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Città e decostruzione: per una semantica dell'architettura e della metropoli contemporanea

di Vincenzo Russi


La comunicazione della città


Ciò che è stupefacente è (...) l'assenza dell'architettura nelle città, che non sono più che lunghe carrellate segnaletiche. Il solo tessuto urbano è quello delle Freeways, tessuto veicolare, o meglio intreccio transurbanistico incessante, spettacolo incredibile di quelle migliaia di macchine che procedono a uguale velocità, nei due sensi, con i fari accesi in pieno sole (...). Non verticalità, né underground, né promiscuità né collettività, non strade, non facciate, niente centro né monumenti: uno spazio fantastico, una successione fantomatica e discontinua di tutte le funzioni sparse, di tutti i segni senza gerarchia, potenza dell'estensione pura
Jean Boudrillard, L'America

[26apr2000]

Peter Eisenman, Greater Convention Center, Columbus, Ohio, 1989/93.
Più che una città, sembrerebbe la trama di un film in cui lo scenario sia costituito da una città visionaria, frammentata, avviata verso un processo di bladerunnerizzazione a senso unico, inarrestabile trasformazione conseguente all'era del post-atomico. Si tratta invece di una, seppur finzionale, descrizione di città moderna, la cui osservazione è data dall'alto di un grattacielo, per meglio intuirne le affascinanti deflagrazioni provocate dall'abusivismo, dall'autocostruzione, dalla cementificazione a tutto spiano, dall'invasione telematica e computerizzata sin nello spazio intimo e familiare.


Peter Eisenman, Uffici Koizumi Sangyo, Tokyo, 1988/90.
Ma quali gli effettivi processi evolutivi che hanno prodotto tale immagine, quali le inversioni di tendenza che hanno fatto dire a G.C. Argan: "...prima sapevo che la città è malata, ora so di che malattia muore", ammesso che tale sia la pre-figurata condizione. Come in altra sede accennato, la città può essere intesa come una grande architettura, una successione e coesistenza di funzioni ospitate ognuna da una costruzione, una molteplicità rispondente alle necessità richieste dalla vita di gruppo e legate, nei modi di attuazione, ai tempi in cui hanno trovato ragion d'essere. Da ciò si evince che una città non è mai stata fondata, organizzata premeditatamente, se non in dizioni leggendarie, dacché nessuna città può essere fondata, ma formata; essa risulta invece frutto di continue sovrapposizioni, trasformazioni, di tutta una storia che si fa, si concretizza e si manifesta. Non sarà fuori luogo quindi affermare che, lontani dalle massime di confraternita come la "form-follows-function", ogni architettura ha assunto qualità espressive dipendenti dalle funzioni in essa esplicate, si è caratterizzata cioè esteticamente in merito al messaggio che intendeva esprimere, nella misura in cui noi riusciamo a distinguere un penitenziario da una università, benché in essi si pratichi la stessa lezione. Per cui lo spazio urbano, essendo spazio di oggetti -ossia di cose prodotte- si è conformato esattamente come un testo; attraverso un linguaggio tridimensionale cioè, le autorità preposte "scrivevano" di una funzione producendo nel contempo comunicazione. Si tratta di una costante storica che vale anche per le città antiche, difatti i monumenti oltre alla funzione precipua e commemorativa, ne avevano anche un'altra, quella didattica: comunicavano cioè la storia della città.




Peter Eisenman, Wexner Center for the Visual and Fine Arts, Ohio State University, Columbus, 1983/89.

Il nuovo complesso universitario "G. D'Annunzio" di Chieti, può essere liberamente visto come un penitenziario o un tribunale.
Gli antichi costruirono per le loro necessità non certo per le nostre e l'eterna solidità delle loro architetture è dovuta sicuramente alla volontà di preservarle nel tempo per trasmetterne ai posteri non la funzione, ma "i valori di cui quelle architetture dovevano essere rappresentativi". L'esigenza culturale dell'uomo moderno impone la conservazione dei monumenti storici associando alle architetture antiche un valore ed un significato differente da quello originario, sicché essendo la città costituita non da pietre ma da uomini, spetta a quasti ultimi attribuire valore estetico e storico ad un oggetto in quanto c'è, è concreto e quindi è dato come forma soggetta a valutazione estetica. Ma nella realtà urbatettonica contemporanea a cosa si è disposti ad attribuire un alto valore critico-estetico, quale lezione è possibile trarre dalle architetture che invadono le nostre città e che propongono sempre nuove soluzioni dell'abitare il luogo e il tempo. Per Dostoevskji la città è addentrarsi nel sottosuolo, per Zola è una macchina digerente, per Musil è il vuoto abissale, persino la poesia la attraversa come ad esempio in Baudelaire, la città è quella dei travestiti, delle donne di malaffare, è la città decadente.


Peter Eisenman, Carnegie-Mellon Research Center, Pittsburgh, Pennsylvania, 1987/88.



Peter Eisenman, College of Design Architecture Art and Planning, Università di Cincinnati, Ohio, 1988/91.

Immagine della città di Tokyo.
Nell'ambito del Movimento Moderno, ovvero dei conventi d'architettura, i grandi profeti hanno impiegato il loro tempo nel tentativo di ricostruzione del linguaggio architettonico, partire da zero per giungere ad una espressione universalmente valida della strutturazione dello spazio, del modo di intendere l'architettura, e la loro risposta è stata una casa-modello che sembrava una fabbrica. Nel frattempo negli anni '60 D.S. Brown e R. Venturi traggono da Las Vegas una importante lezione: il sogno del Movimento Moderno si è infranto, la pubblicità sola ci salva dalla standardizzazione architettonica.


Difatti all'equilibrio e alla regola caratterizzanti le città antiche viene contrapposta l'immagine di una città del futuro, illuminata dal cupo suono del neon, servita da futuristiche infrastrutture, percorsa da milioni di auto, in cui l'affastellamento di "insegne-cartelloni-arredi-auto in sosta-cassonetti-facciate posticce dei negozi-vetrine-suoni-pensiline" fa capire come la città sia cambiata ed in quale misura la lezione di Las Vegas sia stata assorbita. La previsione inventata dagli urbanisti ed attuata per mezzo dei piani regolatori, insieme alla ordinazione in virtù del vivere civile proposta dagli illuminati del ripartire da zero, hanno soffocato il magma metropolitano: come si è lontanamente pensato di poter programmare nel tempo la crescita funzionale, dimensionale e localizzativa della città? Essa è finita con l'esplodere, proiettando lontano interi isolati e con loro ogni rapporto tra morfologia urbana e tipologia edilizia, rompendo la sua forma, parti di città disseminate in campagna che a sua volta si sono frammentate ed insinuate nella città, un paesaggio urbano autocostruito secondo le regole dell'uomo, l'adattamento, lo sfruttamento dello spazio, e non secondo piani di sorta. Ma basta guardarci intorno, case basse che si alternano a case alte, l'aggiunta -senza concessione- di un livello lasciato intonacato, il giardino-orto ingentilito da biancaneve e i sette nani in gesso, il vialetto d'ingresso coperto dalla pensilina della Unopiù, il ripostiglio degli attrezzi in bandone. L'esigenza del momento, la necessità dell'uomo moderno, individualista, con un lavoro eseguibile in casa con un computer, con un senso ecologico tale da munirsi di giardino-orto senza rinunciare alla spesa fatta nell'iper sotto casa, telematizzato all'eccesso ma provvisto anche di "barbecue e fontanine e serie completa di ridenti settenani", sono queste, in parte, le cause che hanno modificato la città, una città senza autore, non regolata, ma gestita dalla cultura del fai-da-te.


Toyo Ito, Uovo dei venti.   Okawabata River City, 1988-91.



Vincenzo Russi. Concorso "Cyborg City, Mechanical Islands for New York" (USA Institute 1998).
La bytizzazione dei sentimenti, la versione fax delle obsolete missive, la trasposizione in megabyte dell'antica memoria storica, costituiscono oggi la quotidianità, esprimono la necessaria adesione al proprio tempo, per cui essendo l'ambito urbano il diretto accoglitore di queste trasformazioni, la città quindi finisce con l'evolversi da modello di forma a modello dell'evoluzione, diventa cioè un sistema di circuiti, così come l'architettura diventa progetto-computer. Ciò che la moderna metropoli comunica è quindi la tecnicizzazione di se stessa e della mano dell'uomo che l'ha prodotta, un nuovo e conseguente modo di fare architettura che aderisce al suo tempo d'appartenenza diventando spesse volte "narcisistica esibizione della sua forza seduttiva", nuove e sofisticate tecnologie e materiali che per nulla disdegnano l'accostamento con i loro predecessori ma che anzi ne risemantizzano il valore post-ponendoli in un' ottica contemporanea, in una decontestualizzazione che per nulla ha violentato la portata critica ed estetica, un "upgrade" necessario; altrimenti "se l'Immeuble Villas era la macchina per abitare del lontano 1922, chi si potrebbe lamentare della lentezza e degli spifferi di una Ford T messa a correre su un autostrada contemporanea"?



La decostruzione della città e architettura decostruttivista

Intanto oggigiorno si assiste ad un evidente e deleterio controsenso. Ad una già avvenuta radicale trasformazione dello spazio urbatettonico gli illuminati continuano a propinarci ciò che per anni si è rigettato, difatti non si può negare, per farne qualche esempio, l'inadeguatezza dei modelli abitativi proposti da Vittorio Gregotti e Franco Purini con lo Zen a Palermo, con Tor Bella Monaca edificio-referendum di un manipolo di docenti di Composizione Architettonica e Urbanistica della Facoltà di Roma "La Sapienza", e come difatti non si può negare che lo stesso Zen ancora in costruzione fosse già modificato, sventrato e baraccato da fruitori d'occasione prima ancora che la fabbrica fosse terminata. L'utenza mostra così il proprio disagio rispetto alla modellizzazione tipologica dell'abitare, la quale quanto più curata e firmata è, meno sopravvive al tempo della sua stessa costruzione, e ciò avviene perché ci si ostina a riesumare vecchie formule, si continua cioé ad imporre al mondo strutture che non ha mai richiesto, si tratta in definitiva di limiti fisici oltre che culturali.

La questione va, a nostro avviso, posta in questi termini. Per poter costruire, "scrivere" architettura, bisognerebbe saper leggere l'architettura stessa, e per parallelo, come saper leggere una poesia significhi misura del tono, dell'espressione, calibrazione del tempo soprattutto, conoscere e quindi amare ciò che si legge, anche l'architettura bisogna conoscerla, una conoscenza che è episteme, e noi conosciamo una cosa quando l'amiamo e ne siamo amati, quando cioè l'abbiamo assunta complessivamente attraverso la ragione ed il sentimento, non a caso lo Schlegel scrive: " La suprema bellezza anzi il supremo ordine sono proprio quelli del caos e precisamente di un caos che attende soltanto il contatto dell'amore per dispiegarsi in un mondo armonico". Ecco perché il caos della città moderna diventa affascinante, perchè ci offre la possibilità di riconoscerne gli e/orrori, perché non necessariamente la malattia del disordine può essere intesa come distruzione dell'ordine, quanto invece di ordine altro. E' all'interno di questo concetto che il decostruttivismo si muove, la scomposizione dello spazio urbano, destrutturazione dell'ordine classico, al fine di poter ricomporre secondo un'espressione viva, contemporanea le tensioni o forze che nell'urbanità sono presenti, persino gli strumenti ne vengono decomposti, le texture, i materiali, la pietra assumono un senso d'esistenza che va oltre il semplice "mascheramento".


Rem Koolhaas, Congrexpo, Lille, Francia, 1996.
Tuttavia potrà essere difficile concepire il linguaggio decostruttivista, capire che non si attua esclusivamente ruotando gli assi cartesiani, non facendo toccare a terra un pilastro o incastrando volumetrie apparentemente in modo gratuito ed anticlassico. Potrà esserlo se si pone attenzione al dato iconico, all'osservazione superficiale ovvero più banale, esso invece risulta dall'investigazione della forma e del concetto di spazio-architettura, investendone nella totalità gli ambiti, comprendenti anche quelli dell'architettura del "between", ovvero delle forme che non cubano, un'indagine cosciente della novità intesa come modo di interpretare ed esprimere un dato evento. E' chiaro quindi che, il decostruttivismo non essendo antistorico, quale importanza assume alla base la conoscenza della storia, di tutta la storia. La scuola universitaria ha addormentato la capacità di apprendimento del neofita di architettura richiedendo un'inutile massa di disegni riproducenti antichi stereotipi progettuali, insegnando la storia dell'architettura catalogata in "ismi" e movimenti. Affermare, come alcuni hanno già fatto, che il decostruttivismo sia uno stile o l'architettura del 2000, significa mostrare i propri limiti, l'incapacità di ricomporre gli eventi storici e gli studi ad essi inerenti in una visione organica, volta alla crescita culturale. Si tratta di costruire un pensiero critico, un processo formativo di un'architettura con i mezzi che ella stessa mette a disposizione, e ciò è garantito da una folta schiera di giovani che agiscono fuori dalle metropoli e dalla estrema corruzione delle carriere universitarie. Nel 1919 W. Gropius indette un concorso ad esclusiva partecipazione di "architetti sconosciuti", ebbene ne scoprì, validi, numerosi, in Italia oggi ricompiere l'esperimento darebbe notevoli risultati.

In conclusione, l'architetto può essere inteso non come propositore di nuove soluzioni dell'abitare, ma come attento studioso delle valenze progettuali tratte dalla stessa città, in particolare la sua figura è dedita alla libertà artistica e di pensiero, che decostruisce la compatta istituzione del potere, della corruzione, dello sfascio, ricomponendola in uno scenario organico: "fuori di una modernità impegnata, sofferta e disturbata non c'è poesia", ciò che l'architettura di fine millennio consegna al XXI secolo non si riferisce agli eroi d'accademia che tanto hanno teorizzato ma poco realizzato, bensì alla comunicazione dell'uomo corrente: all'eroe quotidiano.

Vincenzo Russi
e.russi@tiscalinet.it







Vincenzo Russi, architetto, fondatore nel 1998 dello ZA 250 ArchiTech Workgr@up, ha partecipato a numerosi concorsi internazionali di progettazione. Autore di saggi pubblicati su riviste specializzate ha recentemente dato alle stampe il volume Amori e Città, edito nel 1998 da Montedit. Dal 1999 è consulente Editoriale per archilibro-Cliia Book Service di Pescara.



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