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Lettere da Fermo

Le case delle bambole



 


"È una superficie così fredda e lucente che basterebbe alitarvi sopra per vederla subito offuscarsi come per una nube."
Nantsume S?seki

"Era tipico di quella stanza che ciò che in essa sembrava più intenso, dovesse in realtà non essere affatto lì."
Rebecca West



 
Cara L.

Non vorrei che, trovandoti a Basilea, tu mancassi il suo museo delle bambole, uno dei più belli d'Europa.
Te lo raccomando caldamente: contiene, pensa, la collezione di orsacchiotti più grande del mondo.
L'orsacchiotto di peluche, per la sua duttile, morbida e giocosa inutilità, è, si capisce, un meraviglioso doppelgänger dell'architetto contemporaneo.
Ti sentirai in famiglia e chissà che, magari, tu non finisca per trovare (tra gli altri visitatori, intendo... non tra gli orsacchiotti, anche se so bene che al cuore non si comanda) l'anima gemella.
Implicazioni sentimentali a parte, sono però le puppenhäuser la vera prelibatezza del museo.
Fai in modo di trascorrerci una mattinata.
La casa delle bambole è l'eden dell'architettura, il suo paradiso perduto.
Tempo e spazio vi si solidificano in un punto irraggiungibile, dal quale sappiamo di essere esclusi ma di cui ancora ci giunge, familiare, il profumo.
Abitiamo queste piccole case senza poterle abitare ed è come se ci donassero noi stessi nella figura della lontananza.
Quando le guardi ti sembra di vedervi, prefigurato, qualcosa a venire; se ne sta lì, fermo, e sembra dire "vieni, ti aspetto!".
Eppure tu sai benissimo che per te, quell'avvenire, è già passato.
Sarà per questo che le case delle bambole sono, in tutta la loro innocenza, maliziosamente impudiche: perché abitiamo quelle case pur non abitandole e, in stato di flagrante disparità dimensionale, esse si rivelano nella loro interezza.
Siamo noi a ospitarle mentre dovrebbero essere loro, abitazioni, a ospitare noi, abitatori.
E non ci nascondono niente.

Sin da bambino ho sempre dovuto fare i conti con una strana forma di nostalgia, il cui oggetto, in realtà, mi è tuttora ignoto.
Se anche arrivassi a conoscermi meglio di quanto mi conosca (e, credimi, non ne ho nessuna voglia...) rimarrebbe pur sempre, ne sono certo, questo punto oscuro... non buio... azzurro piuttosto, o più precisamente preussisch blau come il cielo di notte e costellato di luci minuscole, della cui origine nulla saprei né potrei mai sapere.
In questa Sehnsucht argentata e notturna io una volta devo avere abitato, credo, una piccola casa, dove c'era tutto ciò di cui avevo bisogno.
Era una casa di bambola?
L'ho abitata, non vorrei che fraintendessi, senza perdere neanche per un momento il senso delle sue dimensioni: ne ero l'inquilino, certo, ma il suo tempo e il suo spazio si dipanavano sotto i miei occhi, erano parte di me e non io parte di loro.

A volte penso di essere diventato architetto per questo: commettendo, va da sé, un errore che mi è costato un'intera esistenza.
Tuttavia non riesco a essere severo nei confronti di quella misteriosa sirena.
L'ho perdonata da un pezzo, anche perché non perdonarla (non perdonarmi) non sarebbe servito a nulla.
Ma, ecco: quella casa è nostra, ci appartiene almeno quanto noi apparteniamo a lei.
Da nessuna delle due parti, però, quest'appartenenza si fa mero possesso.
È un'appartenersi privo di dominio, senza quel gradiente di violenza che sembra ineliminabile da ogni possesso.
Noi e questa casa in miniatura, ci apparteniamo senza appartenerci: troppo distanti l'uno dall'altra per prenderci.
Lo spazio e il tempo, come rappresi in un attimo, si danno qui senza alcuna resa perché queste piccole case non si arrendono a noi, né noi possiamo arrenderci a esse.

La casa delle bambole ci racconta noi stessi, mettendoci sotto i nostri stessi occhi.
Noi siamo , anche se rimaniamo qui.
Riusciamo, così, a prendere distanza da qualcosa con cui, nella vita quotidiana, ci troviamo a coincidere e ciò che definiamo tempo e spazio si allontano quel tanto che basta a provarne nostalgia.
Ma che razza di nostalgia è?
Nostalgia di noi stessi, forse.
Di quello che mai siamo stati e di quello che non saremo mai.

Perché il mondo ci fa pagare caro quel che siamo, anche se noi avremmo, magari, preferito non esserlo e restituirci indietro, senza rese, invece quello che non siamo non costa niente.
E penso a volte che, alla fine, è proprio in quello che non siamo che si annida la speranza, se c'è una speranza.
Che noi architetti siamo moribondi, questo, è sicuro, ma che sia proprio questo, e in fondo solo questo, a renderci speranzosi è un sospetto perfino legittimo.
E, una volta, non era proprio in questo essere lì rimanendo qui che consisteva la dimensione edenica dell'essere architetto?
Quello che, enfaticamente, un ragazzino poteva chiamare "il suo sogno"?
Non importa... a Basilea, lo so, avrai altro da vedere, cose di cui si parla tanto e delle quali un architetto che si rispetti deve saper parlare... anche se qualche volta mi viene, te lo confesso, un dubbio... non si potrebbe rovesciare l'aforisma di Wittgenstein in questo modo: "Solo di ciò di cui non si può tacere si deve parlare"?
Perché è il silenzio, in realtà, che decide.
La parola non può che occupare quegli spazi che, occasionalmente, il silenzio lascia vuoti.
Non è per questo che le parole possono anche suonare ridicole e, il silenzio, mai?
Ragion per cui adesso, se permetti, mi ritiro e

Silenziosamente
Ti saluto
[18 giugno 2011]

 

 

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