Bernard Tschumi uscita in Italia, Gran Bretagna e USA nel 2003. Ti confesso che a un certo punto ho confuso un plastico di un progetto con le tavole di un altro, o progetti si assomigliano proprio tanto e la suddivisione aiuta a omologare il tutto. Non si capiva bene se Forster, che stimo, abbia voluto mostrare che al tempo di oggi tutto è uguale o se lo stato dell'arte è davvero così omologato. Il divertente è che pare che tutti facciano a gara per rilanciare perennemente su cose più strane, forme più spinte, curve più curve e poi alla resa dei conti tutti sono identici, mi ricorda per certi versi la televisione, dove tutti fanno a gara per essere più e sempre più e poi non distingui un programma dall'altro. Gli architetti hanno scoperto di poter giocare con le regole dello showbiz ma si sono dimenticati di studiare e di fare ricerca. A parte pochissimi che sono quelli che hanno inventato alcune ricerche e che portano avanti in maniera per lo meno coerente il resto sia in un momento di grande confusione di stasi. Nel Football americano ci sono moltissimi schemi e mi pare ci si passa la palla una volta sola, fatico a comprendere, mi pare più una partita di calcio, pochi schemi, spettacolo tristolino, pochi goal e i presunti campioni che si passano la palla davvero poco...

L'allestimento, la segnaletica e la grafica degli Asymptote mi sono parsi inferiori all'attesa: io credo che per spingersi oltre la tettonica vitruviana non basti essere profeti dell'era digitale, specie se non si conoscono i fondamentali dell'architettura tradizionale, rischiando appunto di partorire architetture convenzionali, per non parlare del catalogo, inferiore persino agli standard della Marsilio; pensi anche tu che sia sopravvalutato come studio professionale?

Vitruvio nessuno sa più chi è e i fatti dimostrano che non è un bene, ma sarebbe tragico se adesso ci mettessimo a rimpiangere Vitruvio o le antichità e i "bei tempi andati". Il presente è ricco di possibilità e c'è molto da fare nel nostro tempo per agire in maniera contemporanea. Il problema nella cultura Pop pare possibile agire senza sapere nulla di quello che si fa, anche se non è per nulla così. Faccio un esempio stupido, prendi Tarantino agisce e crea in un orizzonte assolutamente pop e contemporaneo, ma questo non lo esenta da citare e usare tonnellate di materiale e di strategie filmiche, il che è frutto di studio. Insomma tutto per dire che studiare nel nostro tempo è più che mai utile, io nella gran parte dei progetti esposti all'Arsenale vedo molta voglia di esserci, di vincere concorsi, di avere incarichi, ma non vedo il perché avere questi incarichi, qual è il vero motivo per svolgere i progetti che queste commesse affidano, oltre alla parcella intendo. Forse è una critica eccessiva ma non si sente nessuna tensione, non dico sociale che troverei ancora una cosa auspicabile, ma per lo meno una necessità di confrontarsi con dei temi di ricerca. Il progetto di allestimento è perfettamente in linea con tutto il resto, quello che mi pare interessante non è vedere se l'allestimento è bello o brutto, ma che è uno dei più spazialmente convenzionali di sempre, insomma i disegni tutti uguali messi sulle pareti tutti in linea, i percorsi perfettamente lineari a seguire lo spazio. Ortogonalità perfetta, quasi simmetria, tutto bianco, insomma dove sarebbe questa ricerca sullo spazio nell'ortogonale, sulle nuove geometrie, spero non negli allestitori a "gondola", non solo per la banalità degli stessi o dell'idea della gondola, ma perché non erano altro che dei tavoli su cui appoggiare normalmente dei plastici. Sui plastici poi c'è da dire che sono tornati ad essere dei veri e propri modellini di qualcosa di finito e non uno strumento di ricerca sulla spazialità. Gli unici modelli che provavano a dire delle cose su come funziona lo spazio del progetto o che danno un contributo a comprendere le spazialità erano quelli di Eisenman per la Galizia al padiglione Italia. Per il resto erano modellini chiusi in teche che servivano solo a farci vedere come è bravo l'architetto (o meglio il plasticista), anche i materiali sono tornati ad essere copie della realtà: il legno fa il legno, il plexiglas rappresenta il vetro, i muri sono bianchi... ogni forma di astrattismo pare rimossa. Devo dire che in anni non sospetti avevo provato a dire che il mondo digitale conteneva aspetti di retroguardia assoluta e non nasceva dalle istanze più attente e sperimentali del dibattito ma da quelle più formaliste, ho il sospetto di averci preso.

Per questo ritieni che Peter Eisenman meritasse, anziché quello alla carriera, il Leone d'oro per la migliore installazione?

È in parte una boutade, credo che Eisenman meriti dei grandi riconoscimenti per tutto quello che ha dato al dibattito e all'architettura in questi anni e nella sua bella e fortunata carriera, ma penso che sia un una fase molto viva e attiva e che vada guardato ancora con grande attenzione.
I premi alla carriera quando sono meritati sono ottimi riconoscimenti, ma credo che Eisenman sia stato il protagonista più positivo di questa Biennale e che andava riconosciuto questo aspetto in qualche modo. Come sai mi sono sempre interessato al lavoro di Eisenman e anche se ho posizioni diverse sull'architettura trovo la sua ricerca molto interessante, ma oggi meritava un plauso speciale, di stampo educativo se vuoi, perché mi pare tra i pochissimi che continuano a fare ricerca sull'architettura. Non condivido né l'autonomia esclusiva, né un'architettura fatta di solo forma, ma in questa Biennale fatta davvero di poco era commovente che qualcuno avesse speso del tempo a pensare un progetto specifico per la mostra, a mettere in atto una ricerca, a verificare delle ipotesi. Il progetto nel centro del padiglione Italia è un frutto dei lavori di ricerca didattica e la somma del lavoro che conduce sia professionalmente sia come insegnante e questo pone anche il problema delle scuole. Insomma il problema è ancora quello del fatto che si fa pochissima ricerca, non si fa più nelle scuole, non sulle riviste, non sui libri che sono occasioni pubblicitarie, non alla Biennale, non nella professione, ma allora quando e dove? Eisenman continua il suo lavoro con grande coerenza e forza e credo che questo oggi sia di grande conforto e debba essere un ottimo insegnamento per tutti, per questo mi sarebbe piaciuto un premio non alla carriera ma proiettato sul presente.

Trovi sia efficace la proposta di rilettura degli anni '80 attraverso il supposto dualismo proposto in apertura delle corderie –sulle note di I will survive– fra le coppie Eisenman/Gehry, vincente, e quella Rossi/Stirling, data per perdente? Credi che l'architettura contemporanea discenda dalla prima genealogia e non abbia più a che fare con la seconda?

Quella sala è molto triste, come ti ho detto mi auguro che Forster abbia fatto "apposta" a farci vedere quanto tutto sia uguale, ma allora la sala iniziale aveva una ruolo importante per farci vedere delle che qualcuno anni fa faceva ricerca, ma non è certo con una Gloria Gaynor e quattro foto che si sistema il problema. Le scritte sono zeppe di errori e banalità: "negli anni '80 Gehry fece edifici a forma di pesce...", è un'idea completamente superficiale della storia non degna di una persona intelligente e molto ficcante come Forster. E poi quelle scritte sono zeppe di errori. Le ricerche di Rossi e Stirling, come quelle di Eisenman e Gehry, sono molto precedenti agli anni '80 e nascono in situazioni ancora precedenti, mi pare proprio di una superficialità assoluta e questo oltre a far perdere una bella occasione per riflettere su questi quattro autori secondo me rovina anche l'idea che quella sala serva a bilanciare il vuoto spinto che segue. Mirko Zardini con la sua mostra sugli interni italiani in fondo riesce molto meglio a essere critico della situazione. Io le due coppie non le vedo, sono tutti molto diversi tra loro, Rossi e Stirling sono assai diversi, se proprio dovessi proverei a mettere nella stessa famiglia Stirling con Eisenman, entrambi figli di Colin Rowe.

È opportuno che l'architettura italiana debba continuare a inventarsi nuove forme di rappresentazione, magari ricercate, come "notizie dall'interno" di Mirko Zardini rinunciando a segnalare anche solo un paio di giovani architetti? Dopotutto, di riffa o di raffa i grandi vecchi riescono comunque a infilarsi – vedi il padiglione Darc.

La mostra di Mirko Zardini ha delle debolezze, ma non certo quella del coraggio. C'è poco in Italia, io detesto lamentarmi e le frignate all'italiana, ma in parte perché si costruisce lentamente e i bravi hanno meno occasioni che altrove, in parte perché politica e leggi non aiutano, ma tra chiamare altri Bellini -vogliamo dirlo che nessuno ha capito cosa c'entra Bellini?- e far vedere che facciamo fatica a uscire dalla dimensione degli interni io credo sia più coraggioso dichiarare uno stato di difficoltà. Zardini io credo che questo coraggio lo abbia avuto, ora dobbiamo dimostrare che la prossima volta ci saranno edifici e ricerche che non si possono lasciare a casa.

Se uno si spinge al padiglione del Darc può vedere progetti e architetti che si devono guardare e studiare. Oggi questa ricchezza non c'è e dobbiamo lavorare per trovare dei Gino Valle e farli lavorare bene, non lamentarci che non si chiamano dei giovani a esporre cose non costruite.
A proposito di Darc mi spiace dirlo ma Gregotti che sceglie se stesso è stata una delle cose di peggior gusto della Biennale, cose che succedono solo in Italia - spero. Gregotti è una fetta importante della ricerca di questo paese, ha scritto molto, anche cose importanti, ha costruito davvero tanto, non capisco proprio perché abbia dovuto autopromuoversi così, mi ha messo tristezza.

Cui prodest "Città d'acqua"? A collazionare finanziamenti pubblici o solo a rinfrescarsi con le bottigliette offerte ai visitatori? Io sono del parere che sia un'inutile vetrinetta in stile paraministeriale.

"Città d'acqua" è una parrocchietta paraministeriale, la definizione è molto carina, peccato perché l'idea di un padiglione galleggiante è bella, l'oggetto stesso mi è piaciuto, il bar era carino e poi "Città d'acqua" è una bellissima istituzione, ma il tono paraministeriale resta. Temo che tutta l'Italia sia una parrocchietta paraministeriale in questi anni bui... ti ricordo che Totti è l'uomo simbolo della nazionale di calcio... non so se hai visto l'altra sera che bella atmosfera in tribuna vip nella capitale, che eleganza, che stile.
   
SEI DOMANDE A FILIPPO DE PIERI

Non hai l'impressione che i progetti alle Corderie suddivisi nelle categorie individuate da Kurt Forster (topografia, superfici, atmosfera, iper-progetti), alla fine finiscono per assomigliarsi un po' tutti? Non pensi che sia inquietante quanto siano limitate le soluzioni formali che gli architetti più noti sembrano passarsi come in una partita di football americano?

Filippo De Pieri (Torino, 1968) ha un assegno di ricerca e insegna Storia dell'urbanistica al Politecnico di Torino. Cura le pagine su città, territorio, infrastrutture del "Giornale dell'Architettura". Concordo con la prima parte della domanda. Si esce dalla mostra delle Corderie con l'impressione di aver visto sempre la stessa cosa. Si tratta, credo lo si debba sottolineare, di una scelta curatoriale. Una scelta curatoriale molto esplicita e chiaramente leggibile in mostra. Non so se questo ci dice qualcosa sul modo in cui lavorano gli architetti contemporanei. Forse ci dice qualcosa sull'approccio molto formalistico e in ultima analisi molto povero di strumenti critici con cui questa Biennale guarda all'architettura contemporanea. Anche le chiese gotiche o le ville palladiane o le architetture razionaliste ci sembrerebbero tutte uguali se ci limitassimo a constatare che hanno tutte qualche guglia, un portico, una fenêtre en longueur. Hanno invece smesso da tempo di sembrarci tutte uguali perché in molti ci hanno spiegato a), che forme molto simili possono avere un significato diverso, e b), che i processi di diffusione delle forme non sono tutti uguali: le ragioni storiche che fanno sì che le chiese gotiche, le ville palladiane, o le architetture di questa Biennale si somiglino non sono le stesse. Si potrebbe qui citare una vecchia frase di Lewis Mumford contro "l'incapacità di afferrare la differenza, familiare agli studenti di biologia, tra forme omologhe e analoghe. Una forma simile non ha di necessità un significato simile in una cultura differente", e, aggiungiamo pure, in un contesto differente. Alcune di queste architetture si somigliano. D'accordo, e perché si somigliano? Difficile rispondere finché ci si limita a osservare, un po' tautologicamente, che un guscio è un guscio, una membrana una membrana, una curva una curva.

L'allestimento, la segnaletica e la grafica degli Asymptote mi sono parsi inferiori all'attesa: io credo che per spingersi oltre la tettonica vitruviana non basti essere profeti dell'era digitale, specie se non si conoscono i fondamentali dell'architettura tradizionale, rischiando appunto di partorire architetture convenzionali, per non parlare del catalogo, inferiore persino agli standard della Marsilio; pensi anche tu che sia sopravvalutato come studio professionale?

D'accordo sul fatto che il progetto grafico di questa Biennale è piuttosto deludente. L'allestimento delle Corderie però è leggibile e soprattutto molto in risonanza con l'impostazione della mostra. Immagino che per un allestimento possa essere un pregio. La parola "profeti" mi sembra ben scelta. Sottolinea bene la totale mancanza di ironia e di autoironia che caratterizza qui il lavoro di Asymptote e, a ripensarci, anche la mostra nel suo insieme. Almeno in questo senso (vedi domanda successiva), lo spirito di Rossi e Stirling non abita questa Biennale.

Trovi sia efficace la proposta di rilettura degli anni '80 attraverso il supposto dualismo proposto in apertura delle corderie -sulle note di I will survive- fra le coppie Eisenman/Gehry, vincente, e quella Rossi/Stirling, data per perdente? Credi che l'architettura contemporanea discenda dalla prima genealogia e non abbia più a che fare con la seconda?

Se Bruno Zevi fosse vivo e fosse alle Corderie, forse direbbe (come gli era capitato di dire negli ultimi anni) che "ha vinto l'architettura organica". Cito lo Zevi degli ultimi anni perché alcuni dei suoi slogan meno memorabili sembrano sovrapponibili al tipo di operazione critica con cui si ha qui a che fare. La sala di apertura è una delle parti più deboli di Metamorph. Non se ne capisce la ragione in una Biennale che basa buona parte del proprio armamentario comunicativo su metafore biologiche ed evoluzionistiche. La mostra di un paio d'anni fa su Herzog & de Meuron al CCA di Montreal, curata da Philip Ursprung (mostra che di Metamorph rappresenta in qualche modo un antecedente), aveva almeno il merito di giocare fino in fondo il gioco dell'analogia e farci vedere qualche pezzo di vetro, un fossile o due. Qui nemmeno una conchiglia. Se davvero, come Forster proclama, l'architettura sta attraversando una fase di vera e propria mutazione genetica, sarebbe stato utile spendere qualche parola, qualche immagine per raccontare in cosa consiste questo cambiamento.

È opportuno che l'architettura italiana debba continuare a inventarsi nuove forme di rappresentazione, magari ricercate, come "notizie dall'interno" di Mirko Zardini rinunciando a segnalare anche solo un paio di giovani architetti? Dopotutto, di riffa o di raffa i grandi vecchi riescono comunque a infilarsi - vedi il padiglione Darc.

"Notizie dall'interno" è una mostra interessante. Tra l'altro contiene anche alcuni lavori di giovani architetti. Se provo a pensare alle cose che si potrebbero fare per promuovere la nuova architettura italiana, forse la Biennale non mi sembra il luogo su cui è più urgente intervenire.

Cui prodest "Città d'acqua"? A collazionare finanziamenti pubblici o solo a rinfrescarsi con le bottigliette offerte ai visitatori? Io sono del parere che sia un'inutile vetrinetta in stile paraministeriale.

Non l'ho vista.

Il Leone d'oro per il padiglione nazionale è stato assegnato al Belgio che presenta la capitale di una sua ex colonia, Kinshasa, sottolineando la dimensione politica insita nella pratica dell'architettura, una dimensione che per il resto sembra totalmente assente - con l'eccezione della sezione Neuland al padiglione Israele. Non credi sia un paradosso?

Preferirei intendere il termine "politica" in un'accezione più ampia. Le dimensioni politiche e sociali dell'architettura possono essere molte. È un peccato che questa Biennale (ma anche quella che l'aveva preceduta) le trascuri quasi tutte. Presenta oggetti singoli, astratti da ogni contesto, di cui non sappiamo neppure se sono stati costruiti oppure no. Così facendo, non contribuisce molto ad analizzare uno stato dell'architettura che (questa è una diagnosi che in molti, non solo Forster, hanno pronunciato negli ultimi tempi, sia pure con accenti diversi) sembra presentare alcuni tratti di novità anche radicali. Per capirci qualcosa mi sembra più utile ragionare sulle pratiche, sul modo e le condizioni in cui si fa oggi "architettura", che sulle forme o le genealogie.
   
SEI DOMANDE A LUCIO GIECILLO

Lucio, forse per marcare una propria distanza, ha preferito rispondere per esteso [MO]

Biennale, cui prodest?

Lucio Giecillo (Taranto, 1971) ha studiato a Venezia, laureandosi in architettura allo IUAV; dal 2001 vive e lavora a Roma dove frequenta il dottorato in Politiche del Territorio e Progetto Locale presso l'Università Roma Tre. Caro Manuel, cercherò di rispondere alle tue sei domande, ponendone una settima, con il proposito di ripercorrere idealmente l'itinerario da te proposto. Intanto trovo molto più che legittima, necessaria oserei dire, la tua preoccupazione, di aprire il dibattito non solo agli addetti ai lavori. Questo per la semplice ragione che quando è in gioco il futuro della città -intesa come ambiente di vita dell'uomo- cui l'architettura, unitamente ad altri saperi, è chiamata a 'dar forma' - si tocca inevitabilmente l'interesse di tutti.
Mi chiedo dunque, se abbia senso o meno, oggi, parlare della Biennale d'Architettura di Venezia, come di un'Istituzione in grado di rappresentare un momento significativo di riflessione sulla società attuale e soprattutto, se costituisca ancora un'occasione reale di comprensione della realtà urbana che le fa da sfondo.

La domanda non ammette evidentemente una risposta univoca e mette in gioco una pluralità di aspetti, tutti in qualche misura correlati. Come, ad esempio, la consapevolezza di una rinnovata modalità di circolazione della conoscenza, che fa seguito, come è noto, alla crescente diffusione delle tecnologie dell'informazione -pure con i tanti differenziali di accessibilità che ancora permangono- in un'epoca caratterizzata dalla condivisione su scala globale dei saperi. Ma non solo. Le nuove modalità di diffusione del sapere implicano una riarticolazione del discorso sulla fruizione della conoscenza che mette in questione la natura stessa dell'evento culturale come istituzione in grado di dare forma alle istanze di condivisione e di scambio insite nelle nuove modalità di apprendimento. La fibrillazione della nozione stessa di spazio, che segue alla circolazione fluida della conoscenza, può rappresentare il secondo asse di una riflessione che coinvolge più da vicino la realtà urbana in questione, come nodo di una fitta rete di relazioni trans-locali di comunicazione e di scambio in un mondo interamente globalizzato.
Pur non volendo fare alcuna apologia del digitale, risulta, tuttavia, difficile non chiedersi come sia stato possibile non aver posto alcuna attenzione al fatto che i padiglioni espositivi della Biennale, riproducano un'immagine quanto mai superata di una concezione del sapere statica ed elitaria; come non immaginare, almeno in forma simbolica, di dedicare a questa problematica una trattazione differente? Come ancora motivare la decisione di confinare in un unica area della città l'intera manifestazione, ignorando l'ipotesi di farne vettore, perché no, d'esplorazione di aspetti meno noti e spettacolari, ma forse più problematici, della realtà territoriale veneziana?

È evidente che neanche queste considerazioni, di ordine puramente generale, rientrassero tra le preoccupazioni dell'organizzazione e, per certi versi, non c'è neanche da meravigliarsene.
Ho trascorso ben due pomeriggi in giro per i Giardini assolati della Biennale, durante, i giorni dell'inaugurazione e ne ho ricevuto un'impressione, come dire, piuttosto avvilente. Un senso di sgomento paragonabile forse solo allo spaesamento che mi ha sopraffatto alla vista di una Piazza San Marco completamente obliata dalla presenza dell'ennesimo carrozzone hollywoodiano.
Ci si aggirava tra i padiglioni con la sensazione di 'navigare a vista', accompagnati solo dall'inquietante sospetto, di cui pure è testimone la gloriosa tradizione marinara locale, di finire incagliati tra gli scogli affioranti della noia e del senso di già visto che sembrava pervadere i padiglioni. Senza contare la delusione derivante dalla quasi totale assenza di dibattito che caratterizzava per negazione, le due giornate di apertura.
Come riflesso di ciò, e quasi a dispetto del fatto di trovarsi nel bel mezzo di una realtà regionale tra le più ricche e sviluppate del mondo, collocata a ridosso della linea di confine tra l'Europa dei Quindici e le realtà dell'allargamento, non il minimo riferimento viene fatto alle problematiche trans-frontaliere; né tanto meno si sente l'esigenza di cercare un confronto tra la realtà economica, produttiva e sociale locale e il vicino contesto europeo. Così, quasi da subito, si avverte il sospetto che Metamorph intenda replicare uno spettacolo già visto e che l'obbiettivo di fondo sia solo quello di ribadire il diritto di una città, di preservare il proprio carattere di vetrina passiva, mero contenitore mediatico a elevato contenuto narcotizzante, per un evento che poco o nulla concede alla domanda di cambiamento che il territorio solleva.

Per un certo tempo si è pensato che in una realtà come Venezia, l'allarme maggiore derivasse dall'acqua (moto ondoso, acqua alta e via discorrendo), come del resto, nel passato, gran parte della sua fortuna e ricchezza. Ma come si possono ignorare, oggi, i molti problemi che vengono dalla sua "terra-ferma": crisi dei distretti industriali, aumento della disoccupazione nei segmenti meno qualificati della forza lavoro, migrazione ad est delle imprese... per non parlare della pesante eredità di un territorio ormai quasi completamente desertificato ed eroso da una cultura imprenditoriale predatrice. Questi alcuni dei problemi che mi sarebbe piaciuto che una Biennale più riflessiva affrontasse. La totale assenza di una riflessione allargata su questi temi testimonia come, in fondo, l'illusione della merce, così fortemente connaturata alla cultura del nostro tempo, abbia inesorabilmente coinvolto anche i segmenti più riflessivi della società. Come la logica dello scambio tende ad occultare il processo che soggiace all'offerta sul mercato di un determinato bene, così dell'architettura si preferisce ignorare la domanda di fondo che il progetto è chiamato a soddisfare o più in generale il processo che la genera che (non dimentichiamolo!) rimane di natura essenzialmente sociale. Ma non l'utente-consumatore finale, che è evidentemente necessario imbonire con ogni sorta di lusinga.
Così, la visita delle Corderie finisce per rafforzare questa percezione iniziale.
Addobbate a festa per l'occasione da un famoso studio di architetti newyorkesi, esse appaiono poco più che la mostra di se stesse. Una sorta di museo archeologico del progetto, simulacro di un'architettura come prodotto autoreferenziato, completamente svincolato da qualsiasi contesto. Beninteso, non sostengo che mancassero i riferimenti planimetrici, che anzi abbondavano, con il rischio però di apparire più simili a quei bigliettini da visita degli alberghi, che, sul retro, recano una piccola cartina per non smarrirsi nel raggio di qualche centinaio di metri. Ma come orientarsi nel quadro di realtà urbane, economiche e sociali, distanti tra loro e che non dialogano se non per un patto tacito e compiacente di omologazione al comune linguaggio del mercato e che sembrano rinunciare a qualsiasi opzione per lo specifico locale? Come del resto, non sospettare di tanta ostentazione di muscoli tecnologici e cosmetici, che inneggiano così acriticamente al nuovo mentre ripropongono immagini stereotipate di un futuro da cartone animato?

D'altra parte, mi rendo conto di come sia sin troppo facile obiettare che si tratti semplicemente degli effetti (speciali?) ineludibili del processo di globalizzazione dei mercati, della cultura, delle opinioni, con i prevedibili rischi di omogeneizzazione delle idee che detto processo comporta, e che si tratti altresì di fenomeni ormai noti da tempo al mondo della cultura. Certo, quella architettonica sembra aver rinunciato un po' affrettatamente ad elaborare una posizione critica rispetto a una rappresentazione che la vuole nuova, sfavillante, griffata, che pretende che faccia uso dei più recenti ritrovati tecnologici o che più semplicemente incrementi, anche solo di qualche decimale, il prodotto interno lordo di un paese. Forse questo potrebbe in parte giustificare quel senso di 'già visto' o di 'tutto uguale' che si percepiva visitando gli interminabili corridoi delle Corderie. Ma se è così, mi chiedo a cosa potesse servire lo sforzo, per quanto generoso, compiuto da Asymptote, di rifare l'acconciatura a questi meravigliosi edifici; cosa avrebbero potuto escogitare, mi chiedo, che non fosse già nelle possibilità di un allievo dell'Alberti, circa seicento anni fa, a fronte di una domanda, come dire, superata in partenza? Ne deriva una rappresentazione dell'architettura degna forse di un museo di scienze naturali, con una sequenza ininterrotta di soluzioni progettuali 'sotto spirito'; una galleria noiosissima di elaborati costruiti con le più avanzate tecnologie informatiche, che tuttavia restituiscono poco più che un'immagine sbiadita di un ipotetico futuro che pochi, credo, ammetterebbero sinceramente di desiderare.

In questa Biennale non era presente alcun riferimento al territorio, come giustamente fai notare anche tu, né la benché minima attenzione allo spazio dell'abitare (eccezion fatta per il timido tentativo di rappresentazione del paesaggio della diffusione urbana al padiglione tedesco), sacrificato alla logica dei grandi progetti e dei 'luoghi notevoli'. Non un accenno alla realtà insediativa dell'immigrazione e alla nuova domanda di città che si accompagna alla diffusione crescente di pratiche informali e 'non previste' di uso dello spazio.
Pur tuttavia, un'immagine della città emerge, anche con forza, dal ventre di questa Biennale. Anzi, a mio parere, si tratta di un'immagine anche piuttosto nitida. Una città in cui non si abita, se non in splendide residenze immerse nella natura scandinava. Una città in cui 'tutti' si riversano ogni sera fuori di casa, ma non in strada o nelle piazze come sarebbe lecito aspettarsi, bensì al cinema o in altri luoghi 'protetti'. Una città nella quale si partecipa instancabilmente a serate mondane in splendide concert hall (vedi padiglione italiano). E per coloro ai quali non fosse toccato in sorte di vivere in prossimità di qualche meraviglioso waterfront rigenerato (vedi la sezione "Città d'acqua" alle Gaggiandre), non resta altro che consolarsi con letture chilometriche (come suggeriscono al padiglione francese) oppure approfittare per provare a risolvere, una volta per tutte, i problemi di incomunicabilità familiare, secondo l'esempio lanciato qualche chilometro più in là, negli stessi giorni, da alcuni registi italiani in concorso nella parallela Mostra del Cinema.
Verrebbe da dire, in definitiva, che, più che di un'occasione di riflessione collettiva, allargata ad un pubblico più ampio di non-solo-architetti, si è voluto, con questa Biennale, salvo rare eccezioni, rimarcare la distanza con il mondo 'fuori' dall'architettura, che la città, grande assente di questa rassegna, in qualche maniera rappresenta. Sarebbe stato più coerente e forse anche più divertente curare un catalogo-vacanze, magari ben impaginato, con riferimenti ad architetture fantastiche e misteriose, in paesi sconosciuti e affascinanti, ma lontani preferibilmente dalla cultura delle nostre città.
   
SEI DOMANDE A EMANUELE MATTUTINI

Non hai l'impressione che i progetti alle Corderie suddivisi nelle categorie individuate da Kurt Forster (topografia, superfici, atmosfera, iper-progetti), in fondo finiscono per assomigliarsi un po' tutti? Non pensi che sia inquietante quanto siano limitate le soluzioni formali che gli architetti più noti sembrano passarsi come in una partita di football americano?

Emanuele Mattutini (Recanati, 1973) ha studiato a Pescara, Venezia e Delft. Ha lavorato presso l'OMA di Rem Koolhaas e per David Chipperfield; attualmente lavora presso Norman Foster and Partners a Londra, dove vive. Credo che forse il problema stia nelle categorie che sono state usate. Sono d'accordo con l'ipotesi di fondo di questa Biennale, secondo cui l'architettura sta vivendo un periodo di profonda trasformazione che finirà col renderla irriconoscibile, ma condivido meno le categorie usate per decodificare questa metamorfosi: l'architettura contemporanea è profondamente segnata da fenomeni ben precisi come la ridefinizione del concetto di "pubblico", il cambiamento climatico (gli edifici sono oggi responsabili del 40% delle emissioni di CO2!) o la mutazione del contesto urbano in cui essa si insedia, mentre le categorie di Forster finiscono solo col suggerire che essa sarà solo un po' più amorfa, colorata, traslucida. Per questo motivo ritengo che l'edizione 2004 non costituisca un'antologia rappresentativa della produzione architettonica contemporanea e sia piuttosto un'occasione mancata per fare seriamente il punto sullo stato della professione e della disciplina in un momento effettivamente cruciale nella storia dell'architettura.

L'allestimento, la segnaletica e la grafica degli Asymptote mi sono parsi inferiori all'attesa: io credo che per spingersi oltre la tettonica vitruviana non basti essere profeti dell'era digitale, specie se non si conoscono i fondamentali dell'architettura tradizionale, rischiando appunto di partorire architetture convenzionali, per non parlare del catalogo, inferiore persino agli standard della Marsilio; pensi anche tu che sia sopravvalutato come studio professionale?

Onestamente non sono mai stato particolarmente interessato alla loro ricerca. E ammetto che mi sorprende la tua perplessità su una loro possibile sopravvalutazione perché negli ambienti in cui mi muovo io non godono di quella celebrità che sembra trasparire dalla tua domanda.

Trovi sia efficace la proposta di rilettura degli anni '80 attraverso il supposto dualismo proposto in apertura delle corderie –sulle note di I will survive– fra le coppie Eisenman/Gehry, vincente, e quella Rossi/Stirling, data per perdente? Credi che l'architettura contemporanea discenda dalla prima genealogia e non abbia più a che fare con la seconda?

L'architettura contemporanea è un fenomeno poliedrico difficilmente riconducibile a una sola genealogia che si è imposta sull'altra, come il mero risultato di una guerra fredda architettonica nella quale è prevalsa una sola superpotenza. Molti degli architetti prominenti del momento hanno scarsamente a che fare con i background che citi tu. Ho l'impressione che questa sia piuttosto una interpretazione del mondo dell'architettura per certi versi strettamente riconducibile alla "scuola veneziana" e che personalmente ritengo limitativa.

È opportuno che l'architettura italiana debba continuare a inventarsi nuove forme di rappresentazione, magari ricercate, come "notizie dall'interno" di Mirko Zardini rinunciando a segnalare anche solo un paio di giovani architetti? Dopotutto, di riffa o di raffa i grandi vecchi riescono comunque a infilarsi – vedi il padiglione Darc.

La tua domanda tocca una nota dolente del panorama italiano perché effettivamente stiamo pagando il prezzo del buco generazionale che si è creato a partire dagli anni Ottanta. Se escludiamo alcune eccezioni, non c'è stato effettivamente un ricambio generazionale in quanto non ci sono stati giovani architetti che riuscissero a susseguire ai vecchi maestri. Quale sia stata la causa è difficile dire (l'assenza di committenza? Le cattive scuole di architettura?), ma il risultato è che oggi sono ben pochi gli studi che riescono ad avere una presenza incisiva sul panorama italiano, per non dire internazionale. Ora che alcune grandi opere cominciano a ripartire (come i cantieri dell'Alta Velocità) c'è chi tuona contro l'esterofilia bigotta di un paese che affida i progetti agli stranieri per scrollarsi di dosso un complesso di provincialismo, ma in realtà non esistono in Italia molti studi capaci di affrontare progetti complessi come quelli perché non hanno né l'esperienza né le infrastrutture. Probabilmente nei prossimi anni le cose cambieranno, quando cominceranno a rientrare i molti giovani italiani che stanno accumulando esperienze professionali all'estero e che sapranno forse sbloccare una situazione attualmente ingessata. Per il momento non saprei dire se sia il caso di dover a tutti i costi tirare fuori due o tre nomi di giovani "promettenti" ad ogni Biennale pur di dover per forza dire che qualcosa nel sottobosco si muove. Certo che se poi l'alternativa è assistere a Gregotti che premia Gregotti allora il dilemma si fa veramente lacerante.

Cui prodest "Città d'acqua"? A collazionare finanziamenti pubblici o solo a rinfrescarsi con le bottigliette offerte ai visitatori? Io sono del parere che sia un'inutile vetrinetta in stile paraministeriale.

Sono probabilmente d'accordo con te. Sarebbe a mio avviso stato molto più interessante e lungimirante discutere piuttosto dell'urbanizzazione che si sta verificando intorno ai grandi nodi infrastrutturali come gli aeroporti, la cui scala è di gran lunga maggiore, come le relative problematiche e opportunità. Se si guarda attentamente a città europee come Amsterdam o Londra si comprende chiaramente come, nonostante i numerosi interventi di riqualificazione urbana nelle vecchie aree portuali dove si fatica a dirottare finanziamenti e utenti, la pressione maggiore della crescita urbana è invece esercitata in prossimità degli aeroporti. Questo è ancora più vero in quelle città che si stanno sviluppando in questi anni, e che non sono mai cresciute poderosamente intorno al loro porto o fiume, ma che hanno da subito fondato la propria modernità proprio sulla presenza dell'aeroporto, come per esempio Dubai.
La verità è che il tema della "Città d'acqua" è forse un tema oggigiorno datato poiché figlio di un dibattito che si era sviluppato negli anni '80, quando città europee come Barcellona o Amsterdam hanno cominciato a ripensare il proprio rapporto con l'acqua a seguito del declino dei propri porti. Proprio ad Amsterdam per esempio, la municipalità aveva avviato nei primi anni '80 imponenti politiche di riqualificazione dei docks ignorando volutamente la proliferazione di urbanizzazioni non pianificate intorno all'aeroporto di Schipol: circa dieci anni dopo ha dovuto, con non poco imbarazzo, effettuare una svolta di centottanta gradi nella propria politica urbana e rivolgere la propria attenzione a una situazione non più trascurabile.
È comunque chiaro che questo è un tema ancora largamente inesplorato e impegnativo da trattare, quindi poco adatto a un evento protocollare come la Biennale di Architettura.

Credi che la Biennale, nel bene e nel male, possa ancora avere una ripercussione diretta sulla prassi architettonica internazionale? Io non ci ho mai creduto veramente, nemmeno per la tanto celebrata edizione di Paolo Portoghesi del 1980: anche allora credo che tutto fosse già in atto (The Language of Post-Modern Architecture di Charles Jencks è del 1977), vedo ormai la Biennale quasi come una variabile indipendente, tu che ne pensi?

La mia opinione è forse implicita in alcune delle risposte precedenti. Non credo comunque che il problema sia tanto nel fatto che, come dici tu, "tutto è già in atto", o in altre parole che la Biennale manchi in originalità, ma piuttosto che non riesca a essere un'efficace camera di decantazione dei fenomeni, sempre più intricati e discontinui, che condizionano l'architettura e l'urbanistica. Per questo motivo ritengo che la sua ripercussione sulla professione sia relativamente scarsa.
Con la sua presenza mediatica sia temporanea (la mostra internazionale) che durevole (il catalogo) essa dovrebbe costituire un importante momento di riflessione e retroazione la cui risonanza sia mondiale, invece che una occasione per degli scoop come implicitamente suggerisci; e il fatto di essere basata in Italia, e in particolare a Venezia, fornirebbe poi l'opportunità di portare almeno il dibattito sul futuro dell'architettura in un Paese che stenta a realizzare opere significative.
   
SEI DOMANDE A LUCA MOLINARI

Non hai l'impressione che i progetti alle Corderie suddivisi nelle categorie individuate da Kurt Forster (topografia, superfici, atmosfera, iper-progetti), alla fine finiscono per assomigliarsi un po' tutti? Non pensi che sia inquietante quanto siano limitate le soluzioni formali che gli architetti più noti sembrano passarsi come in una partita di football americano?

Luca Molinari (Milano, 1966) ha studiato a Milano, Delft e Barcellona. È responsabile scientifico del settore architettura della Triennale di Milano e coordinatore editoriale per il settore design e architettura della casa editrice Skira. Il problema non è unicamente formale, anche se questa è una Biennale formalista a dispetto di quanto dichiarato dal curatore. Credo che ci sia anche una profonda inerzia nell'uso reiterato delle immagini senza mettere mai in discussione veramente il corpo dell'architettura reale. Credo sarebbe stato molto più interessante dichiarare la scelta di campo blob/decostruttivista, selezionare con forza meno opere e mostrare come queste opere disegnate o renderizzate stiano finalmente diventando architettura arrivando alla prova del nove. Dopo le prime deludenti prove (vedi chiesa metodista a New York di Greg Lynn) adesso cominciano a completarsi opere di maggior complessità e rilievo su cui varrebbe la pena soffermarsi con diversa attenzione. E poi non ci si può più permettere di mettere sul tappeto una marmellata così densa senza cominciare a costruire diverse categorie critico concettuali di analisi di quello che sta avvenendo.

L'allestimento, la segnaletica e la grafica degli Asymptote mi sono parsi inferiori all'attesa: io credo che per spingersi oltre la tettonica vitruviana non basti essere profeti dell'era digitale, specie se non si conoscono i fondamentali dell'architettura tradizionale, rischiando appunto di partorire architetture convenzionali, per non parlare del catalogo, inferiore persino agli standard della Marsilio; pensi anche tu che sia sopravvalutato come studio professionale?

No, non sono d'accordo. Trovo l'allestimento sensibile e interessante in rapporto soprattutto alle Corderie, mentre più debole è apparso quello dei Giardini. I commenti di Asymptote credo che partano da riflessioni più complesse e complessive su cui varrebbe la pena discutere a fondo ma che non tocca il progetto di allestimento che si confrontava con uno spazio forte e difficile; il pregio sta soprattutto nell'aver creato una sequenza chiara che non combatteva con lo spazio esistente e che cerca di giocare con lo stupore del visitatore di fronte a tanti materiali. Per quanto riguarda i volumi ho invece apprezzato il formato piccolo, non se ne può più dei formati enciclopedia, viva i libri tascabili anche per le situazioni più ufficiali e rituali!

Trovi sia efficace la proposta di rilettura degli anni '80 attraverso il supposto dualismo proposto in apertura delle corderie –sulle note di I will survive– fra le coppie Eisenman/Gehry, vincente, e quella Rossi/Stirling, data per perdente? Credi che l'architettura contemporanea discenda dalla prima genealogia e non abbia più a che fare con la seconda?

Mi sembra sinceramente una semplificazione imbarazzante anche dal punto di vista della resa allestitiva. La speranza era quella di trovare un vero e proprio piccolo spazio museale in cui confrontarsi anche feticisticamente con gli originali; una sorta di lettura critico-storiografica che non poteva essere liquidata con un carousel di diapositive e I will survive! Per quanto riguarda le dicotomie mi sembra che arrivino un poco tardi, superate dai fatti e dal fatto che se andiamo oltre gli stereotipi con cui di solito si leggono Rossi e Stirling si possa ancora ritrovare il nocciolo di un tema ancora caldo e centrale, per quanto si cerchi di rimuoverlo, quello del rapporto con la storia, la misura dell'uomo e della città, con il linguaggio come forma autonoma di espressione; tutti temi non risolti dalla prima cordata ma anzi seriamente affrontati dagli stessi autori americani, basti pensare al modesto ma significativo allestimento di Eisenman per questa Biennale.

È opportuno che l'architettura italiana debba continuare a inventarsi nuove forme di rappresentazione, magari ricercate, come "notizie dall'interno" di Mirko Zardini rinunciando a segnalare anche solo un paio di giovani architetti? Dopotutto, di riffa o di raffa i grandi vecchi riescono comunque a infilarsi – vedi il padiglione Darc.

Mah. La situazione italiana è complessa e in vera metamorfosi ed è paradossale che proprio questo cambiamento non venga segnalato in questa edizione veneziana. Sarebbe sicuramente stato più interessante da parte della Darc chiedere agli stessi critici/saggi di segnalare un'opera significativa degli ultimi cinque anni e non degli ultimi cinquanta! Giocare per giocare, almeno si sarebbero sollevati problemi più seri e urgenti. Per quanto riguarda la sezione Zardini io non la condivido politicamente (riporta la percezione dell'architettura italiana di quindici anni fa, quando si pensava fossimo bravi a fare solo interni domestici e commerciali), ideologicamente (mi innervosisce pensare che noi italiani viviamo 24 ore come se stessimo stabilmente tra le pagine di "Casa Vogue" o di "D casa", mentre la situazione italiana è più complessa, ricca e drammatica). Credo che il tema sollevato sia interessante ma volutamente troppo tagliato, una forma di masochismo inspiegabile che solo noi italiani riusciamo a generare. Per il resto continuo a pensare che ci sia una situazione generale di assoluto interesse che manca ancora di ragionamenti complessivi e programmatici.

Cui prodest "Città d'acqua"? A collazionare finanziamenti pubblici o solo a rinfrescarsi con le bottigliette offerte ai visitatori? Io sono del parere che sia un'inutile vetrinetta in stile paraministeriale.

Carino il padiglione, insignificante il contenuto, tra l'altro mancava proprio Venezia...

Io credo che la sezione meglio riuscita e la vera novità di questa Biennale sia "Morphing Lights, Floating Shadows", ovvero le fotografie scelte da Nanni Baltzer. Mi pare che l'affinità compositiva tra la fotografia e il progetto di architettura sia stato rilevato efficacemente oltre alla grande evidenza riservata ad alcuni autori (Armin Linke, Giovanni Chiaramonte) e ad alcune degli stessi architetti (Tadao Ando, van Berkel), soprattutto grazie alla giustapposizione dei temi fotografici a quelli architettonici in un'ideale continuità – in particolare alle Corderie. Un andamento nel quale io leggo tutta l'influenza dei pluriennali studi di Forster su Aby Warburg. Cosa ne pensi?

Sicuramente il tentativo (ancora troppo timido e poco aggiornato rispetto alla produzione corrente) di legare architettura a fotografia sia importante e abbia delle potenzialità da esplorare. La fotografia ha il dono della narratività di cui l'architettura ha molto bisogno e, ad esempio, lo splendido lavoro di Armin lo testimonia appieno con i suoi ritmi, i suoi silenzi e la sua acuta capacità analitica. Quelle immagini erano un racconto geografico e insieme una storia sociale delle Alpi.

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