EXTENDED PLAY
gli architetti e lo spazio digitale

 

 

Teoria
dell'Ipersuperficie:
Architettura><Cultura*

PARTE(1)

 

[in english]

Stephen Perrella

 

 

La strategia di marketing della Nike sviluppa la forma (sviluppo del prodotto) in direzione del mercato, e viceversa - prima la creazione di un'immagine e di uno stile di vita (creazione del mercato) e poi il progetto del prodotto che risponde a tale cambiamento di stile di vita. Per esempio, un ragazzo di Harlem gioca a basket, Nike rappresenta quest'immagine, la commercializza e questa immagine torna nel cortile da dove era partita, e ora il ragazzo indossa scarpe Nike.
John Hoke, Marketing Strategico Nike

Nello spazio curvo la distanza più breve tra due punti è una linea curva
Albert Einstein



Stephen Perrella and Rebecca Carpenter, Mobius House Study, 1998
Stephen Perrella and Rebecca Carpenter, Mobius House Study, 1998
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Email (estratto) inviata a Brian Massumi, settembre 1997.


In architettura è esistita una tendenza ad evitare approssimativi programmi capitalistici, a stare lontani dalle contaminazioni della prassi consumistica quotidiana, a rimanerne alla larga e, in qualche modo, a stabilire più elevate basi culturali. Questo orientamento descrive, con tutta evidenza, un percorso specifico attraverso gli ultimi sessant'anni di Modernismo; ma definisce anche, in maniera generale, un'aspirazione comune. Negli ultimi dieci anni l'architettura, con l'avvento del pensiero post-strutturalista di Derrida, attraverso un discorso guidato da un piccolo gruppo di critici, ha imposto una riflessione sul logocentrismo delle principali opere del movimento conosciuto come "Architettura Decostruttivista". L'effetto, benché pervasivo nell'accademia, non lasciava soddisfatta una piccola parte di teorici dell'architettura, i quali ritenevano che questa avesse ancora una presenza fisica che la filosofia linguistico-testuale di Derrida non era in grado di accogliere. Così i teorici si sono spostati verso il pensiero di Gilles Deleuze e Felix Guattari, per improvvisare una teoria radicale che riconducesse l'architettura alla sua materialità. Avevo sempre avuto la sensazione che tali improvvisazioni, rispetto al pensiero di Deleuze, fossero troppo riduttive; così come accadeva per esempio nelle teorie di Greg Lynn e Peter Eisenman. Ma quando La piega di Deleuze è divenuto oggetto d'attenzione da parte della teoria architettonica e le tecnologie digitali hanno cominciato a diventare pervasive, abbiamo cominciato a vedere nell'architettura un chiaro spostamento verso una sorta di topologia. Molti dei progetti prodotti (soprattutto qui alla Columbia GSAP) hanno provato a confrontarsi con forme più lisce e distese.

Ciò che mi interessa è che esiste ancora una tendenza, di Illuminismo Modernista, ad evitare quel disordine e quella volgarità della prassi consumistica quotidiana, la stessa che Robert Venturi e Denise Scott-Brown hanno provato a infondere nella coscienza architettonica. Per questo la saturazione della rete Internet, e la diffusa applicazione di teletecnologie nelle normali pratiche commerciali, non hanno trovato immediato sviluppo in quei processi di progettazione architettonica di ispirazione topologica. Come giornalista-architetto, io sono più incline ad accogliere la radicale proliferazione dei messaggi pubblicitari quotidiani, o la cultura dei segni attraverso cui essi rimandano a sempre più importanti interfacce: vale a dire, quello che è comunemente riconosciuto come l'emergere di una cultura dei media. E sono rimasto sorpreso da come il modo di vedere l'architettura attraverso i testi di Deleuze possa accogliere queste mutazioni semiotiche del quotidiano, dal momento che il suo pensiero interessa il superamento di confini e il dispiegamento di superfici all'interno di condizioni di pura esteriorità. Essendomi formato su Heidegger e Derrida, avevo letto la proliferazione dei media come una auto-decostruzione: cioè la decostruzione del tema capitalista attraverso gli autentici modi di produzione e le tecnologie proliferate a causa della strumentalizzazione propria dell'economia dei consumi. Inaspettatamente, un elemento del problema architettonico, finora messo da parte, sta diventando un fattore contaminante; il problema è che l'architettura, a causa della sua tradizione formale, non sa come pensare e considerare il tema del tecnologicamente decostruito, né quello del consumare deterritorializzato. Ancora, si può sostenere che la forza di questi "media" stia facendo pressione sulla sacralità di un'architettura elitaria (questo, naturalmente, vale anche per ogni altra disciplina) per entrare all'interno dei suoi processi formativi. Ed è per questo che sto cercando di far convergere queste due traiettorie - cultura dei media e architettura topologica - verso una dinamica intrecciata, quel qualcosa che ho chiamato ipersuperficie. I tuoi scritti su Capitalismo e schizofrenia e le ricerche di Gary Genosko su Felix Guattari mi hanno convinto che in Deleuze e Guattari c'era, di fatto, una dimensione semiotica e sperimentale smarrita fin dalla prima e forse tendenziosa lettura proposta da alcuni teorici dell'architettura: una privilegiata e semplice topologia. Sebbene io sia onestamente a favore degli stimoli topologici, mi rendo conto che, senza essere connessa alla vita di tutti i giorni, l'architettura non è viva, e nemmeno animata. Ed è per questo che ho cercato la collaborazione tua e di Gary perché mi aiutiate in questa seconda lettura, in modo che l'architettura non perda gli importanti effetti dell'empirismo radicale caratteristico delle nuove forme d'esperienza.

 

 

Ipersuperficie: architettura><cultura


L'ipersuperficie è una condizione architettonico/culturale in via di sviluppo, che tende a mettere in connessione realtà materiali e linguistiche spesso opposte, ed a produrre irresolubili complessità che creano condizioni medie. Volendo evitare qualsiasi schematizzazione di questo risultato, e tentando di considerarlo invece nella sua piena complessità, ho introdotto il termine ipersuperficie, così da descrivere e proporre un qualcosa che possa opporsi alle definizioni classiche, e che al tempo stesso sia un prodotto dei princìpi della cultura tradizionale. Creare un'ipersuperficie significa considerare i modi in cui i mondi della rappresentazione (leggi immagini) e della strumentalità (leggi forme) vengono rispettivamente decostruiti e deterritorializzati per divenire immagini-forma di intensità. Le ipersuperfici sono l'intrecciarsi ed il conseguente dipanarsi delle dualità della cultura. La teoria dell'ipersuperficie non è un'invenzione soggettiva nata in contrasto con ciò che può sembrare un'interminabile scorribanda di ismi in cerca di un'interpretazione della cultura postmoderna (vedi per esempio l'opera di Charles Jencks). Al contrario, questa ricerca indica che esistono forze auto-generative e auto-emergenti, profondamente legate alla storia culturale, che si stanno svincolando dai macchinismi della prassi contemporanea, e che offrono già adesso una formidabile sfida all'autorità del progettista. Il dualismo, come per esempio nel rapporto tra immagine e forma, delinea nella cultura occidentale una lunga tradizione, che conduce ad una dicotomia schizofrenica. La teoria dell'ipersuperficie può funzionare proprio in funzione degli effetti e delle mutazioni prodotte da un capitalismo in espansione. Le ipersuperfici si configurano come topologie immanenti che si inverano su interfacce non dialettiche di immagine-forma; interfacce la cui intersoggettività è stata assorbita solo perché poi riemergesse attraverso un processo autogenerativo.

L'ipersuperficie corrisponde ad una riconsiderazione delle relazioni, spesso dicotomiche, che si instaurano nell'ambiente. Tali formulazioni binarie includono immagine/forma, dentro/fuori, struttura/ornamento, terreno/edificio e così via; intese non come entità separate e quindi statiche, ma come tessuto composto trasversalmente, oppure in forma di piani di immanenza. Le ipersuperfici sono prodotte all'interno della relazione problematica che si stabilisce quando categorie binarie si coniugano a causa dell'impossibilità di conservare a lungo divisioni di natura linguistica o fisica. Le categorie di Reale e di Irreale, per esempio, sono ormai insufficienti a causa della loro reciproca compenetrazione. La realtà di un fantasma di Disney in confronto alla irrealtà delle costruzioni dei media, come quella del caso O.J. Simpson, comincia a descrivere un processo di eliminazione dei concetti basilari, provocato da contraddizioni culturali profondamente radicate: vale a dire da una schizofrenia.

I meccanismi che guidano il reale attraverso l'irreale e viceversa, ambedue impari, derivano dalla crescente forza della quotidiana, ubiqua, cultura del consumo. Questo è ciò che porta alcuni teorici come Frederic Jameson e Mark Wingley a descrivere la contemporaneità come quella degli esseri "persi nello spazio". Una descrizione più accurata potrebbe essere quella secondo cui siamo "persi rimanendo in casa", poiché non esiste più una profonda distinzione tra interno ed esterno, ed è dalle contorsioni interne al contesto che oggi emergono quelle forze immanenti. Tali eventi sono descritti come ipersuperfici produttrici di intensità tangibili, di esperienze fenomenologicamente vitali (propriocettive) di spazio-tempo-informazione.



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["Hypersurface Architecture" è pubblicato originariamente da Academy Editions, una divisione di John Wiley & Sons. Disponibile nelle librerie, presso Barnes & Noble, e Amazon.com. La traduzione italiana è di Marco Brizzi]

 

 

 

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