EXTENDED PLAY
gli architetti e lo spazio digitale

 

 

Presente permanente*

 

[in english]

Peter Lunenfeld

 

 

Avvicinandoci a questa confezionata tappa di fine millennio, la nostra cultura visiva resta intrappolata all'interno di un inesorabile presente, girando oziosamente intorno a se stessa come se aspettasse un'ispirazione che deve arrivare da un momento all'altro. Nel bene e nel male, il Moderno ha a suo tempo prodotto una serie di sorprendenti visioni del futuro; ma in realtà, il futuro del futuro sembrava assicurato proprio perché gli stessi scenari erano abbastanza eterogenei. Le "machine dances" di Nikolai Foregger, concepite nel pieno dell'idealismo rivoluzionario del Soviet, e la passione di Le Corbusier per i materiali lisci negli anni Trenta esaltavano entrambe le glorie dell'industria con conseguenze completamente differenti; l'immaginario pulp del Pianeta Mongo di Flash Gordon, accanto al paesaggio lunare del 2001 di Stanley Kubrick; il Futurama allestito alla World's Fair del 1939 che ha anticipato, pur rimanendo qualcosa di diverso, i giocattolosi diners e le stazioni di servizio del periodo atomico nella California del sud; i pied-à-terre stile Playboy di Hugh Hefner nell'era spaziale, apparsi nello stesso periodo delle loro antitesi virtuali, le eco-topistiche fantasie hippy e i prati verdi.

Se, dall'inizio del secolo fino a tutti gli anni Sessanta, il futuro è stato descritto, raffigurato, stampato, filmato, animato e anche occasionalmente costruito, oggi la febbre per ciò che sarà si è un po' abbassata. Naturalmente ci sono delle ragioni per cui questo accade: la delusione può derivare dal fatto che il presente non ha rispettato le speranze in esso riposte in passato; oppure, forse, dall'esasperante moltiplicazione delle possibilità e dei bruschi cambiamenti che hanno caratterizzato questo secolo. Detto questo, io credo che la colpa della nostra inabilità ad immaginare qualsiasi cosa oltre il presente sia da imputare a due sistemi di visione quasi perfetti, che hanno entrambi più di dieci anni. Il primo è un film; il secondo un'interfaccia.





Consideriamo il caso di Blade Runner (1982) di Ridley Scott. Con i corridoi fra i grattacieli, i luminosi neon rossi, e con quel mix di imbottiture anni Quaranta e splendore high-tech giapponese, l'estetica di Blade Runner - descritta da Syd Mead, che ha visualizzato il futuro nel film, come "un labirinto di dettagli meccanici che coprono un'architettura poco riconoscibile producendo una sovrapposizione di stili che noi […] abbiamo chiamato retro-deco" - è perfettamente postmoderna. Come tale, essa ha inibito qualsiasi successiva descrizione del futuro. Quando Robert Longo comprò i diritti di Johnny Mnemonic, il breve racconto cyberpunk di William Gibson del 1981, nessuno sospettava la sua bravura; ma il film di Longo del 1995 fu un vero e proprio manuale che spiegava i limiti di Blade Runner: l'unica cosa che fece, fu fare in modo che il pubblico osservasse l'intervento del regista rispetto all'opera di Scott. Così come il ciclo dei Nibelunghi distrusse virtualmente, dopo Wagner, la grande opera, così Blade Runner è totale, completo nella sua concezione, esecuzione e integrazione tanto che tutti gli altri registi o hanno evitato il confronto oppure hanno fallito miseramente il loro intento.

Paradossalmente, Blade Runner ha stroncato ogni visione cinematografica del futuro proprio nel momento in cui la Science Fiction diventava il genere dominante a Hollywood. Da quando George Lucas, con la trilogia di Guerre Stellari (1977-1983), dimostrò agli scettici dirigenti dell'industria del cinema che si stavano sbagliando, la Science Fiction ha dominato i botteghini internazionali con grossi successi come Terminator 2 (1991), Jurassic Park (1993) e Independence Day (1996). Allora, proprio per il suo successo commerciale, il boom della Science Fiction ha avuto un effetto anti-visionario: ecco allora che il futuro ha oggi a che fare con armi più nuove e con alieni sempre più mostruosi.

Durante il periodo di affermazione della Science Fiction è stato fatto molto per il successo del genere, a partire dall'uso delle tecnologie digitali. Ma ciò che questi strumenti rendevano possibile era un effetto di realismo digitale così totale che, paradossalmente, piuttosto che aumentare il numero delle scelte, lo riduceva di molto (e il surrealismo digitale? Le sue potenzialità sono ancora tutte da immaginare). Questo ci porta al secondo punto: l'interfaccia del computer che conosciamo tutti e che amiamo e disprezziamo al tempo stesso. Ormai sono rimasti in uso pochi sistemi operativi funzionanti con linee di comando (penso agli schermi a fosfori verdi e all'onnipresente prompter C://), il mercato è dominato dal un particolare gusto per le interfacce grafiche (Graphical User Interface). È la metafora della scrivania con gli schedari, le icone, i cestini dei rifiuti e le finestre a cascata. Concepite negli anni Sessanta e perfezionate per il personal computer Xerox PARC nei Settanta, è diventata definitivamente l'interfaccia uomo/computer quando Apple ha introdotto il sistema operativo Macintosh, nel 1984, e quando Microsoft con Windows lo ha condotto al pieno successo, attraverso gli anni Novanta. Con il successo che ha avuto questo modello di interfaccia, così come è accaduto con Blade Runner, è diventato un impedimento a pensare al di là del presente. Nonostante il continuo aggiornamento del software che aumenta sempre di più la funzionalità del design, non è apparso niente di radicalmente differente nel mercato del computer, niente che realmente urli "Attenzione! Questo è il futuro!".

Se Blade Runner ha ostacolato l'innovazione creando un terrore estetico tra gli autori, l'idea di superare l'interfaccia di Windows ispira orrore agli utenti. L'ansia tecnologica dipende dal comprensibile timore per le novità e per l'accettazione del nuovo nella vita di ognuno di noi, e questo accade soprattutto se il nuovo riguarda qualcosa di tecnologicamente sconosciuto alla maggior parte del pubblico. La scelta di comodità supera sempre la raffinatezza dell'interazione o l'intelligenza della metafora. Questo fobico evitare i nuovi mezzi ha inoltre favorito, nelle primissime fasi del design dei sistemi informativi digitali, la familiarizzazione con un certo tipo di interfaccia.





Oggi anche le persone che paghiamo per costruire visioni del futuro hanno declinato le loro responsabilità. Perfino i coraggiosi autori delle immagini della Disney - abituati a forgiare architettura, tecnologie e intrattenimento (gli Alberichi degli spazi scritti, per tornare a Wagner) - hanno rinunciato. Quando progettarono la Disneyland di Parigi, negli anni Ottanta, la loro Tomorrowland fu costruita non a partire da idee e da ricerche svolte, ma con un'immagine del futuro più vicina a quella del visionario Jules Verne nel diciannovesimo secolo. Forse la Disney avrebbe dovuto pensare a reclutare Mattew Barney, il cui Cremaster 4 (1994) è la sola cosa che io abbia visto negli ultimi dieci anni capace di offrire, se non proprio una visione del futuro, una credibile visione alternativa. Il film, che si svolge sulla cosiddetta "Isola dell'Uomo", mette in scena una locale anomalia zoologica, conosciuta come l'ariete Loughton: un corno che punta in su ed uno in giù, testicoli oscillanti, androgino, un corpo leggiadro su alti talloni; e lo stesso Barney compare nel film come l'anti-eroico "Candidato Loughton" in abito bianco, ghette, protesi facciale. Cremaster 4 produce la sua stessa misteriosa cosmogonia: né Science Fiction, né realismo, ma un lento fluire di significati ed un distillare metafore. Si tratta di un esempio che può forse offrire una soluzione al nostro presente permanente, proprio perché abbraccia tanto il biologico quanto il genetico; questo rappresenterà per il ventunesimo secolo quanto il meccanico ed il cibernetico hanno rappresentato per il nostro.

 


 

   

["Permanent Present" è apparso originariamente in "art/text", 63, November 1998-January 1999. La traduzione italiana è di Marco Brizzi. A cura di Peter Lunenfeld vedi il recente "The Digital Dialectic: New Essays on New Media", pubblicato da MIT Press, 1999]

 

 

 

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