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Esposizioni

Gli scollamenti del pluralismo

Pietro Valle



People meet in architecture recita il titolo della Biennale Architettura curata da Kazuyo Sejima. Dopo aver visto la mostra disseminata tra l'Arsenale e l'ex-Padiglione Italia ai Giardini, dopo aver traghettato tra i padiglioni nazionali con le loro direzioni centrifughe, sorge, tuttavia, un dubbio: dove sta l'architettura in cui dobbiamo incontrarci? Nel mondo reale, nelle rappresentazioni che cercano di tradurla in mostra o in altre forme spaziali che non c'entrano nulla col quotidiano? La domanda rimbalza tra ambienti, scenografie, installazioni, effetti speciali interattivi da cui si esce chiedendosi cosa essi realmente comunichino.

Trasognati, attraversiamo un giardino artificiale fatto di lievi meraviglie e ricco di effetti sensoriali. Spesso siamo noi a creare lo spettacolo, interagendo con luci, nebbie, finti ostacoli, presenze in stanze buie dall'intento chiaramente performativo. Il mezzo ha superato il fine e chiede a noi di dare una risposta o di incorporarla con la nostra presenza. Questa suspension of disbelief è la cifra della Biennale 2010 ma segna anche la sua irresolutezza. La gente s’incontra alla mostra e cerca l'architettura, la incarna (se, con architettura, intendiamo una qualche forma di spazio pubblico) ma, alfine, la smarrisce nell'evento effimero del suo consumo.

Lo sforzo per creare una comunicazione non didascalica voluto da molti degli invitati ha diversi effetti collaterali, il primo dei quali è quello di porre la questione di come trasmettere l'architettura, un quesito apparentemente banale ma, oggigiorno, per nulla scontato.



COMUNICARE È PERICOLOSO. Quando l'architettura non rappresenta attraverso la propria presenza fisica—quando non parla direttamente con un luogo, un uso, con i propri utenti o committenti—essa assume delle forme di comunicazione che la caratterizzano come entità isolata, che la riducono. Si può allora presentare sia attraverso le convenzioni di cui tradizionalmente si avvale il progetto che cerca di prefigurarla (proiezioni, disegni, plastici) sia attraverso altre forme comunicative atte a trasmettere efficacemente la realtà condivisa con gli eventi quotidiani (fotografie e altri mezzi audiovisivi). In alternativa, posta di fronte all'opportunità di esprimere un suo punto di vista in un ambiente separato (lo spazio espositivo), l'architettura può rinunciare al rimando a una realtà esterna (il costruito, là fuori) e proporre un'esperienza spaziale autonoma preposta per la mostra stessa e operante secondo i canoni del consumo informativo che la caratterizzano. Da qui il fiorire, sempre più numeroso negli ultimi anni, di ambienti, scenografie, eventi, performance e installazioni, spesso mutuate da una pratica artistica che, fuoriuscita da canoni disciplinari, propone situazioni spaziali che mescolano forme statiche provenienti dalla scultura e dalla pittura con altre desunte dalle arti del movimento (cinema, danza, teatro).

Gli architetti, spesso senza rendersene conto, usufruiscono di conquiste derivate dalla rivoluzione dell'Arte Concettuale che ha rotto le barriere tra discipline e canoni artistici per cui "Non ci sono più criteri formali o tecnici, né caratteristiche fisiche che escludano un oggetto o un processo dall'essere considerato "arte" e, da quel momento in poi, si è accettato implicitamente che esistono "forme d'arte" che non sono più "opere" in senso tradizionale. Ne conseguono due filoni, apparentemente diversi, ma in realtà collegati in modo sotterraneo. Da un lato vi è un'esplosione di nuove pratiche che aprono al reale in maniera non mediata cercando una corrispondenza più diretta con il flusso vitale dell'esperienza: ambienti, azioni, performance e installazioni formano il nuovo Expanded Field -come definito da Rosalind Krauss- e tentano di inventare nuovi spazi dotati di massima interazione pubblica e sociale. Dall'altro, in modo più mediato, gli artisti si riappropriano delle forme comunicative esistenti, sia quelle delle arti tradizionali sia quelle provenienti di altri campi, e le impiegano con la coscienza post-concettuale che esse non sono più legate a tecniche canoniche che legiferano come un'opera debba essere realizzata." (1)

La réclame commerciale ha appropriato alcune delle conquiste dell'arte -la rottura dei confini, la rilettura dei canoni- ed esse si sono indissolubilmente ibridate con i mezzi di comunicazione di massa. II blend di high e low culture proposto dall'arte (e dalla pubblicità più intelligente) ha travolto le barriere disciplinari proponendo un'affascinante trasversalità che seduce anche gli architetti. Essi, dopo un'iniziale diffidenza alla seduzione mediatica che ha portato alla ricerca di fondamenti della disciplina, si sono arresi alle sue lusinghe.

Alla Biennale 2010 troviamo una radicale opposizione tra i mezzi comunicativi disciplinari dell'architettura e le installazioni multimediali che adottano tecniche completamente diverse. Appare chiaro che le rappresentazioni tradizionali faticano a esprimere l'architettura con immediatezza, le loro astrazioni e proiezioni richiedono una traduzione. La mostra, invece, non sembra voler lasciare al pubblico spazio (e tempo) per approfondire. Si trasforma in una somma di eventi che, agli occhi della curatrice, sembrano incarnare la vera qualità partecipativa dello spazio collettivo. La seduzione del contatto diretto con il pubblico, del superamento della barriera disciplinare, è una grande tentazione. Molti degli architetti, tuttavia, si appropriano di modalità dell'arte e dei media in modo acritico. Non operano alcuna messa in discussione dei criteri che informano tali rappresentazioni, accettano semplicemente la loro efficacia comunicativa limitandosi ad affinarne le qualità estetiche.

Molte delle installazioni presenti a questa biennale, per quanto sofisticate, si riducono a scenografie di altre forme (teatrali, performative), senza porle in discussione. I più vasti ambienti alle Corderie non mostrano alcun interesse a stabilire un dialogo con una presunta disciplina del costruire, non si preoccupano neppure di definire la loro natura post-concettuale e post-architettonica. Si caricano di significati da teatralizzare o non si caricano di nulla, sono pura sensucht, sensazione, effetto, atmosfera. L'arte post-concettuale aveva disperso le discipline e cercato di produrre presenze ambientali. L'architettura di questa biennale si presenta come una caricatura di se stessa all’interno di uno spettacolo altrui.

Non è un caso che Sejima abbia invitato diversi artisti contemporanei -un caso paradigmatico è quello di Olafur Eliasson- rappresentanti di una recente tendenza tutta legata al sensismo, all'effetto, a un sublime percettivo che non spiega nulla e cerca di coinvolgere il pubblico al massimo livello. Se questi artisti sembrano rappresentare l'esatto opposto di qualsiasi elaborazione teorica, essi si avvalgono, tuttavia, delle libertà inaugurate dall'arte concettuale e ne sono coscienti. Gli architetti invece non sembrano accorgersene e, nella loro onnivora megalomania, cercano addirittura di definire una seconda natura con gli ambienti da loro progettati. Oltre alle pompe d'acqua in movimento di Eliasson ci sono le nuvole (o meglio la nebbia) di Transsolar con Tetsuo Kondo, la stilizzazione dello spazio con l’impalpabile telaio di Junya Ishigami e le propaggini tecnologiche filamentose del padiglione canadese.

Nel conflitto tra forme tradizionali e ambienti immaginifici, emerge in alcune presenze una terza tendenza più meditata e meno riconoscibile. Alcuni progettisti si muovono in più direzioni parallele, coinvolgendo progetto, promozione comunicativa, costruzione e post-produzione di manufatti senza priorità di un'azione rispetto a un'altra. È questa una forma di superamento dei confini tra teoria e prassi, tra virtualità e materia, tra messaggio e percezione, che considera un'operatività trasversale. Il progetto di architettura, volutamente incompleto, passa attraverso diverse fasi sia nella traduzione del disegno in forma costruita sia nella presentazione che ne è fatta dopo la messa in uso. Quest’ultima offre immagini molteplici e non è riconducibile a un unico punto di vista in modo da resistere a un consumo immediato (o a una sua rinuncia a favore di installazioni diverse dall'opera costruita in situ). La "deriva" delle idee e la scelta di sintesi incomplete, non è una negazione né dei mezzi di comunicazione classici né di quelli nuovi ma la proiezione dell'architettura in una condizione che potremmo definire post-mediatica con un termine coniato dalla critica d'arte Rosalind Krauss per descrivere alcune pratiche artistiche recenti. (2) Riconosciuta nella sua complessità, l'architettura non opera in un’unica dimensione significante, ma coesiste in diversi campi ognuno dei quali offre una lettura specifica di un insieme complesso. Non potendo singolarmente offrire una sintesi finale, le forme rappresentative si relazionano dialetticamente le une alle altre facendo interagire progetto, costruzione, documentazione.

Gli edifici non possono più essere riportati direttamente in mostra ma diventano fantasmi della realtà costruita esibendo il distacco tra esposizione e percezione: Tony Fretton e Mark Pimlott presentano così i ghost di tre loro case, grandi modelli schematici, presenze a metà strada tra un pezzo d'arredo e una scultura astratta, mentre un video proietta brani di vita vissuta al loro interno su uno schermo separato. La presenza fisica dell'architettura può essere ridotta a una riproduzione fuori scala (più grande del reale) di due travi per mostrare il tema dell'equilibrio precario che segna l'intera tettonica di una casa come fa Anton Garcia-Abril & Ensamble Studio. Il video della casa vissuta e il plastico di essa sono quasi schiacciati dalla presenza del frammento di reale riportato in mostra. Il costruito si sottopone a una sorta di autopsia nelle 7 Houses in 1 House di Architecten De Vylder Vinck Taillieu, invertendo i ruoli tra rappresentazione e progetto e riportando in mostra un edificio cadavre exquis formato da sezioni diverse montate in sequenza. Le disiecta membra compaiono anche nell'installazione Work-Place dell'indiano Studio Mumbai Architects: la materialità di legno stagionato dei componenti disseminati per la stanza fa quasi pensare a un magazzino di merci o forse di idee, mostrando il dispendio di energie che porta all'architettura. Toyo Ito, nel presentare il processo che ha portato all'invenzione della forma biomorfa dell'Opera House di Taichung presenta un caleidoscopio di frammenti di porzioni al vero, modelli, schizzi, disegni e foto. La costruzione, come il progetto, non appare mai conclusa e questo ne esalta la natura cellulare e potenzialmente riproducibile all'infinito. In una serie di successive stanze dei disegni di astratte architetture ambientali, volutamente grafici, si sovrappongono a fotografie di contesti reali. O è forse il contrario? L'ambiguità del rapporto tra rappresentazione dell'edificio e del contesto è esplorata dal team formato dai progettisti Kersten Geers e David Van Severen e dal fotografo Bas Princen. Nella loro presentazione, come in quelle citate, troviamo ambiguità, scarti e disseminazioni che riflettono sulla traduzione dell'architettura costruita in mostra ed evitano sia le rappresentazioni tradizionali sia l'effimero dell'evento installativo fine a se stesso.

I salti di scala presenti in questi lavori non sono da confondere con una semplice magnificazione di rappresentazioni tradizionali. Altri progettisti, ad esempio, pur tentando di presentare realtà costruite in modo alternativo, non fuoriescono dai canoni legati alla tradizione modernista o Beaux-Arts: i plastici a grande scala di Valerio Olgiati e le scheletriche strutture di Christan Kerez, ad esempio, non escono dalla logica del modulo amplificato e nulla dicono se non che l'architettura è ordinata da telai geometrici. Né serve, come fa Kazuyo Sejima all'Ex-Padiglione Italia o i fratelli Aires Mateus, presentare i propri edifici come accenti isolati in enormi plastici dove il contesto è amplificato (e, allo stesso tempo purificato) fuori misura in modo da farli risultare come idealistici oggetti assoluti.

Alcuni architetti cercano il dialogo tra l'architettura e altre discipline come il cinema, ad esempio, affidando al film il compito di raccontare una realtà complessa in modo da accogliere il flusso della vita che attraversa gli edifici. È il caso del Portogallo che affida a quattro registi il compito di descrivere altrettante abitazioni di progettisti (Siza-Vieira, Aires Mateus, Carrillo da Gracha e Bak Gordon) ambientando delle vicende narrative al loro interno. O di Kazuyo Sejima stessa, che in una delle sue numerose autocelebrazioni, affida a Wim Wenders il compito di raccontare il suo Rolex Learning Center a Losanna, un edificio configurato come un nastro di Moebius. La sensazione che si ricava da queste esperienze è che né l'architettura -usata come scenario- né il cinema -allineato su classici piani-sequenza- mettano realmente in discussione se stessi. Se l'intento era di rappresentare l'incontro delle persone negli spazi, questo appare possibile solo se ridotto a fiction. Fa un po' tristezza vedere Wenders, un regista che ha esaltato l'onnipotenza della comunicazione sin da Fino alla fine del mondo, che inscena uno stanco revival del Cielo sopra Berlino nell'edificio di Sejima. Nel film originale, gli angeli stavano nella Staasbibliotek e riflettevano guardando il mondo dall'esterno, appollaiati sul tetto o sui ballatoi del grande spazio a più livelli di Hans Scharoun. Nel film alla Biennale, gli angeli sono diventati il pubblico stesso e riflettono su se stessi in un tunnel vetrato che si chiude su se stesso. La rappresentazione non contempla più un esterno a sé ma, solidale con uno spazio di controllo, si chiude in un corto circuito che ritorna sempre su se stesso.

Troppo controllo uguale manipolazione e questo unisce sia le rappresentazioni tradizionali sia le apparenti libertà performative di molte installazioni alla Biennale 2010. Un eccesso curatoriale (o registico, o presenzialista) accomuna la sequenza della mostra, nulla è lasciato al caso, al dubbio, alla ricerca. Da questo punto di vista sintomatico è il caso del Padiglione Italiano che, nell'anelito di presentare sia ricerche sia costruito, assomma rappresentazioni tradizionali (i tavoli con foto e plastici nella sala di Laboratorio Italia) e installazioni (la piattaforma di Italia 2050). La prima è un po' affastellata e concede poco spazio ai singoli progetti (chi scrive è in mostra e soggetto a tale compressione), la seconda è forzata in un format teatrale (dei copricapi da guardare da un sottopalco salendo delle scalette) che riduce il potenziale spaziale e distrae dal messaggio che si vuole trasmettere. Nel voler generosamente includere troppe cose, il Padiglione Italiano non opera una scelta di campo e rischia di ricondurre le sue interessanti proposte ai cliché comunicativi presenti nell'intera Biennale.



JAPONISME. Il tentativo di ridurre l'architettura a un’impalpabile presenza quasi invisibile, il latente minimalismo di molte architetture, s’irradia dall'opera di Kazuo Sejima a molti degli invitati alla Biennale 2010. È un segno della presenza orientale, e in particolare giapponese, di questa mostra. Non c'è dubbio che nell'opera architettonica di Sejma e lo studio SANAA l'unione di astrazione, materialità ed essenzialismo abbia raggiunto una sintesi stilisticamente riconoscibile. È anche vero che essa si pone pienamente in una tradizione culturale giapponese recente condivisa con altri progettisti e presente in altre forme espressive.

Il Giappone, sin dal secondo dopoguerra, ha cercato di trovare un equilibrio tra una modernizzazione imposta (si pensi al trauma nucleare di Hiroshima o al boom del capitalismo d’importazione occidentale) e un'eredità del passato basata sulla ritualizzazione di ruoli sociali e di forme antropiche. Quest'ultima, come dimostrato da Roland Barthes, si basava spesso sulla riduzione a segni -ossia sulla stilizzazione- di elementi naturali e umani, i quali erano sintetizzati in ideogrammi che avevano un rimando diretto al naturalismo, scavalcando la dicotomia occidentale tra figurazione e astrazione. Con la modernizzazione questo equilibrio è saltato e i più intelligenti intellettuali giapponesi hanno cercato di esprimere l'alienazione dal passato in tre modi apparentemente opposti:

- Ritualizzando (e stilizzando) le forme del Moderno in modo perverso per mostrare la latente violenza che si cela dietro la tecnologia e giocando sulla sproporzione tra uomo e ambiente (si pensi ai romanzi di Yukio Mishima, alle performance di Gutai, ai film di Nagisha Oshima e, in architettura, alle macchine perverse di Shin Takamatsu o alle deformazioni dell'edilizia tradizionale del Team Zoo).
- Proiettando la tecnologia in un futuro fatto di macchine fuori scala che hanno un potere catartico rispetto al presente (e qui, oltre ai film di fantascienza, stanno le immagini radicali dei Metabolist, celebrati in questa Biennale al padiglione giapponese più per le loro cellule nomadi che per le megastrutture).
- Stilizzando la tecnologia e la tradizione figurativa moderna in controllatissime composizioni che riducono all'essenziale l'impatto visivo e celebrano il contatto con il corpo e la natura. È questa la tradizione cui appartengono stilisti di moda come Kenzo, musicisti come Sakamoto e architetti come Tadao Ando e Kazuyo Sejima.

Queste tre tendenze hanno uno sviluppo storico e passano dalla tensione etica del dopoguerra, all'utopia degli anni Sessanta-Settanta fino al loro accoglimento nel mainstream comunicativo nei decenni recenti. Definiscono una posizione specificatamente Giapponese nei confronti della cultura occidentale e la distinguono dalle altre culture orientali che recentemente si sono affacciate alla globalizzazione, perché esibiscono un'elaborazione critica molto avanzata.

La terza linea di ricerca che è stata tracciata, è quella che ha avuto più successo in occidente in quanto si lega a forme famigliari come la tradizione astratta moderna e il Minimalismo alleggerendoli del loro retaggio idealista e celebrando la percezione sensuale. È diventata, a volte, un genere di consumo abusato da diversi brand che citano il Minimalismo Zen per giustificare un patinato formalismo.

L'equilibrio delle controllatissime composizioni di Sejima e di molti dei rappresentanti di questa tendenza, per quanto formalmente insuperato, risulta fragile all'impatto con il reale. Riesce a esprimersi al meglio in situazioni eccezionali e in incarichi di alto livello che provvedono un’opportuna distanza dalle contraddizioni della città e del sociale. La presunta ecologia delle eleganti strutture di Sejima è spesso garantita dal vuoto che creano attorno a sé: le riflessioni multiple nei vetri curvati dei suoi lievi padiglioni sono l'equivalente dei muri di cemento dei fortilizi di Tadao Ando, i quali, non casualmente, erano spazialmente introversi e si chiudevano all'esterno. In questa difesa ad oltranza, in questo creare bolle isolate, c'è una risposta al caos della città giapponese (e contemporanea in generale), il ritagliare nicchie di sopravvivenza al suo interno. C'è, tuttavia, anche un ammiccamento a una comunicazione commerciale che isole singole icone decontestualizzate per renderle consumabili. Non è un caso che Sejima abbia prodotto edifici di successo in piccoli centri culturali in Giappone o in commissioni per strutture effimere (per esempio il padiglione-foglia alla Serpentine Gallery a Londra) mentre non è stata capace di tradurre le sue idee con budget più ristretti o programmi più complessi (Il New Museum a New York è un banale montaggio di scatole sovrapposte sfalsate, la scuola di design Zollervein a Essen è un asettico cubo di cemento che nulla dona all'idea di comunità).

Alla Biennale 2010 queste contraddizioni esplodono nel contesto effimero della mostra dove Sejima e lo stuolo dei suoi adepti, sentendosi liberati da vincoli funzionali, si proiettano in capsule ipercontrollate ed effimere. Queste, invece di invitare all'incontro, sembrano chiudersi in se stesse o propongono una sorta di esperienza mistica, individuale e non trasmissibile. I fili che dovrebbero descrivere un edificio di Ishigami, le nuvole di Tetsuo Kondo o il già citato nastro di Moebius del Rolex Center sono il canto del cigno di un'eleganza tutta giapponese che è diventata legeresse alla moda. In apparente alternativa a ciò, il padiglione giapponese ospita la citata celebrazione dell'anniversario dei cinquant’anni del gruppo Metabolist reinterpretato da progettisti contemporanei con residenze prototipiche nomadi: anche qui, tuttavia, predomina l'isolazionismo, il rinchiudersi in microcosmi autosufficienti che mimano la temporaneità nella forma e nei materiali ma poco dicono della socialità.

La fragilità di queste posizioni si misura nel confronto tra i progettisti giapponesi in mostra e le altre partecipazioni orientali -la Cina e la sua urbanizzazione devastante, l'India che medita sul passato post-coloniale, Il Bahrein con la denuncia dell'inquinamento ambientale- che espongono in maniera discontinua ma con molta più forza l'impatto delle contraddizioni sociali sull’architettura. Viene da chiedersi se il Giappone abbia ancora un ruolo nei confronti dell'Oriente che avanza o sia stato inglobato in un canone occidentale conservatore. Sejima, a volte, sembra rappresentare una misurata tendenza di buon gusto che si confronta con l'avanzare delle orde mongole...

Da questa prospettiva, l'idea migliore è stata quella di assegnare un Leone d'Oro postumo a Kazuo Shinohara, grande progettista e teorico, non allineato con alcuna delle tendenze che si è tentato di descrivere. Scomparso nel 2006, Shinohara è stato la coscienza critica dell'architettura giapponese nell'era della globalizzazione. La sua riflessione sull'abitare e sull'impatto della tecnologia, espresso in una ricerca progettuale svolta con residenze costruite ordinate in successivi "periodi", ha svolto un continuo commentario sull'identità del Giappone. L'unico progettista che si è avvicinato alla sua lucidità è stato Toyo Ito che, dopo una prima fase di ricerca sulla residenza improntata all'esempio di Shinohara, ha sviluppato una sua identità come traduttore delle tecnologie immateriali nello spazio fisico. Non è un caso che l'opera di Ito, maestro della Sejima, si sia evoluta in direzioni inattese e volutamente ibride, ben lontane dal forzato purismo di quest'ultima. Mentre da lui non sappiamo cosa aspettarci, la Sejima è ormai assorbita nell'onda del brand riconoscibile e, come tale, rischia di essere addomesticata a una pura immagine di superficie.



QUEL CHE RESTA DELL'AMBIENTE. Una Biennale che dice di voler rappresentare l'incontro tra la gente e l'architettura non poteva non porre l'accento sull'impegno sociologico e ambientale. Da qui si dirama un caleidoscopio di presentazioni di contesti specifici, naturali e antropizzati, visti come uno scenario ricco di realtà che attualizza i progetti in mostra. L'edizione 2010 ripropone tutti gli ammiccamenti che gli architetti hanno fatto negli ultimi anni nei confronti dell'antropologia, della sociologia, dell'ecologia e dell'impegno sociale, intensificandone l'efficacia con i nuovi mezzi di comunicazione.

Questo florilegio di rappresentazioni non affronta, tuttavia, alcuni problemi di base, il primo dei quali è se esse sono appropriate per le discipline suddette e il secondo se hanno un qualche legame diretto con le scelte architettoniche che vogliono sostenere. L'evidenza di uno specifico ambiente è sufficiente a giustificarne la presenza in una mostra di architettura o attua solamente una spettacolarizzazione? Crea un discorso o si riduce a una denuncia? E quest'ultima propone forse un reale progetto socio-politico? O forse ambientale? Guardiamo il padiglione del Bahrein, vincitore del Leone d'Oro per la migliore partecipazione nazionale: in esso sono trasposte alcune capanne spontanee costruite dai pescatori del Golfo Persico, rimasti senza lavoro a causa dell'inquinamento ambientale, i quali parlano del loro problema in una serie di interviste video presenti all'interno di queste strutture. L'autoevidenza di questo brano di realtà trasposto in mostra risulta vincente al confronto con tante rappresentazioni ma basta a proporre un discorso critico? Che trasformazioni immagina dopo aver denunciato una condizione esistente? Non vi sono riposte a tali quesiti e questo frammento sembra, a volte, ricalcare uno status da curiosità esotica in un’esposizione universale ottocentesca, si riduce a caricatura, a feticcio, a oggetto di svago con tutti i pericoli di svuotamento di senso che questo comporta.

Un altro padiglione apprezzato, quello del Cile, propone il tema dell'architettura in uno stato di emergenza, quello seguito ai diversi terremoti che hanno colpito il paese, l'ultimo dei quali avvenuto nel febbraio scorso. A immagini che mostrano il disastro ambientale conseguente alle calamità, si sovrappone la presentazione di strutture civili, alcune delle quali temporanee, di grande pregio. C'è tuttavia una correlazione diretta tra l'evento, la necessità di approntare dei rifugi e la qualità delle architetture? Il terremoto diventa una giustificazione e bisognerebbe forse ammettere che gli edifici sono particolarmente riusciti perché il Cile ha una scena architettonica particolarmente interessante.

La Biennale 2010 riscopre, in alcuni padiglioni nazionali, la storia e l'ambiente esistente delle città. Il confronto tra i padiglioni dell'Olanda (e, come corollario, l'installazione di OMA), quello dell'Inghilterra e quello del Belgio, è particolarmente significativo. L'Olanda scopre la massa critica del patrimonio immobiliare della città come riserva di ambiente da gestire nell'installazione Vacant NL. La rappresenta come pura presenza quantitativa senza neanche guardarne le qualità architettoniche e insediative. Rem Koolhaas, con consumato cinismo, abbandona il ruolo di cantore del Junkspace, e propone trent'anni di ricerca di OMA nel campo degli interventi su edifici e spazi esistenti presentandone le giustificazioni progettuali come conseguenza di pure analisi statistiche legate al numero di utenti, al valore immobiliare e agli investimenti previsti.

In entrambe queste posizioni c'è il retaggio di una cultura olandese basata sul Polder Model, una modalità pianificatoria basata su calcoli, programmi e sommatorie di perizie specialistiche. Se esso in passato ha permesso il miracolo insediativo olandese, esso è oggi puro strumento economico al servizio della speculazione immobiliare. Il parafrasarlo come strategia architettonica rivela l'assenza di qualsiasi presa di posizione rispetto al suo valore puramente strumentale, l'accettazione piena del metodo senza discuterlo, il nascondersi dietro a una tradizione senza interpretarla.

L'Inghilterra presenta Villa Frankenstein, una cerebrale analisi dell'ambiente di Venezia condotta attraverso workshop partecipativi, raccolte di frammenti e quaderni di schizzi che richiamano addirittura John Ruskin e le sue Stones of Venice. Nella disseminazione di documenti presenti in mostra, l'autore sembra quasi disperdersi ma quel che rimane al fine è un'estetizzazione del luogo e una feticizzazione del documento autografo che non hanno alcun significato propositivo. Gli inglesi si rinchiudono così in una tradizione turistica aristocratica da Gran Tour mascherandola da impegno ambientale.

L'equivoco del confondere mezzi e fini permea anche il piacevole padiglione del Belgio che presenta una lettura dei materiali consumati presenti nell'ambiente contemporaneo dal titolo Usus/Usures. Alcuni frammenti di superfici edilizie ritagliate da edifici fatiscenti sono isolati come surreali ready-made ed esposti in galleria in una diafana sospensione. Se la mostra serve come monito per ricordarci il quoziente di scarto che ci circonda, essa pare una riuscita operazione artistica, tra l'altro riferibile a una tradizione belga di surreale straniamento del quotidiano che va da Magritte, passa attraverso Marcel Broodthaers per arrivare alle recenti esperienze di Jan Fabre o di un curatore come Jan Hoet. In fondo anche i belgi feticizzano i frammenti dell'ambiente esistente per renderli comunicabili ma, nel fare ciò, li alienano dal flusso del reale.

Questi tre esempi mostrano come gli architetti operano con eccessiva disinvoltura in discipline che non conoscono a fondo e, per svolgerle, assumono canoni e linguaggi già dati assumendoli inconsciamente (o strumentalmente) senza elaborarli. Qui non sembra esserci neanche il deliberato superamento delle discipline tradizionali presente nell'operazione artistica post-concettuale che abbiamo descritto, ma solo l'arroganza di disporre di competenze altrui senza conoscerle. Il prezzo di questa multidisciplinarietà è quindi la banalizzazione delle scienze che studiano il reale quando esse sono appropriate dagli architetti. Il sottoporre l'impegno sociale o ambientale al corto circuito delle immagini, la sua iconizzazione forzata, ha l'indubbio compito di creare notizie d'alto impatto comunicativo ma anche di frustrare qualsiasi progetto critico di elaborazione dei dati.

Il consumismo della realtà presente in questa Biennale oltrepassa l'ambiente antropico per estendersi alla natura. Quante versioni di essa presenti alla Biennale sono effettive letture di una condizione esistente e quante sono invece appropriazioni della sua iconologia per elaborazioni formali fini a se stesse? La parafrasi dell'orografia subacquea è utilizzata da Guy Nordensen per presentare i suoi progetti infrastrutturali al padiglione statunitense, i morbidi organismi cellulari servono da matrice alle elaborazioni di R&Sie(n), l'immagine dell'eden segnato da un orizzonte infinito è la base da riempire con oggetti diversi per le ripetizioni della No-Stop City di Andrea Branzi. Natura forma, natura animata, natura ideale sono matrici di elaborazioni che cercano di autogiustificarsi immergendosi in essa. Dov'è, tuttavia, il rapporto tra architettura e natura? Dove risiede la coscienza ecologica? Solamente nell'uso di certi materiali o tecnologie? Esse garantiscono la qualità architettonica o entrano inesorabilmente nel circuito di consumo delle tecniche e dei messaggi? Qual è il rapporto tra spazio, materialità e socialità? È esemplificabile in alcuni edifici eccezionali che servono da paradigma o può definire una qualità media, una quotidianità del vivere?

L'eclissi della socialità reale e la sua proliferazione nei media grava su People Meet in Architecture. Ancor più grave, tuttavia, appare lo smarrimento di un qualsiasi legame tra le letture della realtà e la forma architettonica, quest'ultima intesa nel senso tradizionale di configurazione spazio-costruttiva di un ambiente che sappia rappresentare collettivamente la funzione cui offre dimora. Non solo la moltiplicazione di rappresentazioni (e incursioni in altre discipline) non dà risposta a questo quesito, ma lo scollamento tra segni e significati autorizza delle relazioni causali tra analisi e progetti assolutamente pretestuose. Nel gran calderone della Biennale possiamo anche divertirci a scoprire come gli stessi concetti siano relazionati a linguaggi architettonici completamente opposti in progetti compresenti nella stessa mostra. Tutto ciò può apparire democraticamente pluralista ma rivela in realtà uno svuotamento di tensione etica, disciplinare e sociale preoccupante. Dopo un po', il sorriso scompare e si scopre che i linguaggi architettonici degli edifici sono sempre gli stessi, sono assunti passivamente da altri esempi, e sono rivampati attaccandoci una qualche giustificazione teorica posticcia. L'architettura traduce malamente i linguaggi altrui e, nel fare ciò non è più capace di parlare. O, meglio, non parla più di se stessa.

Pietro Valle
pietrovalle@hotmail.com
[5 ottobre 2010]
Note:

1. Pietro Valle, "Progressive Slidings into the Real" in Visions, catalogo della 9a edizione del festival BEYOND MEDIA edito da Marco Brizzi e Paola Giaconia, Firenze 2009, pp. 234-37.
2. Rosalind Krauss, A Voyage on the North Sea, Art in the Age of the Post-Medium Condition, Londra 1999.
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