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Digitale e cosmico. Un Summer Institute a Chicago

di Yves Nacher

 

C’è una cosa che mi piace tanto al dipartimento di fisica dell’Ecole Normale Supérieure di Parigi. Mi piace ancor più il nome: il pozzo cosmico. Si tratta di una specie di cavità senza fondo, cui si accede attraverso un semplice tombino nel pavimento di un laboratorio, come fosse il portello di un sottomarino. In fondo a questo condotto stretto, intimo ed organico che si inoltra nella Terra alla Jules Verne, un bozzolo protetto dalle radiazioni parassite e dai rumori di fondo provenienti dalle stelle attende nell’ombra da oltre trent’anni dei Professori Girasole che ormai non vengono più. Nella mia ingenuità mi piace pensare di poterci andare a sedermi quando voglio, tagliato fuori dal mondo, ed abbandonarmi ai miei pensieri o alle mie aspirazioni fondamentali –come si dice di una scienza- con allo stesso tempo, come corollario di questo splendido isolamento, la necessità vitale di lottare contro la claustrofobia attraverso una fuga mentale verso l’esterno, una specie di proiezione compulsiva dello sguardo e del pensiero verso un lontano virtuale tagliato si misura.

[22jul2001]
Non è un caso se, per il suo Summer Institute in Digital Media (I-dMedia), la University of Illinois at Chicago ci ha rinchiusi per due settimane in una stanza sotterranea cieca, una specie di rifugio antiatomico tiepido e silenzioso escluso dal mondo. L’apparente regola del gioco: per la ventina di studenti partecipanti, familiarizzare in primo luogo con due software d’animazione tipicamente destinati all’industria delle immagini (Maya e Softimage) e quindi, attraverso questi strumenti, «rileggere» il programma di un concorso organizzato a Chicago per trasformare un banale edificio per uffici posto al centro della città in un centro d’informazione turistica. La vera questione: sbarazzarsi dei soliti referenti per la ginnastica del progetto d’architettura e porsi in condizione di verginità (o perlomeno di pseudo innocenza) per concepire, dare forma e sperimentare un processo progettuale originale. Più che produrre un progetto definito, l’oggetto del contratto morale così come fissato dagli organizzatori di questo evento (1) era definire un punto di vista critico, al di là del superficiale filtro e dello specchio per le allodole dello strumento, sul corpus dell’architetto, sulla costruzione delle sue strategie, sulla gerarchizzazione delle sue scelte e sulla capacità di identificare, di rivendicare e di assumere le proprie responsabilità di agente attivo nella trasformazione delle città e dei territori – e non di semplice accompagnatore illuminato, di carrozziere o di costumista (per quanto bravo sia) di mutazioni di cui non sarebbe che lo spettatore.

La meccanica per raggiungere il risultato è stata duplice, a meta strada fra la capsula di Petri e Il Grande Fratello. Per accelerare le reazioni chimico-organiche una panoplia di catalizzatori e/o di agenti provocatori. In primo luogo i tre critici invitati (2) che hanno accompagnato il workshop come tre Candido di Rousseau, di cui, se non la missione, almeno il privilegio è stato quello di contaminare l’atmosfera controllata del pozzo cosmico con dei germi parassiti destinati a testare gli anticorpi di ciascuno, la solidità delle difese immunitarie delle strategie in costruzione. Successivamente, un corpus di testi teorici (3) sottoposti giorno dopo giorno a discussione collettiva come in un forum tra i partecipanti ed i loro diversi campi di appartenenza (studenti di architettura, ma anche fisici, designers industriali o ancora ingegneri strutturali). Infine, la natura stessa del tema proposto come «progetto» che, facendo riferimento al turismo, ha mescolato le problematiche legate all’immagine ed al suo consumo (soprattutto con riferimento a quelle generate e manipolate sui computers di questo "paperless studio"), alla posizione o al ruolo dell’architettura in relazione all’industria della nostalgia, all’economia, alla disneificazione dei luoghi e delle pratiche sociali contemporanee, legate ai nostri personali punti di vista sull’emergere di un edonismo del “tutto e subito” e di una trasformazione del quotidiano in una fiction che anestetizza il nostro senso critico in una specie di stupore simile a quello prodotto dall’alcool.

(1) Ammar Eloueini e Doug Garofalo, insegnanti presso la School of Architecture-UIC.
(2) Marco Brizzi (Firenze), Luca Galofaro (Roma), Yves Nacher (Nizza, Parigi).
(3) Stan Allen, Norbert Wiener, Antonino Saggio, Bernard Cache, Paul Virilio, Mitchel Resnick, Gilles Deleuze e Felix Guattari.
Coerentemente col riferimento al cinema indotto da questi software, i partecipanti ci hanno insomma proposto dei racconti architettonici sotto forma di immagini e di movimento, dei discorsi polemici aperti alla critica (i lavori saranno consultabili su http://uic.edu/depts/arch/idmedia). Certo, a meno di andare a lavorare da Disney (giustamente) o da Spielberg (come tanti A.I.), è poco probabile che queste venti cavie consenzienti potranno mai diventare dei dipendenti da Maya o da Softimage. Pertanto, alcuni di loro hanno proprio saputo animare in modo costruttivo, o anche compulsivo, gli emisferi dei loro stessi cervelli (cfr. i comandi «translate», «rotate», «scale», «warp», «shapes» o soprattutto «input» dei menu di questi software) per arricchire in modo dialettico i loro modi di pensare e hanno saputo ipotizzare delle nuove sceneggiature del processo progettuale, ben distinti da un fascino qualsiasi per lo strumento stesso. Uffa! Se così non fosse stato, allora avrebbe voluto dire che qualcuno, o loro o noi, non ha fatto bene il proprio lavoro. E noi avremmo quindi perso quindici giorni d’estate in fondo ad un pozzo cosmico mentre i jet-skis sfrecciavano sul lago Michigan ai piedi delle torri di Mies.

Yves Nacher
yvesnacher@hotmail.com
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