Diffusione
digitale Stefano Converso |
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Il
corposo ed eterogeneo volume di 600 pagine Game Set and Match
II raccoglie i paper della conferenza internazionale omonima tenutasi
alla fine del marzo 2006 presso il Politecnico di Delft e organizzata
dal gruppo che fa riferimento a Kas Oosterhuis, con il coordinamento
di Lukas Feireiss. L'evento è alla sua seconda edizione ed
affonda le radici nella ricerca di Oosterhuis, che ne ha promosso
la nascita nel 2001 profilando all'epoca per la disciplina architettonica
la necessità di confrontarsi con le forze del calcolo in tempo
reale. (1) |
[05may2007] | |||
Se
il primo convegno, raccolto in una giornata, vide gli interventi
di sei speaker invitati, la conferenza del 2006 si è presentata
innanzitutto come un salto di scala: i contributi che il libro include
sono più di 70, raccolti al convegno in tre giornate dal programma
intensissimo. Proprio il "salto di scala" è stato
oggetto della riflessione conclusiva di Oosterhuis, il quale nel
discorso a termine dell'ultima giornata del convegno, di fronte alla
platea riunita dei convenuti, ha disegnato alla lavagna tre linee
parallele. A quella più in basso ha fatto corrispondere la
prima edizione, quella dei "pionieri", salutando quella
presente come l'edizione della "critical mass", che ha
visto allagare gli adepti al campo d'indagine stabilito negli anni
'90, e dando inevitabilmente appuntamento all'edizione successiva. Una riflessione storica conclusiva, inevitabile e ovviamente celebrativa, che risente comunque del problema posto con forza oggi al panorama del "digitale" dall'esaurirsi della spinta propulsiva delle sperimentazioni iniziali e dal contemporaneo aumento della diffusione di tecnologie sempre più raffinate a un crescente numero di architetti. È proprio di questi giorni, ad esempio, l'articolo del New York Times che pone l'attenzione sulla discesa dei prezzi di scanner e stampanti 3D, richiamando di fatto la diffusione ad ampio raggio delle tecnologie di fabbricazione "personali" evocata con più ampie prospettive da Neil Gershenfeld nel volume dedicato al "Personal Fabricator". (2) Proprio questo sembra essere il punto centrale sollevato dalla eterogenea serie di contributi del volume: quali sono i presupposti e i criteri che legano la distribuzione capillare e pervasiva delle tecnologie digitali alla loro sperimentazione architettonica "diffusa"? L'insieme dei contributi offerti da Game Set and Match II offre un ampio sguardo sulla sperimentazione in atto con un inevitabile effetto generale composito. Nell'introduzione al volume gli autori stessi denunciano tale carattere multidisciplinare, e in bilico anche tra una lingua per specialisti e una divulgativa. Se si aggiunge a queste considerazioni quella che il testo prevale di molto sulle immagini ne deriva una utilità del libro soprattutto come punto di riferimento per dare uno sguardo complessivo sulle "posizioni" in atto nel settore con poche eccezioni, la più importante delle quali riguarda una parte del panorama statunitense. Una concentrazione di materiali comunque preziosa, visto l'alto grado di dispersione che l'esplorare il campo di influenza del digitale comporta. La strutturazione generale del volume è molto forte, e risente del quadro teorico fornito da Oosterhuis proponendo Game, Set e Match come tre grandi direzioni per la relazione tra pratica architettonica e sviluppo degli strumenti digitali, parafrasando, ma anche ampliando di molto il raggio d'azione del significato dato ai tre termini nella prima conferenza, quando erano proposti in sequenza lineare nella nota frase: "architecture becomes a game, played by its users. By playing the game, users set the parameters. New configurations are then matched to the desired conditions". |
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La
scansione dei tre capitoli corrisponde alla divisione in tre giornate
data al convegno e ognuna delle sezioni è aperta dalle riflessioni
di uno o più "pionieri", le cui conferenze hanno
aperto e chiuso le giornate di lavoro, con l'aggiunta di momenti
di dibattito serale svolti al NAi di Rotterdam. In mezzo, una schiera
molto ampia di gruppi di ricerca e architetti in gran parte europei
(un totale di 72 interventi, di cui 54 europei, 13 statunitensi,
e 5 tra Asia, Turchia e Australia, forzando la provenienza di alcuni
gruppi), con una inevitabile forza della componente olandese e qualche
dubbio nella classificazione di alcuni contributi (anch'esso denunciato
dagli autori nella introduzione). La prima sezione è interamente dedicata al tema, storicamente legato a Oosterhuis, del "Game": il gioco è assunto come possibile metafora del lavoro progettuale, nelle sue due componenti digitale (dei videogiochi veri e propri) e fisica (delle installazioni interattive), ma è anche assunto come strumento operativo, visto che i lavori del laboratorio Hyperbody, diretto da Oosterhuis all'Università di Delft, sono in buona parte gestiti da VIRTOOLS DEV, una piattaforma software di sviluppo per videogame. Un tema, è utile ricordarlo, che la software house francese Dassault Systèmes, produttrice di Catia, ha preso sul serio, acquisendo sotto il proprio controllo proprio VIRTOOLS. |
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L'interfaccia di lavoro completa di VIRTOOLS DEV e un estratto del metodo grafico di controllo dei comportamenti degli oggetti all'interno del software. Il programma è usato dal gruppo di Oosterhuis per progettare comportamenti in tempo reale nell'ambiente virtuale e nelle installazioni fisiche. Gli interventi dei "pionieri" di questa sezione, che includono anche lo scritto di Oosterhuis con il secondo capitolo della teoria "Swarm architecture", riflettono i due settori di possibile applicazione dell'interattività in tempo reale, e cioè quella di simulazione digitale, e quella legata all'attivazione di oggetti fisici. Sul primo versante, Katie Salen esplora dal punto di vista operativo i punti di tangenza tra lo sviluppo del software dei videogame e il progetto di architettura individuando una chiave nel contributo immaginativo e inaspettato, che spesso ha trovato soluzioni nei videogame proprio puntando sulle limitazioni della tecnologia invece che seguirne pedissequamente lo sviluppo. Dal versante delle installazioni "ambientali", Norbert Streitz descrive le applicazioni, continuamente in sviluppo, che il Fraunhofer Institute di Stoccarda dedica ormai da anni, al tema della "scomparsa del computer", che ne evoca la dissoluzione in componenti integrate all'ambiente. |
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Immagini dalla sperimentazione Charbitat, per la definizione procedurale dei paesaggi in un videogame. Il progetto si compone di una applicazione Java che dialoga con l'interfaccia del videogioco Unreal. Qui sopra: l'interfaccia "di lavoro" del programma che stabilisce i parametri di variazione del paesaggio, a sinsitra: momenti diversi del gioco e lo schema che paragona il processo di definizione della forma seguito per "Charbitat" a quello tradizionale. |
Il tema del "comportamento" (behaviour) attraversa invece trasversalmente alcuni dei più interessanti tra gli interventi proposti dai diversi invitati nella sezione Game, che racchiude veri prototipi come il software "Charbitat" per la generazione dinamica di paesaggi durante il gioco o quelli legati alla interazione multi-utente. A questi si accompagnano una serie di contributi che si relazionano direttamente allo spazio fisico, "programmandone" in modi diversi il comportamento e la configurazione. Steffen Waltz, dell'ETH di Zurigo, lavora sulla localizzazione territoriale, mentre alla scala architettonica lavorano molti degli altri, tra cui nomi noti come Branko Kolarevic e i berlinesi realities:united presentano i propri lavori rispettivamente sulla fresatura di rivestimenti decorativi e sulle superfici di facciata costruiti di "pixel luminosi" come quella della Kunsthaus di Graz. Ad essi si sommano diversi contributi che esplorano le logiche del videogame, da quella bellica ai possibili rapporti con l'arte, fino alla interessante genealogia di Simcity, dello storico Gerrit Vermeer. |
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Immagini dei lavori degli studenti sulla decorazione mediante fresatura a controllo numerico di pannelli di facciata, nel corso tenuto da Branko Kolarevic nella primavera del 2005 alla University of Pennsylvania. |
Più conosciuto e legato direttamente al mondo professionale il secondo settore del volume ("Set" o "Geometry"), in cui diversi gruppi presentano le proprie sperimentazioni software nel campo della costruzione fisica dell'architettura, che include significativamente diversi contributi dal versante del progetto strutturale, spesso chiave di volta per lo sviluppo cosciente di forme architettoniche nel medium digitale. |
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A questa direzione fanno riferimento gli interventi di Harald Kolft, dello studio OSD di Francoforte, quello di Patrick Teuffel dell'omonimo studio ingegneristico di Stoccarda, e quello di Jeroen Coenders con Daniel Bosia, della Advanced Geometry Unit di Arup (fondata da Cecil Balmond), fino a quello per l'ottimizzazione strutturale progressiva presentato dal gruppo della RMIT di Melbourne. Del versante più specificatamente costruttivo si occupa l'intervento di Fabian Scheurer e Georg Vrachilios, del Politecnico di Zurigo, che lavorano sul "bio-inspired CAAD" in cui la relazione con la biologia non è formale quanto piuttosto strutturale, evidenziando la volontà di colmare una lacuna "costruttiva" delle sperimentazioni sulla complessità mediante la digital chain. |
Immagini della facciata progettata e realizzata a Berlino dal gruppo realities:united, autore anche del sistema interattivo di neon della kunsthaus di Graz (foto realities:united architects Berlin, ©2005 Bernd Hiepe). |
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Screenshot dell'applet java sviluppato da Fabian Scheurer per il "Groningen Twister": progetto di parcheggio sotterraneo di fronte alla stazione di Groningen, dello studio KCAP in collaborazione con Arup. L'autore Fabian Scheurer è membro del gruppo caad dell'ETH di Zurigo, che ha messo in campo diversi esperimenti di scripting connesso alla progettazione in ricerche che oltre a Scheurer e Vrachilios, autori dell'articolo nel libro coivolgono altri componenti della cattedra di CAAD dell'ETH, come Alexander Lehnerer e il gruppo kaisersrot, anch'esso coinvolto in collaborazioni con KCAP, e con Sauerbruch & Hutton, Herzog & De Meuron. Il tema più riconosciuto dagli scritti critici dei "pionieri" di questa sezione è quello del superamento dell'innovazione di processo e il radicamento in più chiari processi sociali. È in particolare John Frazer a raccontare il suo sospetto verso i "tools without a purpose", e la delusione della partecipazione decennale a molte conferenze sul CAAD, dove interminabili discussioni non riuscivano ad uscire dall'ambito strettamente tecnologico. Nel suo testo, Bernard Cache prosegue nel tentativo di far rientrare le sperimentazioni sul digitale nell'alveo della disciplina architettonica con un intervento sulle orgini greche della geometria in cui propone le costruzioni geometriche alla base di molti manufatti antichi, dalla torre dei venti alle meridiane fino alle decorazioni delle ceramiche. Allo stesso tempo, durante il dibattito serale di Delft, nel presentare gli utlimi lavori di Objectile, Cache ha posto l'accento su problemi come quello di controllare le dimensioni dello smaltimento dei pezzi durante la produzione non standard, spingendo la riflessione sul tema del "cheap digital". Anche Antonino Saggio propone una riflessione ad ampio spettro sul contesto culturale stabilito dal digitale, ponendo al centro la questione, tuttora aperta, della definizione di una estetica e di una sensibilità spaziale specifica ad esso connaturata. Infine Robert Aish, con un intervento tagliato sul suo impegno nello sviluppo del software Generative Components, dà un contributo chiaro sull'analogia tra il progetto parametrico e il gioco, discutendo la ridigità e la distanza date dall'obbligo di definire delle "regole", la cui "precisione" è vista in prima istanza in netto contrasto con le esigenze di intuizione ed esplorazione tipiche dell'attività progettuale. È proprio tale distanza, secondo Aish, che distingue l'architettura dall'artigianato, il progetto, dal "fare direttamente", e la geometria ne diventa il mezzo espressivo. Altri contributi autorevoli sono inclusi tra i paper, come quelli di Mark Goulthorpe, Axel Kilian e altri ricercatori del MIT, o ancora quello sugli "edifici sensuali" della sezione "ambientale" di Ove Arup. Dove e come avviene allora l'incontro tra la sperimentazione tecnologica pura, tra l'inevitabile rigore tecnico e il caotico mondo dei rapporti umani? La terza sezione, forse la più difficile del volume, affianca al termine "Match" ereditato dal primo convegno, quello di "Open Source", paradigma legato molto strettamente al mondo della rete e dalle relazioni con l'architettura ancora poco chiare, ma che proprio per questo rappresenta l'aspetto del testo più inaspettato e forse più gravido di possibili conseguenze future. La sezione è aperta dai contributi critici di Ole Bauman, che aveva partecipato anche alla conferenza precedente, e Marcos Novak, il cui testo presentando le ultime ricerche svolte in collaborazione con l'istituto per la mappatura del cervello della UCLA coglie lo spunto per spingere in avanti i limiti del quadro di riferimento per la ricerca sui rapporti tra spazi "virtuali", codificati dal suffisso "Allo", e manifestazioni fisiche. Un tema richiamato anche dal terzo intervento di Peter Weibel, dello ZKM di Karlsruhe, centrato sul tema della dialettica tra la presenza fisica e l'assenza stabilita dall'irrompere nel '900 delle tecnologie che hanno determinato il distacco del messaggio dalla manifestazione corporale. Anche tra gli partecipanti a questa sezione è possibile individuare scritti legati fortemente alla ricerca di Oosterhuis, in particolare alla possibilità per l'architettura di "rispondere" ad effetti interattivi, codificati in passato nel termine "e-motive architecture". Il primo e immediato riflesso di questo filone di ricerca è la programmazione e spesso la costruzione in prima persona di responsive device, che coinvolge diversi gruppi di giovani, presenti in modo trasversale alle diverse sezioni del libro. La sezione "open source" ospita progetti e prototipi di diversi sistemi "adattativi" (per usare un termine di forte analogia con la ricerca nel web), come gli interventi del "Digital Studio" dell'Università di Cambridge, o quello di Tristan d'Estrée Sterk, della Scuola d'Arte di Chicago, che esplora le possibilità di una interazione "User Centered", riferendosi alle ricerche sulla partecipazione di Yona Friedman, ma proponendone una ibridazione tecnologica con l'automazione. |
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Più letterali i contributi sulla "topotransegrity" di subzero (Robert R. Neumayr) e il "leisurator" di Pastore e Sabatelli, entrambi passati dalla DRL dell'Architectural Association, il cui direttore Tom Verebes nel capitolo precedente parte da una riflessione sulla ambizione al soft della ricerca formale degli anni '90 cercando di trarne principi progettuali per la ricerca dal titolo Responsive environment. Ad un versante più strettamente elettronico, e a una "responsiveness" meno fisicamente letterale fanno riferimento altri interventi come quelli di Maoworks, ancora inglesi, che riflettono sul rapporto tra interattività "programmata" e utilizzo sensoriale ed emotivo dello spazio, e quello di Husman Haque, che recupera il lavoro sulla cibernetica di Gordon Pask per la costruzione di ambienti interattivi. In questo senso, però, i contributi più interessanti sono quelli centrati sulla ricerca di un modus operandi "di rete" per la ricerca progettuale, spesso praticato ma ancora mancante di una codifica chiara. È esemplare, a questo proposito, il titolo dell'articolo di Philippe Morel, uno dei più interessanti del volume, che recita: "From e-Factory to Ambient Factory (Or What Comes After Research?)", mettendo in evidenza come la diffusione a tutti i livelli del calcolo e la complessità del panorama matematico contemporaneo non permettano associazioni generiche come "architettura e geometria", ma al contrario richiedano strategie diversificate, codificate dalla definizione "poliformalismo", che riguardano i diversi settori produttivi e le relazioni con l'economia. Proprio lo studio in corso sull'evoluzione dei sistemi produttivi da parte di Morel ha ispirato la recente esposizione in corso a Marsiglia in cui sono presentati diversi lavori sotto la chiave di andare "oltre la forma", e guardare quindi a una logica di processo. (3) Sulla stessa lunghezza d'onda si collocano, pur con posizioni diverse, articoli da parte di Dennis Kaspori (uno dei più lucidi, sulla "Architectural Open Source Practice") di Misjia van Veen di UN Studio (uno studio su Orgware come ambiente per la Newtork Society), o quello di Amanda Schachter e Alexander Levy, recentemente autori di un volume della "Rivoluzione Informatica" sul modello produttivo Hacker. (4) Proprio questo settore di ricerca, nonostante si allontani dalla "ricerca di forma", e anzi forse proprio per questo, sembra quello che dà più spazio alla sperimentazione. Nonostante, infatti, la Rete sia di fatto il più potente, diffuso e determinante evento tecnologico degli ultimi anni del digitale, le sue conseguenze espressive sulla formazione dell'architettura non sono state esplorate con chiarezza. Nel campo "professionale" si parla molto di contributi multipli, ad esempio, nelle discussioni legate al Building Information Modeling, ma i modelli tridimensionali "integrati", che puntano sulla convergenza in un'unica tecnologia di tutti i diversi attori coinvolti dai complessi processi realizzativi dell'architettura contemporanea, faticano a diffondersi, probabilmente a causa di eccessi "concentrazionari". Non è un caso che questi modelli si siano diffusi, e siano affermati in settori come l'industria manifatturiera, in cui committente, progettista ed esecutore fanno parte della stessa entità. Si percepisce, in genere, un'ansia di "mettere a posto", di ascendenza ingegneristica, che rischia di fare terra bruciata su ogni possibilità espressiva. Resistere a questo tipo di tendenza non è, tuttavia, solo un discorso utopico e virtuoso; una lotta tra un "Davide" open e un "Golia" di corporazioni, per citare quanto scritto da Bouman nel suo testo introduttivo alla sezione "Open Source". Al modello di sviluppo accentratore Microsoft, oggi si contrappone infatti quello di Google, che ha fatto varcare alla filosofia di rete la soglia del puro virtuosismo per farne un'economia dirompente e debordante. Difficile pensare direttamente alla traduzione in architettura di un modello centrato sull'utente, dinamico e aperto come quello di Google. È una ricerca da compiere a cui i contributi del libro danno proposte anche alternative tra loro, e che probabilmente ha a che fare con la vitalità garantita alla tecnologia dal "compromesso col reale". Ed è soprattutto a chiunque fosse interessato a impegnarsi in prima persona che il corposo volume di Game Set and Match II, con i suoi lunghi testi, i molti articoli e le molte domande, può fornire dei buoni riferimenti di partenza. Stefano Converso stefano.converso@gmail.com |
Immagini dell'installazione 300 pixels, tratta da Ping Genius Loci, progettata e realizzata dagli ungheresi aether architecture. Il sistema è composto da elementi in grado di ruotare, i "pixel", connessi via wi-fi ad un sistema informatico che ne controlla il movimento e la "reazione" a input esterni di vario tipo. Nelle immagini vari momenti di programmazione del sistema, l'interfaccia numerica e una installazione a Budapest. |
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NOTE: 1. Cfr. Giammarco Bruno, "Architecture Goes Wild", in ARCH'IT files, 19 dicembre 2001, www.architettura.it. 2. Neil Gershenfeld, Fab. Dal Personal Computer al Personal Fabricator, Codice edizioni, Torino, 2006. E anche Peter Wayner, "Beaming Up 3-D Objects on a Budget", The New York Times, 5 aprile 2007. www.nytimes.com. 3. Philippe Morel, "Architecture beyond forms. The computational turn", in ARCH'IT files, 12 marzo 2007. www.architettura.it. 4. Alexander Levi, Amanda Schachter, Stanze ribelli. Immaginando lo spazio hacker, Edilstampa, Roma 2006. |
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> GAME SET AND MATCH II |
ARCH'IT
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