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Lettere da Fermo

Cara Lucia...



Cara Lucia

apprendo dalla tua lettera che intendi partire per un viaggio di studio, citi alcuni celebri architetti-viaggiatori e si capisce che muori dalla voglia di emularli.
Benissimo, sono lieto che la cosa ti entusiasmi.
Quanto alla mia compagnia, però, temo dovrai rinunciarvi e, voglio rassicurarti su questo punto, non sarà una gran perdita. Non sono un viaggiatore e neppure un erudito. Le mie conoscenze intorno all'architettura si limitano alle pochissime cose che sono riuscito a capire intorno a quella che io stesso pratico. Appartengo, inoltre, a una razza che da generazioni nasce, vive e muore senza cacciar fuori il naso dai confini del suo villaggio. Non so dunque di quale aiuto potrei essere a una giovane e brillante architetta come te e perciò credo proprio, mia dolcissima Lucia, che questo matrimonio non s'ha da fare.
Preferisco restare al mio posto e, se vorrai scrivermi di tanto in tanto raccontando qualcosa dei luoghi che visiterai, ne sarò lieto; del resto quel che avrei da dirti posso anche scrivertelo (se la posta aerea e la mutevolezza dei tuoi recapiti me lo consentiranno).
Ti lascio ai tuoi preparativi e, per il momento, ti saluto.




Calma di mare e viaggio felice.



Cara L.

la tua opinione (che non si possa essere architetti se non si è anche viaggiatori) è oggi molto condivisa e la sua esattezza pare comprovata dalla miriade di tuoi colleghi che progettano roulotte, automobili, trenini, navi, aerei e tende da campeggio. Persino uno stimato imprenditore della forma quale l'esimio professor Calatrava Santiago se n'è fatto alto patrocinatore disegnando scale e ponti in posizione di partenza.
Tuttavia io mi esimo da tale opinione e continuo a chiedermi perché mai ponti e scale debbano avere sagome aerodinamiche visto che, a muoversi, non sono loro ma chi li percorre. Per questa ragione ti sarei grato se mi risparmiassi le belle citazioni dal bellissimo libro di viaggi del fu signor Chatwin. Vorrai consentire, spero, a uno che viaggiatore non è mai stato, di non doverlo diventare in tarda età per sfuggire a questo pogrom citazionista.

Del resto ammetto di essere sorpreso dal fatto che Chatwin si sia astenuto dalla pratica dell'architettura. È vero che ci ha tenuto a farci sapere d'essersi dilettato nell'arredamento della sua casa (e a comunicarci en passant come questa sia già considerata un classico dal connaisseur) ed è vero, altresì, che s'è mostrato sottile inquisitore d'architetture nonché squisito intervistatore d'architetti ma, ecco, non ha mai veramente "esercitato".
Una vera disdetta perché, qui sono molto d'accordo con te, sarebbe stato un architetto, come si dice oggi, da urlo. Ne aveva tutte le doti. Era, il nostro, un figlio di papà inglese che, essendo inglese ed essendo figlio di papà sviluppò al quadrato la sua propensione per the voyage e the adventure. Divenne così un vero traveller che conobbe le asprezze della vita in luoghi inospitali ma seppe trovare in esse lo spazio per un'occhiata al tramonto (accompagnata da filosofiche pensate sulla bizzarria dell'esistenza) e per una coppa di Bollinger. Egli fu l'interessante cosmopolita (ma quanto inglese!) che studiò la proporzione tra savoir vivre e spiritualismo riuscendo a sintetizzarli con superiore finalità giornalistica, l'uomo colto cui la cultura non fece perdere il contatto con la vita che pulsa.

Non disdegnò la banalità (giacché, ci scommetto, "la realtà è spesso più romanzesca di un romanzo") ed ebbe perciò l'impudenza di comunicarci, tramite articolo di giornale e senza alcun fremito di raccapriccio, che "Il capolavoro di André Malraux è la sua vita" o che "quel certo passo dalla Madame Bovary dove l'atto sessuale non viene descritto, ma solo suggerito", è un grande capolavoro della letteratura erotica laddove invece la pornografia... ecc. ecc. Fidati, mia diletta: Bruce Chatwin fu proprio un architetto in nuce. Un collega, insomma.
Come spiegare altrimenti il suo sangue freddo nel riportare la frase dell'Intervistato Perenne: "...quando si batteva per l'arte era un uomo, ma a letto era una donna"? A scrivere queste cose non è capace che un architetto. Lo sai.

Fu un erudito dell'informazione e d'ogni cosa seppe quel che c'era da sapere. Sostenne in tal modo, per tutta la vita e brillantemente, ogni genere di conversazione e fu in condizione d'avere, su tutto, un'opinione precisa e aggiornata.
Leggendo il "Sunday Times" venne a maneggiare lo scibile e poté giungere a citare Meister Eckart, sfogliando "The Architectural Review" apprese dell'esistenza di Tatlin e Melnikov, si rese conto che l'ultimo era ancora intervistabile per quanto malridotto e non ebbe indugi nel recarsi in loco per un abboccamento con la mummia.
Appartenne a quella tipologia che sul Volga si porta dietro "Guerra e Pace" e a Pescara va in giro con un paperback di D'Annunzio.
Il vero esempio per ogni turista moderno.
Leggendo Coleridge egli si chiede "di che specie sarà stato l'albatro appeso al collo del vecchio marinaio?" e immediatamente programma un viaggio per i luoghi di provenienza del volatile.

Come il suo zio d'America Ernesto Hemingway, e come ogni architetto che si rispetti, non fu dunque solo un tipo da Camel Trophy, fu qualcosa di un poco peggio.
Fu uno che ci narrò la Grandezza e la Bellezza delle Sue Gesta e, qualunque cosa scrivesse, di qualunque cosa parlasse, non fece mai altro che quello. Non ebbe tempo per altro.
Io, Io, Io, l'apoteosi del Soggetto Narrante autoesaltantesi in una reazione a catena di spasimi e singulti opportunamente mascherati, di volta in volta, da sapiente prosaicità o da asciutto lirismo.

Questo reflusso gastroesofageo di egotismo si riflette nella scelta dei soggetti, i quali non fanno che rispecchiare l'unico e solo oggetto di ogni sua tenerezza: se stesso.
Il suo ritratto giornalistico di Junger, per esempio, è un autoritratto allo specchio, come lo stereotipo del tedesco è nient'altro che lo stereotipo dell'inglese visto dal di dietro.
Ma Chatwin visse con un desiderio incoercibile, che infine si trasformò nell'illusione di averlo appagato. Egli volle disperatamente essere considerato un dandy senza minimamente possedere quella rabbia fredda che gli sarebbe stata necessaria per esserlo. Fu architetto anche in questo.
Leggiamo insieme questa squisitezza:
"Incontrai Elizabeth nell'atrio -Elizabeth, come sai certamente, is Mrs. Chatwin- aveva addosso un modello di Balenciaga color smeraldo."
Potenza dell'haute couture. In tal modo ogni lettore di "Esquire" saprà con chi ha a che fare (ammesso che non lo sapesse sin dall'inizio).
Il bello è come arriva a verificarsi il defilé: Chatwin & the Wife sono di ritorno, trafelati, dal Marocco, dal Polo o da qualche altro posto, fanno scalo all'aeroporto di Paris e aspettano la coincidenza per London.
A un tratto Bruce vede in pista un aereo che sta decollando per Madrid ed eccolo lì, più automatico del cane di Pavlov: "Andiamo al Prado a vedere i quadri!".
Detto fatto.

Ammetterai che tutto ciò è stupendo.
A Madrid li ospita un Grande di Spagna (non c'è meno) conosciuto chez Sotheby's, che gli fornisce lo smoking (di cenare in maglione non se ne parla neanche) cena e conversation très chic, segue la discesa di Elizabeth dalla scala di cristallo tutta sfolgorante nel suo Balenciaga.
Chatwin fu un viaggiatore luccicante e orecchiabile.
Qualunque commessa dei grandi magazzini, qualsiasi impiegata in un call center, aprendo il libro sulla frase "Andiamo al Prado a vedere i quadri", sbatterà le ciglia, si sfiorerà l'ombelico col dito che ancora non occupa la narice e sognerà di essere the Wife.
Una sequenza di meravigliose immagini, dalle serate all'Hilton sino alle notti con i beduini del deserto sotto il manto di stelle, sfilerà davanti agli occhi sognanti della signorina.
Ed io, povero minchia, che mi figuravo estinto il tipo del giornalista che va e fa, il terrore dell'immersionista in apnea, colui che sta sempre tra i coglioni di chi, in un modo o nell'altro, fa il suo mestiere... invece no! La specie non si era estinta, anzi non s'è estinta, sospetto, neppure con Bruce Chatwin: si tratta di un archetipo immortale ed è bene che mi abitui a conviverci perché essa trascende la mia povera esistenza e si proietta, eterna, nei secoli.

Insomma, carissima, gli architetti adorano Chatwin perché egli è uguale a loro e, in lui, loro ammirano se stessi.
Ma non è forse giusto che sia così?
Il mondo non appartiene forse ai viaggiatori informati?
Se sì, allora dimmi: what am I doing here?

Saluti interrogativi
[14 aprile 2009]

 

 

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