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Paris, Goutte d'Or: un' isola nel mediterraneo. Ipotesi per un "secondo contesto" nella citta' plurietnica *

di Luigi Manzione

(Prologo)

Uscendo di casa in una fredda mattinata di dicembre apprendo, di colpo, di abitare nel centro "più centro" di Parigi. Con soddisfazione, certo, ma non senza un leggero scompiglio nei miei riferimenti sulla socio-geografia dei luoghi centrali della città in cui vivo da qualche anno. Il diciottesimo arrondissement, quello che i turisti conoscono come "Montmartre", ha preso il posto di altri, ben più consolidati centri nell'immaginario e nella realtà economica e culturale parigina: l'île de la Cité, il quartiere Latino, il boulevard Saint-Germain e, più recentemente, il quartiere della Bastiglia o la rue Oberkampf.

Gli articoli sui giornali, i dibattiti nelle sale pubbliche e in televisione, i manifesti dei candidati alle prossime elezioni municipali di marzo 2001 (che non sono esattamente come le presidenziali americane, ma anche a Parigi decidono quasi sempre le sorti del futuro presidente della Repubblica) sono lì, materia prima delle discussioni (anche da caffè) di ogni giorno. Tutte concordi nel dire che le sorti di Parigi nei prossimi anni si giocano interamente nel XVIII arrondissement, diventato perciò il centro della capitale francese, laddove si scontrano i due candidati alla poltrona di sindaco della città.

Il risultato è una certa derealizzazione del quartiere in questione, così fortemente "sbattuto" in prima pagina, a dispetto di un oblìo e di una relativa marginalizzazione di cui, per lungo tempo, esso è stato oggetto. Esci per strada, percorri gli itinerari di cui leggi o di cui vedi le immagini in televisione, guardi i volti di sempre, chiedendoti se ciò che hai davanti agli occhi è lo stesso o, paradossalmente, un simulacro della cosa mediatizzata che ti viene consegnata ogni giorno.

Nel battage promozionale, strategicamente messo a punto per costruire un'identità e un'immagine da marketing del quartiere, anzi dei quartieri di questo arrondissement, le ultime notizie fanno anch'esse un po' di scalpore. Per esempio, che la Virgin, multinazionale del commercio musicale e multimediale, annuncia la prossima apertura di un grande negozio sul boulevard Barbès, vicino al mitico magazzino ultra-popolare Tati e all'altrettanto mitico quartiere maghrebino della "Goutte d'Or". E' inutile dire che a quella della Virgin hanno fatto immediatamente seguito analoghe dichiarazioni di apertura di filiali da parte di altre grandi catene che mai si erano prima viste nella zona.



L'altro nella città e la mitologia dello scontro

Allontanandoci un poco dalla cronaca del presente -ma tenendo conto di questo contesto-, è pur sempre in questa realtà che rimarremo, tra La Chapelle degli antillesi, Chateau-Rouge degli africani, Barbès dei maghrebini, per cercare di capire come cambia la fisionomia della città all'incontro e allo scontro con la multietnia e il multiculturalismo, con la presenza dell'altro nella città. 

E per cercare di comprendere tutto questo nel vivo di una realtà laboratorio, cominceremo proprio dalla Goutte d'Or, da quella terra di frontiera che rimane comunque alle spalle di tutti i Virgin e degli altri templi del loisir che rifaranno, forse, il trucco al boulevard Barbès. 

Il quartiere della Goutte d'Or, situato nella parte meridionale del XVIII arrondissement è tra i più poveri dell'Est di Parigi. Non a caso scelto da Zola come sfondo de "L'Assomoir", è un quartiere che nasce già povero -realizzato con i materiali di risulta provenienti dagli sventramenti haussmanniani- e ad una scala modesta e sottodimensionata. Negli immobili, nelle strade, negli isolati: tutto vi appare piccolo, con uno straniamento di scala che ha qualcosa di più della rievocazione di un'atmosfera provinciale. Eppure vi domina una forte densità, demografica ed edilizia, un cosmopolitismo che è anche il riflesso della vitalità dei quartieri circostanti, a cui si accompagna, oggi, un diffuso degrado degli edifici e degli spazi pubblici, occasionali e polverizzati.

La specificità di questa zona risiede nel fatto che, a differenza delle altre espansioni tardo-ottocentesche di Parigi, essa non ha un'origine di borgo rurale, ma di area formatasi intorno alla gare du Nord
(1): un luogo, dunque, di transito e di nomadismo. La composizione etnico-sociale della popolazione ha fatto della Goutte d'Or una sorta di "melting pot": alla metà dell'800 vi si insediarono impiegati ed operai della gare du Nord; negli anni venti del XX secolo, il quartiere diviene la meta di immigrati algerini; l'immigrazione algerina si rafforza, poi, dopo la seconda guerra mondiale, tanto che durante la guerra d'Algeria la Goutte d'Or appare una specie di quartier generale del FLN. Negli anni '70, quindi, agli algerini si aggiungono altri immigrati: africani, turchi, jugoslavi, antillesi.

Così, questo grande souk internazionale, alla confluenza tra mondo mediterraneo e nord-europeo, diventa, negli anni del gaullismo, un ribollente laboratorio sociale e culturale, una anticipazione concreta della società multietnica del nuovo millennio. Nella Goutte d'Or si esprimono, però, con virulenza le tensioni e i conflitti legati alle difficili condizioni di esistenza: marginalità, esclusione, disoccupazione, rifiuto della coabitazione. "Non si abita -racconta Patricia Paperman- impunemente la Goutte d'Or. È in effetti ogni giorno, in ogni istante che gli abitanti subiscono la violenza della punizione: un'immagine di sé e degli altri dequalificante che riempie tutto il campo della coscienza".

Parallelamente ai processi di marginalizzazione, che coinvolgono le popolazioni immigrate di fronte alle contraddizioni della vita urbana nel quartiere, si deve sottolineare anche la ricerca (o il recupero) di una propria identità da parte dei gruppi insediati, di una propria memoria collettiva, nelle consuetudini culturali e nei modi di abitare. Oggi, infatti, la definizione delle entità sociali -gli individui, i gruppi, i movimenti- diviene particolarmente complessa in un contesto multietnico, a diverse variabili razziali, culturali, religiose e perfino sessuali. La tradizionale metafora del "melting pot" si rivela inadeguata, poiché il problema di fondo non è più quello della semplice integrazione urbana, quanto della coesistenza e della salvaguardia di ciascuna cultura. Per questo, mi sembra più appropriato parlare di "mosaico" urbano piuttosto che di "melting pot" nel caso della Goutte d'Or.

Alla base di questo mosaico è certamente l'esigenza di riconoscimento, che si lega a quella dell'identità, della percezione che gli individui e i gruppi hanno di se stessi e delle proprie peculiarità in quanto individui appartenenti a certi gruppi. All'origine della società multietnica risiede quindi la convinzione che sia possibile giungere ad un arricchimento reciproco, a condizione che ciascuna comunità accetti di relativizzare -cioè porre al contatto dell'"altro"- i propri modi di vita e la propria concezione dell'identità e della cultura.

Questa ricerca collettiva d'identità trova le sue origini e riferimenti nei caratteri propri della città islamica, in particolare dei centri mediterranei dell'Africa islamizzata.

"Le città dell'Islam classico -nota Marcel Roncayolo- si presentano come agglomerati di quartieri autonomi: qui i legami familiari, etnici e religiosi coincidono con la stratificazione sociale. (…) Bisognerebbe dunque distinguere ciò che è esclusione, messa in disparte e ciò che è ricerca di un'identità e manifestazione della propria individualità".
(2)

Questa sembra essere, dunque, la difficoltà principale di un'analisi della Goutte d'Or, sul duplice registro della forma e del paesaggio urbano e dei fenomeni sociali, economici e culturali.

Il radicamento del legame sociale, riconducibile all'ordinamento originario del sistema tribale caratteristico degli insediamenti mediterranei, si ritrova anche nelle città africane post-coloniali: qui, tuttavia, macroscopici agglomerati creati nelle periferie -i cosiddetti "quartieri indigeni"- riproducono deliberatamente gli schemi ortogonali propri delle lottizzazioni coloniali, decretando così la scomparsa definitiva della forma insediativa peculiare del villaggio, in cui la gerarchia sociale e familiare determinava una corrispondente gerarchia nella collocazione e nei caratteri delle abitazioni.

È semmai nelle bidonville proliferanti ai margini delle città dell'Africa mediterranea -a Tunisi, ad Algeri, per esempio- che, nell'atopia di una periferia senza nome, occasionale ed abusiva, permangono ancora le tracce del legame sociale. 

Se qui si è perduto qualsiasi riferimento alla struttura morfologica del villaggio tradizionale (o della città consolidata), rimane comunque vivo il sistema dei rapporti e delle interdipendenze sociali: una permanenza che non si verifica più nella forma dell'insediamento, nel piano della città, ma piuttosto a livello antropologico e sociale. È proprio questo tipo di permanenza che ritroveremo puntualmente negli insediamenti di comunità immigrate, tanto a Parigi, quanto in altre città europee.



Il rinnovamento urbano tra igienismo e mimesi della città storica

La Goutte d'Or è diventata nel tempo l'incarnazione evidente del quartiere da risanare e rinnovare. Una sorta di gigantesco quanto mitico "îlot insalubre". 

Il degrado del costruito e degli spazi pubblici, le tensioni sociali ed etniche, l'illegalità diffusa e la marginalità, sono tutti elementi che convergono, da più di un quindicennio, ad invocare un intervento radicale nell'area.

La Municipalità di Parigi vi ha messo in campo una grande operazione mista di rinnovamento e riabilitazione urbana, applicando a diversi settori la dichiarazione di Utilità pubblica. 
In considerazione della forte densità edilizia, della presenza di un parco immobiliare molto degradato, di una popolazione a basso reddito, si è definito un programma di intervento flessibile, ossia un mix di ristrutturazione e di nuova costruzione, articolato in tre momenti essenziali: 1) il risanamento dell'habitat insalubre (negli isolati più antichi e degradati); 2) l'adeguamento e la modernizzazione degli alloggi negli edifici da conservare; 3) la realizzazione di nuove attrezzature di quartiere.

La complessità del problema e le poste in gioco non lasciavano spazio alle semplificazioni: la situazione si presentava infatti polarizzata tra i due estremi del discorso e della pratica di matrice igienista, da un lato, e delle preoccupazioni morfologico-compositive dell'architettura urbana, dall'altro. Posizioni diverse, certo, ma che tuttavia si pongono su un comune piano di legittimità rispetto agli obiettivi della trasformazione urbana. È però da verificare se entrambe si collocano anche su un comune piano di pertinenza rispetto alle qualità auspicate nella trasformazione.

Il rinnovamento della Goutte d'Or, da questo punto di vista, non può prescindere dall'esistenza dell'insediamento multietnico, di quella specie di souk arabo-francese (o viceversa), punto di confluenza del Maghreb dislocato nell'Europa centro-settentrionale, con la gare du Nord a fare da tramite nella corrente dei flussi e degli incontri. È perciò necessario creare le condizioni materiali, lo scenario fisico, della coabitazione tra arabi e francesi, tra immigrati e parigini, favorendo una vera "mixité", non solo dal punto di vista della composizione sociale ed etnica del quartiere, ma anche, e soprattutto, da quello 
del costruito, degli spazi aperti e delle attività. Solo questa compresenza può, in prospettiva, scongiurare il pericolo di una irragionevole permanenza del ghetto in un'area della Parigi storica.

Ciò appare ancora più essenziale, quando si considerino i profondi mutamenti epocali che avvengono oggi nell'urbano, e che concorrono anch'essi ai processi di disgregazione delle relazioni sociali. Come osserva François Ascher, a proposito della rottura di tutte le possibili "unità originarie", "la socializzazione all'interno dei quartieri e le relazioni di vicinato sono pratiche oggi in estinzione. (…) Si ha la sensazione che il quartiere stia scomparendo. (…). Questo non significa tuttavia che la città stia scomparendo, bensì si ricompone ad un'altra scala. Inoltre, l'incremento di velocità modifica le scale della socializzazione, delle ineguaglianze, delle segregazioni sociali".
(3)

La necessità di promuovere le condizioni di un ambiente di vita che favorisca il confronto e l'integrazione, piuttosto che il conflitto e la marginalità, è dunque al centro delle proposte di progetto urbano per la Goutte d'Or, proposte che ritornano di evidente attualità proprio nelle prospettive politiche in gioco (e nella mediatizzazione estrema con la quale si cerca di fare del quartiere un nuovo scenario da mettere sotto accecanti e, forse, deformanti riflettori).



Vecchi progetti, nuovi contesti

È necessario adesso fare un passo indietro, poiché le ipotesi di intervento possono essere ricondotte a due progetti presentati alla fine degli anni '80: quello ufficiale di Gérard Thurnauer per l' APUR (Atelier Parisien d'Urbanisme) ed il controprogetto del gruppo coordinato da Maurice Culot.

Questo esame retrospettivo è forse utile per ricollocare la questione del rinnovamento del quartiere nel contesto di un discorso e di una pratica disciplinari (che, pure, oggi ci appaiono distanti anni luce).

Nella gamma di intenzioni, contenuti e priorità espressi da tali proposte, possiamo leggere infatti in filigrana la condensazione dei dissidi in cui si agita il dibattito sul rinnovamento dei quartieri della città storica in Francia, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90.

E l'esperienza della Goutte d'Or mi sembra doppiamente esemplare: dal punto di vista teorico, perché fa luce sulla specificità dell'apporto francese alle tematiche del progetto urbano nelle aree consolidate, in instabile equilibrio tra la centralità del tipo e della morfologia e le preoccupazioni economico-sociali (o sociologizzanti); dal punto di vista operativo, perché mostra la complessità con cui si scontra un intervento realizzato in una città come Parigi, su un quartiere profondamente plasmato (anche in senso spaziale) dalla cultura mediterranea, ma concepito da architetti di cultura francese.

Le difficoltà di natura disciplinare e le scelte di disegno urbano, di dialogo con il contesto, si uniscono ai problemi di natura sociale, prima tra tutte la definizione dei limiti della salvaguardia dei ceti insediati, compatibile con la rivitalizzazione del quartiere. In più, la composizione plurietnica della popolazione induce ad una riflessione attenta su ciò che, con un termine non privo di ambiguità, definirei il "secondo contesto" della Goutte d'Or. Che non è più quello del paesaggio urbano parigino, ma neanche (più) quello dei luoghi di origine delle comunità insediate.

Di qui il rimando, certamente problematico, al Mediterraneo, a quel "lago interiore"
(4) alle origini della civiltà europea; di qui, ancora, la necessità di tener conto negli interventi sull'area della dimensione insieme fisica ed antropologica, che esprime il processo di transfert e di contaminazione tra due diversissime culture. Di quella realtà che mi sembra di poter definire, in breve, come un' "isola (parigina) nel Mediterraneo".



Ipotesi per un "secondo contesto"

La differenza sostanziale tra il progetto di Thurnauer e quello di Culot può essere ricondotta proprio a questa definizione di contesto, che cercherò adesso di esplorare. Culot, coerentemente con le esperienze di La Cambre, elegge ad unico riferimento la città di Parigi, la sua architettura storica, la "monotonia" (per riprendere un'espressione di François Loyer) del suo paesaggio di pietra, recuperando così il modello dell'immobile haussmanniano, ma in una scala ridotta, per certi versi impropria; mal dissimulando, alla fine, un'impressione di falsità da scena teatrale.

Thurnauer, invece, apre la riflessione progettuale anche a ciò che ho definito come "secondo contesto" della Goutte d'Or: ai suoi spazi di incontro e di socialità, alla valenza collettiva ed aggregativa della strada e della piazza. Ciò si traduce nella presenza di strade e passaggi pedonali, di piccoli slarghi e spazi verdi. In particolare, la proposta di realizzare dei porticati induce ad una comparazione con alcuni dei migliori piani urbanistici per le città coloniali del Protettorato francese, quale quello di Henri Prost per Casablanca (1914-15). 

Emerge, da questo confronto, un elemento di riflessione sul tema della città e del quartiere multietnici: è proprio il trapianto a Parigi di un modello peculiare della città coloniale -che tuttavia trova le sue radici profonde, prima ancora, nella storia delle città dell'Africa mediterranea islamizzata- a contenere in sé, in maniera esemplare, la ricerca d'identità delle comunità etniche, ma anche le positive virtualità della ibridazione e della integrazione nello scenario urbano. Di quello che i francesi chiamano "métissage" e che esprime, in fondo, uno dei caratteri ormai costitutivi della società francese stessa.

Alla stratificazione della città nel tempo, ai diversi apporti che la storia deposita nel suo palinsesto, bisognerebbe dunque affiancare una sorta di stratificazione della città in senso spaziale, ossia i diversi apporti depositati dalla geografia, ed in particolare dalla geografia delle migrazioni. E ciò è particolarmente necessario guardando il paesaggio di una città come Parigi.

"La città -scrivono Carlo Olmo e Bernard Lepetit- cristallizza le antiche configurazioni territoriali e, al tempo stesso, perpetua le pratiche sociali delle generazioni precedenti; essa non dissocia, ma anzi fa convergere in uno stesso luogo i frammenti di spazio e le abitudini derivanti da diverse epoche passate. Lo spazio urbano mette in rapporto costante i continui, e apparentemente più insignificanti, adattamenti dei comportamenti cittadini con i ritmi più discontinui dell'evoluzione delle forme urbane".
(5)

L'interrogativo che vorrei sollevare è se l'irrompere delle migrazioni nelle grandi città europee non legittimi, oggi -non includa cioè nell'ambito del progetto urbano- la convergenza di altri "frammenti di spazi" e di consuetudini insediative e spaziali derivanti da altri luoghi, oltre che da epoche passate.

Se, cioè, l'idea di "métissage" non sia in qualche modo costitutiva del paesaggio di pietra, oltre che una direzione preferenziale nel movimento della cultura e della società. Ad una nozione di contesto definita in senso diacronico (relativa alla storia della città), non andrebbe affiancata anche una parallela nozione di contesto definita dal punto di vista geografico (relativa quindi alla trama dei rapporti e degli scambi, delle influenze e delle contaminazioni, dei transfert di modelli ed esperienze e del loro continuo riadattamento "creativo" alle condizioni locali); nozione questa, altrettanto feconda proprio nel suo esprimere un diverso ordine di stratificazioni e di tracce presenti nella città sedimentata?



L' "altro" nella città: una prospettiva di confronto

L'integrazione dell' "etnicamente diverso" nella città, nella prospettiva dell'antropologia del "vicino e del distante", "du proche et de l'ailleurs",
(6) mi sembra dunque un fenomeno da esplorare nelle sue implicazioni spaziali, e non solo sotto l'aspetto sociologico ed economico. 
Da indagare, cioè, nelle forme delle modificazioni urbane ed architettoniche che tale integrazione apporta, più o meno intenzionalmente.

Come ricordava Michel de Certeau, a proposito del transfert e dell'adattamento di modelli domestici, "le maniere d'abitare (…) proprie della sua Cabilia natale, il maghrebino a Parigi le insinua nel sistema che gli impone la costruzione di una HLM (abitazione a fitto moderato) (…). Egli le sovrappone e, attraverso questa combinazione, si crea uno spazio in cui giocare diverse maniere di utilizzo dell'ordine restrittivo del luogo (…). Senza uscire dal posto in cui è destinato a vivere, e che gli detta una legge, egli vi instaura un nuovo gioco di pluralità e di creatività".
(7)

In questa prospettiva, probabilmente, una storia urbana con lo sguardo plurale e creativo dello "straniero" è ancora tutta da scrivere (o da riscrivere): una storia che focalizzi i modi dell'abitare nelle aree di forte immigrazione, collocandoli nelle forme concrete dello spazio pubblico, della strada, dell'alloggio.

E ciò assume notevole rilevanza proprio per la necessità di immaginare e definire un nuovo tipo di progetto urbano per un nuovo tipo di città : la città plurietnica. Un modo diverso di concepire il progetto urbano, dove l'attenzione verso le varie parti della città non può essere disgiunta dall'indagine sui modi di formazione, di assimilazione e di sviluppo di tali parti in rapporto ai bisogni e alle potenzialità espressi dalle molteplici etnie in essa presenti.

Se volessimo ricercare delle tracce di riflessione e di operatività nel senso indicato, dovremmo rivolgerci non tanto alla tradizione dell'architettura urbana, ma piuttosto alle sperimentazioni sull'habitat condotte sulla base della complementarità tra fenomeni spaziali e socio-antropologici: dovremmo, cioè, rileggere le ricerche di Michel Ecochard, i lavori dell' ATBAT-Afrique (Candilis-Bodiansky), fino alle teorizzazioni del Team X (in particolare degli Smithson e di Giancarlo De Carlo) in tema di identità urbane locali, alla luce delle profonde trasformazioni che la dimensione multiculturale, l'incrocio delle etnie, il sovrapporsi dei colori, la nuova babele delle lingue, imprimono giorno per giorno nel volto di pietra delle città. Ma questo potrebbe essere il tema di un'altra esplorazione, ancora tutta da tentare.

Il che, evidentemente, aprirebbe un terreno di confronto -al di là del rumore delle mode presenti e passate- tanto più fertile, quanto più le realtà attuali del progetto urbano si intersecano alle complessità culturali e sociali delle popolazioni residenti, alle inquietudini e ai conflitti nelle città e nelle metropoli, all'esigenza di una maggiore equità e dignità nei modi e nelle condizioni dell'abitare. Tanto più che l'emergenza di questa nuova costellazione di fenomeni riguarda sempre più l'intera Europa e non soltanto la Francia.

In fondo, nessuna ricomposizione urbana sarà veramente valida e utile se non è capace di dare una risposta ai bisogni e ai desideri dei suoi abitanti, efficacemente espressi nelle parole semplici ma eloquenti di una donna della Goutte d'Or: "I miei figli, se nasceranno qui, saranno francesi, francesi-tunisini. Io insegnerò loro l'arabo perché è una bella lingua, e la religione perché è quella dei loro avi; ma vorrei che in Francia essi si sentano come a casa propria. Non credo che avranno molti problemi, la Francia mi sembra adesso molto "melangée", molto "mescolata". Essi avranno degli amici, forse portoghesi… Non mi pongo problemi. Esistono ex-sovietici musulmani, perché non dovrebbero esserci anche dei francesi musulmani, come ci sono dei francesi ebrei?".

Luigi Manzione
luiman@free.fr
[25dec00]






Luigi Manzione, architetto, insegna all'Ecole d'architecture di Parigi-La Villette (corso Ville et banlieue). Prepara una tesi di dottorato in Urbanisme et aménagement presso l'Università di Paris VIII-Saint Denis. Ha in corso ricerche sui temi dell'urbanistica e della storia della città, in particolare sul rapporto città-periferia; sulla teoria del progetto urbano in Italia e in Francia tra gli anni '20 e '40; sulle trasformazioni del paesaggio della periferia europea. Si interessa, inoltre, di arte contemporanea e di fotografia.












note

(*) Alcune delle riflessioni contenute in questo testo riprendono, sviluppandole e rielaborandole, delle ipotesi formulate in un intervento presentato con Mario Zoratto, architetto, professore all'Ecole d'Architecture di Parigi-La Villette, al "Forum internazionale di studi-La città del Mediterraneo" tenutosi a Reggio Calabria nel maggio 1998, dal titolo Il Mediterraneo a Parigi. La Gotte d'Or: confronto, conflitto, ibridazione urbana.

(1)
Cfr François Loyer in M. Breitman e M. Culot (éd), La Goutte d'Or. Faubourg de Paris, Paris-Bruxelles, Ed. Hazan et Archives d'Architecture Moderne, 1988.
(2) M. Roncayolo, La città. Storia e problemi della dimensione urbana, Torino, Einaudi, 1988, p. 70.
(3) F. Ascher, "Trasformazioni urbane e sociali in vista del XXI secolo", in AA. VV., Il futuro della città, Napoli, C.U.E.N., 1997, p. 43. La ricomposizione ( o l'infinita de-composizione?) dell'urbano avviene oggi, a Parigi come altrove, non più alla scala del quartiere o della città consolidata, bensì alla grande dimensione fisica e culturale della metropoli. E' in essa che si ritrovano le figure centrali dell'esperienza urbana contemporanea: l'individuo contrapposto alla comunità, il consumo contrapposto al lavoro, il ghetto contrapposto all'unità della "civitas". In questo senso, la Goutte d'Or appare ancora una realtà ampiamente recuperabile ed integrabile al corpo della città, rispetto alle periferie dimenticate, alle difficili "banlieues" della Grande Parigi.
(4) La definizione -"La Méditerranée, 'lac intérieur'"- è tratta dal rapporto redatto da Jacques Myard per la Commissione degli Affari Esteri alla Assemblea Nazionale francese, dal titolo La France et la Méditerranée: les nouveaux enjeux, Parigi, 1995, pp. 7 sgg.
(5) Carlo Olmo e Bernard Lepetit, "E se Erodoto tornasse in Atene? Un possibile programma di storia urbana per la città moderna", in C. Olmo, B. Lepetit, (a cura di), La città e le sue storie, Torino, Einaudi, 1995, p. 32.
(6)
Di cui parla Marc Augé in Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Ed. du Seuil, 1992.
(7)
M. de Certeau, L'invention du quotidien. 1. Arts de faire, Paris, Gallimard, ed. 1990, pp. 51-52.
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