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Una visita alla dodicesima Mostra Internazionale di Architettura

Diego Terna



 
Il lavoro che Kazuyo Sejima ha portato avanti negli ultimi anni, assieme a Ryue Nishizawa, riesce a raccontarci il senso di una frase apparentemente banale come People meet in architecture. Se la caratteristica fondamentale che qualifica ogni opera di architettura è lo spazio costruito, altrettanto fondamentale è la sua attivazione attraverso l'uso che le persone ne fanno. Lo spazio esiste, infatti, nell'atto stesso del suo uso; se portato alle estreme conseguenze, questo concetto conduce ad una visione dello spazio architettonico come costituito dalla sola presenza delle persone, dai lori movimenti e dalle loro pause. Si potrebbe immaginare lo spazio come una sorta di diretta emanazione dello spirito delle persone, dunque cangiante, non definibile attraverso una rigida descrizione, ma bensì mutevole a seconda degli utenti che sono immersi in esso. Lo spazio diviene dunque un limite entro il quale avvengono delle relazioni sociali, di qualsiasi sorta. I lavori dello studio SANAA sono esempi di questa ricerca: lo spazio progettato dagli architetti giapponesi diventa un sottofondo che favorisce le relazioni fra le persone. Non esiste una visione funzionalista e neppure formale: l'architettura si trasforma in un catalizzatore che incoraggi al massimo qualsiasi tipo di "atteggiamento" umano. Nel libro Relations. In the architecture of Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa, Florian Idenburg scrive:

"Il trasferimento sistematico della società nel virtuale colpisce duramente il senso tradizionale dello spazio sociale. Mentre in una cultura precedente alla Rete, l'architettura strutturava la sfera sociale, con la memoria che forniva significato alla storia, ora rischia di diventare traghettatore del virtuale che non oppone alcuna resistenza. Man mano che il progetto di questa moderna guida dell'architettura svanisce, il mondo intero sarà trasformato in una gigantesca lounge (con annesso Wi-Fi!) dove le persone potranno fare non importa cosa, allo stesso modo in cui noi ora socializziamo, studiamo, facciamo shopping, giochiamo, e facciamo sesso online. Questo cambiamento sottrae "valore" al mondo fisico. [...] L'intenzionale sceneggiatura delle azioni di SANAA ci mostra come impiegare la nostra intelligenza architettonica per rinvigorire la nostra sensibilità verso il mondo fisico."

[5 ottobre 2010]
  Un esempio di magnifica poesia nei lavori dello studio è il Rolex Learning Center di Losanna, un capolavoro che mostra con incredibile forza la capacità di dar vita ad uno spazio che accolga e stimoli reazioni e relazioni sociali. L'edificio si configura come un ventre accogliente per "stare", indipendentemente dal "fare". In questo senso le funzioni espletate al suo interno, pur ricche e complesse, passano in secondo piano rispetto al puro spazio che si racchiude entro i limiti dell'architettura. Pare di trovarsi davvero in una grande lounge nella quale ogni forma è studiata per dare forza ai comportamenti delle persone. Qui ci si può sedere, sdraiare, studiare, leggere, mangiare, dormire, senza una netta separazione fra gli ambienti. I continui saliscendi, che dovrebbero legare l'architettura a una forma, sono in realtà degli espedienti per caricare lo spazio di differenti configurazioni e per donare ad alcuni luoghi una maggiore intimità rispetto ad altri, senza per questo eliminare quella sensazione di continuità che è la cifra distintiva dell'edificio.


Hans Ulrich Obrist. Now Interviews. Foto di Chiara Quinzii.

Nella Biennale veneziana la stanza delle interviste di Hans Ulrich Obrist, all'Arsenale, riporta, nell'unico spazio progettato da SANAA, ad una sensazione simile. People meet in architecture. Qui lo spazio è dato: gli alti muri dell'arsenale definiscono un limite scabro, in qualche modo duro, rigido, data anche la rigorosa scansione dei pilastri interni. L'allestimento della sala si configura così con un lieve tocco, una somma, ancora rigida, rigidissima, di postazioni "personali", costituite da una buffa sedia ad orecchie di coniglio e un monitor sul quale si svolge l'intervista di un architetto. Una griglia che viene interrotta al centro dall'informale palcoscenico nel quale avvengono le interviste (poi riprodotte sui monitor) e delimitata su di un lato da una parete con in nomi di tutte le persone intervistate da Obrist. Non c'è architettura, o meglio, l'architettura si scioglie in microframmenti, ognuno costituito dalla singola postazione, tutte uguali, eppure diverse nel filmato riprodotto. Lo spazio, dunque, già fortemente caratterizzato dall'architettura preesistente, viene semplicemente rinforzato con un espediente di estrema leggerezza, un mobilio ironico, che permette alle persone molteplici configurazioni d'uso: solitarie, in gruppo, osservando i video o l'intervista in diretta, o semplicemente prendendosi un momento di riposo.

Quest'unico tocco architettonico della Sejima, leggero, al limite dell'impalpabile, ha tradotto in spazio l'altrettanto leggero tocco curatoriale. Che, però, non ha retto il passo dell'architettura. La frase "People meet in architecture", piena di significato nella sensibilità dell'architetto giapponese, è evaporata in una serie di considerazioni piuttosto insipide, quando non addirittura inesistenti, negli altri progetti presentati. Per potersi definire come un programma, in effetti, era necessario che il titolo della mostra fosse oggetto, nella sua "banale" affermazione, di notevoli riflessioni. Quanto si è visto nell'Arsenale e nel Palazzo delle Esposizioni, è semplicemente una mostra di progetti d'architettura, che avrebbero potuto racchiudersi entro i limiti di un titolo qualsiasi. D'altronde, è ovvio, le persone si incontrano nell'architettura, quindi ogni architettura, per il fatto di espletare una qualsiasi funzione, rientra in questa categoria.

Il progetto curatoriale, quindi, è parso più intenzionato ad una selezione di studi che portasse ad uno sfoltimento e ad un ringiovanimento dei nomi, optando più sulla forma dell'esposizione, che sul suo contenuto: nell'Arsenale, per esempio, era molto sottile il gioco risolto con una sequenza di progetti legati attraverso rimandi, somiglianze e , soprattutto, opposti (i progetti massicci e muscolari di Radic + Correa e di Garcia-Abril, seguiti dai diafani Transsolar + Kondo e Ishigami, quindi il caotico Studio Mumbai, a sua volta seguito dal futuribile R&Sie(n); il quasi nulla di Eliasson e la cupola labile di Wang Shu, seguiti dai progetti quasi didascalici di Olgiati e Ito; per finire con l'opera ariosa di Cardiff Miller Studio, che rimanda alla sala interviste e si oppone al buio claustrofobico di Berger & Berger).

L'Arsenale si apre con un filmato diretto da Wim Wenders, un omaggio che il regista predispone per il progetto del Rolex Center. Quindi, si inaugura la Biennale di Venezia, una delle manifestazioni internazionali più importanti nel campo dell'architettura, e la seconda installazione all'Arsenale è una specie di spot pubblicitario di un'opera della curatrice, tanto più di una retorica fastidiosa, che sfiora il patetico (con gli attori che passano il tempo a battersi il petto per l'emozione e a chiudere gli occhi ispirati, tanto da chiedersi se siamo di fronte alla pubblicità di una compagnia aerea). E, non contenti, SANAA si riserva una grande stanza nel Palazzo delle Esposizioni, più la metà del padiglione giapponese (anche se in questo caso il protagonista è il solo Nishizawa). I progetti presentati sono tutti di altissima qualità, specialmente l'Inujima Art House, che decostruisce un museo in una serie di piccoli edifici, modificando la spazialità di un intero paese e gli usi dei suoi abitanti (people meet in architecture!), ma il tutto appare assolutamente inopportuno (d'altronde, i SANAA non hanno certo necessità di promuovere i propri lavori).


Junya Ishigami, Architecture as air: Study for château la coste. Foto di Chiara Quinzii.

Il resto della Biennale è una ricerca, perlopiù lunga e faticosa, per trovare luoghi e progetti degni di interesse. L'arsenale riserva alcune certezze: Junya Ishigami e Anton Garcia-Abril sono i più interessanti tra gli studi emergenti in campo internazionale. Entrambi agiscono sul limite labile fra arte e architettura, seguendo due strade opposte: da un lato l'irruenza materica dello spagnolo, fatta di equilibri fra masse, dall'altro la stupefacente leggerezza del giapponese, che lo porta alla ricerca dell'estrema sintesi per costruire uno spazio con quasi nulla. Entrambi, ironicamente, cadono sull'allestimento veneziano: Garcia-Abril propone un'istallazione grandiosa, che pare distruggere lo spazio dell'Arsenale con due gigantesche travi di cemento armato sovrapposte l'una sull'altra, finché non si scopre che sono due riproduzioni in cartongesso; Ishigami tenta di costruire il quasi nulla tanto cercato, ma l'allestimento viene distrutto ben due volte. È sembrato paradossale, per molti segno di una sorta di nepotismo, che Ishigami abbia vinto il Leone d'Oro per l'opera presentata, ma il progetto è tanto ambizioso, quanto, allo stesso tempo, delicato da raggiungere sprazzi di pura poesia, anche se, finora, solo immaginati.

 
Olafur Eliasson, Your split second house. Foto di Chiara Quinzii.

Oltre ai due progetti citati, altre due grandi istallazioni artistiche riescono a bloccare i visitatori, dando un senso alla passeggiata lungo l'Arsenale: sono le opere di Transsolar + Tetsuo Kondo e Olaffur Eliasson. I primi, con "Cloudscapes" riescono a riportare alla magia di un'architettura indefinita eppure tangibile, come Diller e Scofidio fecero nell'Expo svizzero del 2002 ,con il Blur Building. Tutto lo spazio è saturo di vapore e di climi differenti, tutti esperibili attraverso una emozionante rampa che ci accompagna fino all'orizzonte della nube racchiusa nell'architettura. L'opera di Eliasson Your split second house mostra alcuni tubi che schizzano acqua in una stanza buia, illuminata da luci stroboscobiche che costruiscono la sensazione che l'acqua si congeli in una serie continua di istanti. Uno studio sul tempo, una metafora della vita umana, immaginata come somma di frazioni temporali.

Nel Palazzo delle Esposizioni l'opera più suggestiva è l'allestimento di Aires Mateus, Voids, nel quale grandi maquette bianche mostrano una serie di edifici costruiti, ricavati da omologhi scavi nel terreno. Eppure, osservando bene, il negativo e il positivo non si equivalgono perfettamente, creando una sorta di spaesamento che induce ad una riflessione sullo spazio costruito. Il trattamento unitario delle maquette accomuna i progetti in un unico linguaggio, che induce ancor più a considerarli come brani di un'unica opera in costruzione.


Atelier Bow-How, House Behaviorology. Foto di Chiara Quinzii.

 Altri tre progetti risultano, poi, convincenti: House Behaviorology di Atelier Bow-Wow, un lungo catalogo, magnificamente illustrato con sezioni prospettiche, di piccoli spazi che paiono realmente costruiti intorno alle esigenze degli abitanti, senza preoccuparsi di raggiungere uno stile unitario; Detached di Pezo von Ellrichshausen Architects, due piccoli volumi che riescono a mutare la natura del paesaggio circostante, nonostante la loro dimensione contenuta, o forse proprio per questa; Primitive Future House, di Sou Fujimoto Architects, che costruiscono uno spazio per sottrazioni tridimensionali nella sovrapposizione spaziale di superfici, distanti 35 cm l'una dall'altra. Su tutti i progetti del Palazzo, aleggia la figura di Lina Bo Bardi, della quale sono esposti alcuni fra i suoi più importanti progetti, fulgidi esempi di spazi nei quali il progetto si è basato sulla viva presenza delle persone.

Per quanto riguarda le partecipazioni nazionali il mio personale Leone d'Oro (quello ufficiale è andato al Padiglione del Barhain) va al Padiglione belga, che ha esposto Usus/Usures, del gruppo ROTOR, una serie di oggetti, fra i più disparati (corrimani, sedie, ingressi di ascensori, pavimentazioni), tutti legati da evidenti usure legate all'uso quotidiano. Perfettamente centrato sul titolo della mostra, qui è realmente possibile vedere la vita degli oggetti in relazione all'uso delle persone. È come se il ricordo dell'uso rimanesse fissato per sempre nell'usura dell'oggetto, e in questo ricordo diventa chiarissimo il rapporto fra l'architettura e le persone, senza necessità della loro presenza.


Tudor Vlasceanu, 1:1. Foto di Chiara Quinzii.

Tra gli allestimenti, due Padiglioni spiccano: il romeno, 1:1, curato da Tudor Vlasceanu, nel quale è esposta una stanza di 94,443 mq (pari alla densità demografica di Bucarest), che racchiude uno spazio di disarmante poesia, un grande vuoto, da esperire rigorosamente da soli, bianco, puro, nel quale è realmente possibile riflettere sullo spazio che ci circonda; l'olandese, con Vacant NL, where architectures meets ideas, costruisce una ambigua maquette, sospesa con cavi metallici sopra le teste dei visitatori, che pare costituita da estrusioni di varie forme geometriche, ma che poi, dall'altro, si riconoscono come una città fittizia. Per quanto riguarda il progetto curatoriale, il padiglione Britannico riesce a destare interesse grazie al dialogo incessante fra le fotografie di Alvio e Gabriella Gavagnin e gli schizzi di John Ruskin, che ritraggono gli stessi soggetti delle fotografie. Ne emerge un racconto della città di Venezia rigoroso, sistematico, eppure malinconico, come se gli oggetti ritratti avessero ormai perso quella complessità che emergeva chiaramente negli schizzi e nelle fotografie.

Il Leone d'oro alla carriera è stato assegnato a Rem Koolhaas, l'architetto che forse, più di ogni altro, ha segnato il percorso dell'architettura contemporanea, sia teoricamente, con Delirious New York e S, M, L, XL, sia nella pratica professionale, con alcuni capolavori come la Kunsthalle di Rotterdam e la Casa della Musica di Porto. Nel Palazzo delle Esposizioni gli vengono riservate due stanze, nelle quali l'architetto olandese propone una riflessione sul rapporto fra l'architettura contemporanea e la sempre maggiore richiesta di tutela di quanto già costruito. La proposta, piuttosto elementare, è ben visibile nel manifesto: "Convention concerning the demolition of world cultural junk" e nel capitolo "Criteria for the assestment of Insignificant Universal Junk", ironica trasposizione del manifesto UNESCO per la tutela di beni architettonici e ambientali di pregio. Si propone, semplicemente, di demolire i beni ambientali di peggior qualità, un'affermazione che risulterebbe piuttosto banale, se non fosse che ci troviamo in un mondo in cui effettivamente si propongono salvaguardie assolutamente non necessarie.


OMA. Preservation. Foto di Chiara Quinzii.

Il padiglione italiano propone una riflessione sullo stato dell'architettura in Italia, riuscendo nell'intento, ma in maniera forse opposta alle previsioni: tra progetti ultra-pubblicati, nomi noti e sopravvalutati, e pochissime sorprese, ne esce un ritratto sconsolante. I progetti presentati sono in genere di buona qualità, ma non riescono a delimitare un modo d'essere che possa essere presentato con forza al di fuori dei confini nazionali. Dal dopoguerra ad oggi, abbiamo assistito alla nascita di grandi "movimenti" nazionali, come, ad esempio, quello portoghese, olandese, spagnolo. In tutti si riconoscevano delle riflessioni che creavano una sorta di sinergia tra i progetti, uno spirito comune che parlava un linguaggio ed esprimeva con forza delle idee, pur nelle notevoli differenze tra i progettisti. I progetti italiani bisbigliano, invece che parlare con forza, e in questo bisbiglìo non si può nemmeno riconoscere l'intelligenza di chi non ha bisogno di urlare. Semplicemente l'architettura che si produce oggi in Italia è frutto di una crisi culturale che si trascina da decenni, nella quale si aspetta solo la venuta del genio di turno (Sorrentino nel cinema, Cattelan, forse, nell'arte), senza lavorare per creare uno strato di "alta qualità media". In Italia, oggi e da molto tempo a questa parte, l'architettura non ha alcun valore per il cittadino medio, al contrario di quanto avviene in buona parte dell'Europa: qui, nonostante innumerevoli esempi di cattiva qualità, emerge sempre un sentimento di attaccamento allo spazio urbano, alla qualità della città e, dunque, alla sua architettura.

In Italia, al contrario, al di fuori della propria abitazione (e del proprio abitacolo automobilistico), lo spazio esterno è un'entità inesistente, da fuggire con rapidità o da deprecare, rimpiangendo i bei tempi antichi che hanno costruito i nostri centri storici. L'allestimento del padiglione italiano narra una riflessione simile: l'apparenza è di un limite economico, che, invece di trasformarsi in virtù, diventa una sorta di lamento, amplificando al massimo questa apparenza. Quindi un uso spropositato di materiali "poveri" e non finiti, dalle sedute in imbottito non rivestito, ai ponteggi, alla sedie in plastica, l'allestimento si trasforma, in metafora italiana: quando i mezzi mancano, si esagera la mancanza, senza tentare di superare la difficoltà. Buona parte dei mali dell'architettura italiana (ad esempio, il culto del disegno e del progetto a scapito della costruzione, come reazione all'esiguo numero di incarichi di qualità) viene da questo atteggiamento: per ora non si intravedono futuri rosei.

La Biennale di Architettura di Venezia ha la capacità di lasciare sempre con l'amaro in bocca: troppo grande, poco coordinata, senza una reale curatela che possa discernere quali sono i progetti assolutamente da scartare. Rispetto all'arte e al cinema, poi, si trova di fronte ad una difficoltà di fondamentale importanza: l'opera d'arte è lì, visibile; i film si godono seduti in poltrona; l'architettura non è mai presente, dovendosi affidare a dei surrogati di rappresentazione. In questa assenza si intuisce tutta la problematicità nella costruzione di una mostra: Kazuyo Sejima ha tentato di risolvere la questione proponendo delle installazioni spaziali. Non sempre riuscite, esse narrano dell'unico modo in cui l'architettura si possa presentare, cioè con uno spazio che abbia valore in sé.

Diego Terna
diego_terna@hotmail.com
diegoterna.wordpress.com
Questo articolo si basa sul saggio pubblicato sulla rivista "C3", n. 314, ottobre 2010.
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