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Lettere da Fermo

Epifania dell'architettura



 
Cara L.

Mi chiedi cosa penso di villa dell'Ava di Rem Koolhaas e, nel frattempo, la definisci "una delle architetture più notevoli degli ultimi trent'anni". Certo: ed è in ottima compagnia. Percorrere quel sentierino curvo che fa lo slalom tra i pilastrini inclinati come gambi di sedano deve essere stata, non ne dubito, un' esperienza estetica indimenticabile.
Ma il mio problema, in parole povere, è questo: quando vedo il progetto di una casa, oppure una casa costruita e pubblicata, per prima cosa non posso fare a meno di attuare quella che definisco "prova della soglia" e che consiste nell'immaginarmi il proprietario mentre entra o esce di casa, diretto o di ritorno dal lavoro o dai bagordi correnti (cinema, teatro, ristorante ma non ballo mascherato che è più raro e fa storia a parte). Fatto questo, passo alle "valutazioni estetiche" ovvero a quello che mi consente il mio mediocre cervello. Non prima. In alcuni casi, però, capita che le suddette "valutazioni" mi siano impedite per l'evidente incongruità dell'edificio alla prova cui lo sottopongo. Questo è per l'appunto uno di quei casi.

Mentre infatti posso ancora mettervi in scena un interno (un simpatico quadretto familiare, con pipa, pantofole, gatti e gomitoli di lana oppure, a scelta, uno spot di Armani: long drink e pigiama di seta, fatto salvo il letto che mai potrà aderire alla parete e che costituirà la dannazione del cameraman) e, con maggiore buona volontà, vi imbastisco financo un esterno (con i familiares in posa attorno al barbecue, stagliantisi sullo sfondo di quella giungla di bambù, tra gattopardi di peluche e elefantini di porcellana) non mi è tuttavia possibile acciuffare il pater familias in fragranza di attraversamento.
Perché la soglia è micidiale e non perdona.
Insomma, io non sono capace di figurarmi il proprietario di questo trampoliere, in giacca e cravatta (o pullover o "polo", o "tailleur", se di sesso femminile), con la sua ventiquattrore in mano, che vi entra oppure ne esce.

Sinceramente mi sembra un' enormità, un paradosso fragoroso, una pensata degna di Pitigrilli. Non posso farci nulla. Immaginarmi il locatario col nasone finto e gli occhiali alla Groucho Marx coi figlioletti vestiti da porcellini e la signora in "mise" da fata turchina, che attraversano in fila indiana e cantando in coro al suono della trombetta elastica, come accennavo, sarebbe già diverso: ma questo potrà capitare, al più, due volte l'anno.
E in quaresima, come la mettiamo?

Perciò vorrai, per questa volta, rinunciare al mio modesto parere.

Saluti carnascialeschi




Epifania dell'architettura senza l'architettura.



Cara L.

Mi pare giusto che ti sia fatta paladina della leggerezza in architettura: voi architetti brillate per sincronismo.

Che tu dia per scontato il fatto che sia un tifoso anch'io mi lusinga, ma devo purtroppo confessarti che non faccio parte del club. Lessi qualche tempo fa, in un giornale di architettura, la stupenda opinione critica di un giovane e noto professore che assegnava il primo premio della leggerezza ad un povero cristo il quale aveva ridotto di cinque centimetri la sezione di un pilastro, ed ho ascoltato in tv una voce recitante che affermava essere Renzo Piano (un tempo uno dei reucci della leggerezza, data la sua predilezione per il vetro ed il metallo, anche se oggi il suo ruolo gli è conteso da qualche migliaio di pretendenti, ciascuno più leggero dell'altro). A questa voce notturna, se solo si materializzasse in bipede professorale, vorrei tanto fare cadere sui calli un giunto del Beaubourg, giusto per darle una conferma pratica della leggerezza in architettura. "Ma -penserai- è così chiaro! Solo uno stupidino non capirebbe che si tratta di un parlar figurato... che si fa per dire... che s'infiora!" E mi consiglierai, a stretto giro di posta, di correre a leggermi il famoso scritto di Calvino (Italo).

A me pare di ricordare d'averlo letto, però quando io leggo un libro non ci capisco mai nulla, bisogna che lo ammetta.
È sempre stato così, sin dall'infanzia.
Non posso farci niente, e quel pochissimo che riesco a percepire tra le nebbie, lo fraintendo clamorosamente.

Tuttavia, per tornare alla leggerezza, a me pare che la parola "leggero" (perdonami questa aria da professore) sia un involgarimento del termine "lieve", dal latino "levis" in cui è ovviamente insita l'idea del levare.

Ora, io vorrei richiamare la tua attenzione sui versi di Guido Cavalcanti che Calvino cita nel corso della sua conferenza ("...e bianca neve scender senza venti...") e farti notare (visto che Calvino non lo nota e che a me, di quel che leggo, interessa quasi esclusivamente ciò che non leggo) come lo stilnovista riponga, qui, l'idea di leggerezza in un evento di caduta.
Non è bello?
Ed è anche un po' strano.

Perché solitamente cadono i gravi, e cadono contestando la leggerezza e non propugnandola. Solo un poeta poteva porre nel cuore di un verso da cui il peso s'assenta il verbo "scendere", e per di più usato all'infinito, in tutta la sua plumbea compattezza! Perché solo un poeta poteva intuire che la levità del verso sarebbe risultata non da un "materiale" che fosse, sin dall'inizio, leggero, ma dall'essere riuscito a "levare" da un evento di caduta quel che di greve vi è connaturato.
Ecco il punto, quello che Cavalcanti sa vedere e ci descrive: la neve cade, ma la sua caduta non accade.
Il "...senza venti...", che, descrivendo lampantemente la verticalità perfetta della traiettoria del grave, dovrebbe infine smascherarne la caduta, viceversa ci mostra in fragranza il suo non accadere. Pur cadendo.

È come se in questo verso venisse "tolta" lettera ad una immagine, mostrata nel suo presentarsi e privata invece del suo accadimento letterario.
D'altro canto il verso ruota attorno a una mancanza: "senza".
La levità della neve non chiede (neppure al vento, narratore laconico ed invisibile, voce fuori campo) di venire rappresentata, e s'attesta, in quell'assenza, in un muto planare. Noncurante. Senza affanno né cura. Sicura.
Sarai, ritengo, d'accordo con me nel non ritenere troppo facile districare l'idea di leggerezza da quella di semplicità, né io desidero separare questi due concetti, anzi mi va benone che essi procedano insieme, perché ambedue implicano una sottrazione.

La parola "semplice" vien fuori dalla congiunzione di "sem" (che vuol dire "uno, unico, una volta") e "plicare" (ovviamente "piegare"), essa indica dunque un intreccio, un nodo, praticato solo una volta. Semplicità non indica dunque, in origine, contumacia di complicazione, ma solo la sua parca presenza, giacché quella è già in essa, connaturata alla sua radice.
Qui, dunque, "meno intreccio", là, nella leggerezza, "meno peso". In ambedue, però, non "da sempre", non "dentro" il materiale sin dall'inizio, bensì proprio un "meno", un levare, quasi un invito allo sfoltimento.

Un haiku di Seishi:
"Nel sopore della siesta odo
battere e ribattere
un chiodo."

Tutto qui?
Certamente tutto è qui. Non abbiamo bisogno d'altro.
Pure: tutto è stato tolto da qui.
Ma, allora, tutto cosa?
Esattamente tutto quello che, nel passo seguente, impiomba, invece, il baule di Vincenzo Consolo:
"Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d'opalina, e l'aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi."

Da un lato "presenza", dall'altro "rappresentazione".
Pure, attenta al peso specifico.
In Seishi: sopore, battere, chiodo (ammennicoli: palpebre pesanti, martello pesante che s'abbatte, pesante ferro che penetra).
In Consolo: brezza di mare che valica e scorre e spande odorosi fiati.
Come vedi il peso specifico sta tutto dalla parte del Giappone.
E dunque?
Non si tratta, per paradossale che possa sembrarti, tanto di toglier peso, quanto di togliere figura.
Viceversa sembra che la leggerezza non voglia esimersi dalla sua valenza visiva, neppure metaforicamente: sottigliezza, trasparenza si accompagnano ad essa. Tanto è vero che l'elefante ballerino e la piuma che sfonda i pavimenti, fanno ridere o inquietano: Disney o Hoffmann.
Ed è proprio in architettura che l'equivoco si fa invitante e letale. Perché qui la banalità principesca di considerare "lieve" un'opera che si offra a constatazioni ovvie circa la snellezza della sua struttura e la trasparenza del vetro trova nell'architetto medio il suo volenteroso portavoce.

Ma io ti invito a diffidare, e a considerare come l'abbaglio derivi dalla ostinazione nel confondere la "leggerezza" (come risultato di una operazione artigianale "sul materiale", qualunque esso sia) con il minore peso specifico (caratteristica originaria "del materiale").
Perché non conta nulla che il peso sia "sin dall'origine" minore, bensì che la leggerezza venga acquisita "in levare" a prescindere dal peso specifico con cui si ha a che fare.
Dunque, credimi, non può darsi leggerezza "a partire" dal materiale: altrimenti ogni prosatore "leggero" dovrebbe parlar solo di piume e Stifter precipiterebbe in cantina.
Così parlare di leggerezza a proposito di uno di questi ferini propugnatori del vetro e del metallo che ci affliggono dalle pagine delle riviste d'architettura mi pare una enormità giornalistica perché, qualunque sia il giudizio che si vorrà darne, la loro architettura è l'apoteosi della rappresentazione.

Non si tratta, del resto, di una questione di valori, non credo, insomma, che la leggerezza sia, in sé, un valore, ma il fatto è che due tra i pochi architetti i quali, per quel che ne so, l'abbiano in qualche caso praticata sul serio sono Tessenow e Pikionis, e nessuno dei due, suppongo, annovera te e gli attuali sostenitori del lieve tra i suoi fan. Però essi vi sono pervenuti nell'unico modo possibile, togliendo all'architettura l'unica cosa che l'appesantisca, e cioè l'Architettura stessa o, forse, meglio sarebbe dire che l'hanno privata del suo aspetto edificante.
Ma, per non appesantire troppo questa busta

lievemente, ti abbraccio
[6 gennaio 2010]

 

 

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