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ZAHA HADID/1

di Luigi Prestinenza Puglisi
1. Esordi | 2. Esplosioni | 3. Una nuova fase | 4. Due opere, un capolavoro | 5. Due anime
6. Una collana per Malevich | 7. Frammentazione e pixel | 8. Flussi
Qualche giorno fa è stato pubblicato, all'interno della sezione a cura di Luca Galofaro, nella collana di volumi de L'industria delle Costruzioni, il libro ZAHA HADID, scritto da Luigi Prestinenza Puglisi. ARCH'IT propone ai suoi lettori, in due puntate, la lettura integrale del saggio.



1. ESORDI

[in english]
1983. I riflettori si accendono su tre architetti formatisi alla Architectural Association di Londra. Sono Bernard Tschumi, Zaha Hadid, Rem Koolhaas che propongono, con un brusco e repentino mutamento di rotta, di sbloccare l'empasse creativo provocato dall'ancora dominante clima postmodern. Il non ancora quarantenne Bernard Tschumi, di nascita svizzero ma di adozione francese, vince il concorso per la realizzazione del parco de La Villette a Parigi con un progetto liberamente ispirato dalla logica kandiskiana dei punti, delle linee e delle superfici. Il trentanovenne olandese Rem Koolhaas realizza per lo stesso concorso de La Villette un progetto fondato sulla opposizione tra determinatezza e casualità, ispirandosi alla logica additiva dei layer del computer. La trentatreenne irachena Zaha Hadid si aggiudica, con la proposta di longilinei corpi di fabbrica precariamente assemblati lungo il pendio della collina, il concorso per la costruzione di un complesso abitativo e ricreativo sovrastante la città di Vittoria a Hong Kong Peak. 

[08dec2001]
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Zaha Hadid, pur essendo ancora giovanissima, ha fama di enfant prodige. Si è laureata in matematica all'università americana di Beirut. E, poi, trasferitasi a Londra, si è iscritta nel 1972 alla Architectural Association (AA), fucina delle avanguardie degli anni sessanta, dove hanno insegnato gli Smithson e gli Archigram. Qui incontra Elia Zenghelis, che vi insegna dal 1965 e Rem Koolhaas, che è professore dal 1976. Con entrambi collaborerà, dopo la laurea, all' Office for Metropolitan Architecture che lascerà presto, per l'obiettiva difficoltà a relazionarsi con un carattere forte come quello di Rem Koolhaas. Ma, soprattutto, alla AA legherà con il direttore Alvin Boiarski, uno straordinario manager della formazione universitaria, che la coopterà nel corpo docente della scuola e, più tardi, scriverà due pubblicazioni a lei dedicate: The elegance of the Plan e Furniture and Other Domestic Projects

Zaha Hadid, come molti degli studenti della AA, è affascinata dallo spazio fluido di Mies e dal suo ascetico riduttivismo. Ne studierà il Padiglione di Barcellona ma anche la casa a patio con garage del 1934, un progetto dove Mies accanto a piani e linee rettilinei introduce lastre curve che flettono lo spazio comunicando tensioni di vitale intensità. Tensioni che la Hadid ritroverà anche nella sensuale eleganza delle case di Oscar Niemeyer e, in particolare, nella abitazione privata realizzata per se stesso a Canoa, Rio de Janeiro nel 1953. Completano la formazione della giovane studentessa la spazialità liquida di Kandinsky, fatta di forme primarie che si incontrano e si scontrano lungo linee forza che le stesse figure contribuiscono a formare. E, infine, il fascino per l'estetica del movimento che si respira quasi nell'aria in una università dove forte è stato l'influsso degli Archigram e di Reyner Banham: quindi il Futurismo, il Costruttivismo e il Suprematismo. 

Nel 1976 La Hadid propone come tesi di laurea il progetto di un ponte sul Tamigi, sul quale, sulla falsariga di strutture quali Ponte Vecchio a Firenze, viene costruita una struttura edilizia coperta che, però, in questo caso, si snoda su quattordici livelli. L' opera è ispirata ai modelli suprematisti. Vi allude il titolo Malevich's Tektonik con un esplicito riferimento al suo massimo esponente, Kazimir Malevich (1978-1935), e alla teoria delle forme pure e della sensibilità plastica da lui elaborata tra il 1910 e il 1914, qui riassunta con il termine di tettonica. Ma una tettonica un po' sui generis, in cui l'attenzione è spostata dal contenitore al contenuto, dall'involucro murario allo spazio esistenziale. Quindi più che una grammatica delle forme che trova espressione nei pieni -come a rigore la tettonica dovrebbe essere- una organizzazione logica dei vuoti dove le tensioni strutturali si trasformano in puri fatti spaziali. I vincoli costruttivi acquistano una profonda intensità diventando spazio: turning -dirà la Hadid- all conceivable constraints into new possibilities for space. E le linee forza della materia si trasformano in energia, non in puri fatti decorativi, mortificati al ruolo di semplici proiezioni sui muri o sulle pareti.

Se esaminiamo il progetto Malevich's Tektonik, alla luce delle problematiche tipiche della prima metà degli anni settanta, che lo ricordiamo sono gli anni in cui forte è l'influsso storicista (nel 1977 esce The Language of Post-Modern Architecture di Charles Jencks), vedremo che i messaggi veicolati dalla Hadid sono almeno quattro.

PRIMO. Riscoprire, attraverso Malevich, la sorgente astrattista a cui ha attinto il Bauhaus, il neoplasticismo olandese e, infine, Mies. Quindi rifiuto di abiurare il moderno e decisa opposizione verso la tradizione classicista, così come riproposta in quegli anni da Graves, Rossi, Krier, Stirling.
SECONDO. Lavorare con geometrie agili, intense, dinamiche. Insomma ritornare ad uno spazio fluido contrassegnato da punti, linee, superfici. E recuperare non solo l'esperienza neoplastica di Mondrian e Van Doesburg ma anche quella più fluida di Kandinsky, con il quale Malevich ebbe frequenti rapporti. Anche qui un ritorno alle fonti, questa volta alle origini dell'astrattismo quando le due linee, la rigidamente geometrica dei neoplasticisti e la intensamente emotiva dei russi, non si erano ancora separate. 
TERZO. Dichiarare il proprio disinteresse per ogni vertenza di natura semantica. Gli anni settanta sono angosciati dal problema del linguaggio, dal tentativo di recuperare all'architettura significati , spesso attraverso valori iconici o il rimando a segni e simboli codificati dalla tradizione. Riproponendo l'estetica suprematista, la Hadid afferma che il fine dell'architettura non è linguistico quanto espressivo: è la ricerca di valori formali, cioè di una nuova sensibilità plastica. Il Suprematismo, affermava Malevich, è libero da ogni tendenza sociale o materialistica, da ogni volontà di comunicazione di fatti che non siano rigorosamente formali: " l' artista ... getta via le idee, i concetti e le rappresentazioni, per dare ascolto solamente alla pura sensibilità". 
QUARTO. Dichiarare inconsistente ogni divisione disciplinare delle arti. Se l'arte è pura sensibilità plastica, non ha più senso parlare di pittura, scultura e architettura come attività distinte perché tutte contribuiscono a un solo fine: la costruzione di uno spazio in cui cessa ogni differenza tra il figurativo e l'esistenziale, cioè in cui vita e arte coincidono. Malevich nel 1923 aveva elaborato il progetto per Planita, una casa del futuro, che avrebbe permesso di vivere in un ambiente rigorosamente geometrico. E questa abitazione toccò profondamente Mondrian e Theo Van Doesburg che nel 1925 ne fecero costruire il prototipo. Rietveld ne fu influenzato tanto che anche nella sua opera è difficile determinare i confini tra pittura, arredamento e architettura. E lo stesso Mies, che si formò in questo ambiente culturale, ebbe una visione fortemente pittorica dello spazio architettonico.

Nella tavola riassuntiva del progetto Malevich's Tektonik la commistione tra le arti si intravede chiaramente: rettangoli variamente colorati librano nello spazio in basso a sinistra per poi coagularsi nella unità delle piante che, a loro volta, confluiscono nella rappresentazione assonometrica del progetto. È un tema questo -del passaggio dalle due dimensioni della pittura alle tre dimensioni dell'oggetto architettonico- che verrà più volte ripreso dalla Hadid. Sia nei successivi progetti che nelle esercitazioni proposte agli studenti della AA: invitati a trasformare i quadri di Malevich in progetti di architettura.

Sin qui i caratteri di novità del progetto. Che però è pur sempre una prima prova non priva di ingenuità. Soprattutto per i processi di scomposizione adottati che più che esaltare le forze in gioco, evidenziandone intensità e direzioni, tendono a ridurle a un sistema, sia pur precario, di equilibri.



2. ESPLOSIONI

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La tensione tra spazio e energia esploderà nel progetto per un complesso abitativo e ricreativo a Hong Kong Peak con il quale, come abbiamo visto, la Hadid vincerà il concorso internazionale del 1983.

Sono trascorsi sette anni (sei, se consideriamo che il bando è del 1982) dalla prima prova di Malevich's Tektonik durante i quali l'architetto ha insegnato alla Architectural Association, ha collaborato con l' Office for Metropolitan Architecture al progetto per l'ampliamento del parlamento olandese (1978-79) e, infine, ha aperto nel 1979 un proprio studio professionale impegnato alla redazione di proposte per la residenza del primo ministro irlandese (1979-80), per la ricostruzione del 59 Eaton Palace a Londra (1981-82) e per il concorso del parco de La Villette. Il progetto per Hong Kong Peak è un lavoro maturo, affrancato dalle citazioni stilistiche che avevano appesantito Malevich's Tektonik.

La Hadid evita di ricadere nell'errore di disarticolare i piani di un edifico la cui forma è tutto sommato tradizionale. Ne propone, invece, uno frammentato nei suoi più semplici elementi costitutivi che, mutuando un termine preso in prestito dalla logica dei computer, chiama layers o strati.

Sono cinque: il primo è composto da quindici appartamenti duplex; il secondo è formato da due piani ciascuno con dieci alloggi simplex; il terzo è un layer virtuale caratterizzato da un vuoto di 13 metri nel cui interno, come satelliti, flottano liberamente gli spazi destinati al club: palestre, spogliatoi, stanze per le attività sociali; il quarto è occupato da 4 attici (penthouse flats) mentre il quinto è riservato all'alloggio privato del promotore dell'iniziativa edilizia. Ciascuno strato ha una configurazione lineare. Ma ognuno, orientato verso una propria direzione, aggredisce la collina in modo diverso. L'edificio sembra così vibrare come se soggetto a un movimento sismico (a gentle sismic shift on an immovable mass). E, anche grazie al vuoto intermedio del terzo layer, l'intera costruzione perde consistenza di massa per essere una leggera struttura polidirezionata. Resa vibrante dalla scelta di staccare, facendoli quasi volare in aria, il quarto e quinto strato, concepiti come longilinee strutture scatolari, sorrette su un numero ridottissimo di pilastri. Questi ultimi inclinati al fine di visualizzare la precarietà di un fragile equilibrio.

Dovendo descrivere in termini paesistici il progetto, la Hadid parla di un organismo che si relaziona con violenza nei confronti della natura ma che contemporaneamente rifiuta di farne tabula rasa (defies nature and resist destroing it). In realtà il progetto è una critica serrata sia al contestualismo mimetico post-modern che alla resa ecologista. Propone, invece, un contestualismo aggressivo in cui è l'edificio stesso che serve a costruire il paesaggio, a fare natura, perché ne diventa parte integrante, anzi protagonista, e perché attraverso i suoi spazi interni si svelano viste e orizzonti che altrimenti resterebbero inesplorati. Riferimenti sono opere quali il convento di Sainte-Marie-de-la-Tourette di Le Corbusier e Fallingwater di F.Ll. Wright che trasformano contesti naturalistici interessanti ma banali in capolavori ambientali, a partire da una integrale riscrittura del paesaggio. Ma vi è anche una ossessione culturale tipica delle avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta -dai situazionisti ai gruppi radicali- di ridefinizione dell'orizzonte. Contro le piatte e sclerotizzate sequenze spaziali standardizzate e regolari che impongono un unico punto di vista, Zaha Hadid propone un'architettura che, come una sequenza cinematografica, costringe a mutarlo continuamente, stabilendo sempre nuove relazioni -visive ma anche tattili, acustiche e olfattive- con gli spazi naturali e artificiali che si snodano in sequenza. Da qui una sorta di equivalenza architettura-percorso che ha due conseguenze: l'attenzione spasmodica al disegno delle piante intese come il piano orizzontale lungo i quali si svolgono gli avvenimenti e la preferenza per impianti lineari lungo i quali gli spazi di sosta -se ve ne sono -si organizzano cineticamente.

Peter Buchanam, il critico dell'Architectural Review che nell'ottobre 1983 recensisce sia il progetto della Hadid per The Hong Kong Peak che di Koolhaas e Tschumi per la Villette (AA tutors win the Peak and the Park), nota che mentre il primo progetto, che è urbano, ha una dimensione paesaggistica, il secondo, che è relativo a un parco, ha invece una risoluzione urbana. In realtà i due termini -naturale e urbano- a partire dagli anni ottanta cominciano a perdere significato, perché non ha più senso parlare di architettura senza affrontarne le interazioni con l'ambiente, mentre il concetto di parco come spazio assolutamente naturale è un non senso in una dimensione metropolitana. Ne segue una maggiore libertà per il progettista che può cominciare a vedere la realtà come una sovrapposizione di sensi -e non è un caso che tutti e tre i progetti ricorrano al concetto di layer- ovvero come una geografia polistratificata da implementare, ricombinare e organizzare.



3. UNA NUOVA FASE

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Il 1983 è per la Hadid un anno importante. Alla vittoria al concorso per Hong Kong Peak, si affianca la retrospettiva a lei dedicata alla Architectural Association. Titolo: Planetary Architecture Two, quasi a indicare il carattere aereo e intensamente spaziale della sua produzione. 

È tempo di bilanci che vengono sintetizzati in un quadro dal titolo Word (89 degrees). Sono rappresentati i principali progetti di sette anni di lavoro che, composti insieme, formano un paesaggio urbano inquietante a causa della angolazione aberrata del punto di vista scelto: ipotizzato all'interno di un missile in fase di decollo verticale e già sufficientemente in alto da far intravedere la curvatura della terra. Potrebbe essere un messaggio metaforico che allude alla chiusura di una fase di lavoro e all'apertura di un'altra. Ma il quadro risponde anche alla ricorrente esigenza della Hadid di osservare i propri lavori da molteplici e inusuali di punti vista.

Così in un progetto di due anni successivo per Trafalgar Square la Hadid rappresenta la piazza ipotizzando questa volta l'osservatore giacente sul piano del pavimento con un'inquadratura ironicamente battezzata worm's eye view, punto di vista del verme. E in un altro disegno per lo stesso progetto riprende la città dall'alto per rappresentarvi all'interno sei o sette inquadrature dell'opera presa da diverse angolazioni, con una tecnica, dall'intenso effetto dinamico, che rassomiglia a quella della sincronicità futurista, sperimentata da Duchamp in Nudo che scende le scale (1912) e da Boccioni in Forme uniche nella continuità dello spazio (1913). Con il risultato che a essere privilegiato non è più l'oggetto ma la traiettoria, non la forma nella sua sinteticità ma i componenti nelle loro reciproche interrelazioni. Fine quindi dell'ossessione per le icone o per le figure in sé e per sé concluse e apertura a una fenomenologia dello spazio mediante la quale l'osservatore, dapprima disorientato, riacquista il controllo del reale solo a condizione di riconcettualizzarlo attraverso il confronto di più punti di vista.

Tra il 1985 e il 1986 la Hadid sonda attraverso tre progetti altrettante direzioni di ricerca.

24 Cathcart Road è un alloggio in Stile Internazionale per arredare il quale la Hadid ipotizza un flusso di energia continuo. Lo realizza attraverso un sistema di divani , concepiti come piani disposti in sequenza. Nello stesso tempo, però, attraverso curve, piegature e vibrazioni degli stessi (dirà: the first material display of my Suprematist geology) il flusso viene condensato e rallentato nei punti d'angolo per realizzare spazi di sosta e concretizzare funzioni specifiche. 

Prodotti successivamente in serie (1988), i mobili disegnati per 24 Cathcart Road, si caratterizzano per l'accostamento dei materiali, per la policromia che contribuisce a disarticolare l'oggetto lungo linee forza, per la molteplicità delle forme con le quali vengono risolti gli stessi elementi funzionali, ma soprattutto per il rapporto che instaurano con chi li usa. Così un sofà può essere in parte avvolgente e in parte rigido, accogliere comportamenti formali ma anche rilassati. E indirizzare, attraverso repentini cambi della posizione richiesta, lungo una pluralità di direzioni gli sguardi di chi lo usa: verso l'alto, verso il basso, verso l'interno e l'esterno della stanza. Esattamente come avviene nelle sequenze cinematografiche degli spazi del The Peak e, anche, nei disegni che esaminano contemporaneamente lo stesso spazio dall'alto di un'astronave o dal basso del verme.

Confrontiamo, adesso, i mobili progettati dalla Hadid con altri realizzati nel periodo, per esempio quelli di Graves o anche di Sottsass e Mendini. Non vi è alcun intento simbolico o di chiusura dell' oggetto in una gabbia di significati precostituiti, ma interazione con lo spazio circostante. E, anche, fascino per la morfogenesi e l'organico, ma sempre all'interno del punto di vista -né naturalista, né espressionista- di chi accetta di vivere in una realtà metropolitana e artificiale. Una strada questa estremamente produttiva che, pur con declinazioni diverse, sarà praticata anche da Eisenman, da Morphosis, da Koolhaas e dallo stesso Gehry.

Se con Cathcart Road la Hadid sonda l'energia delle linee curve e la poetica della vibrazione tramite piegatura e ondeggiamento, con l'edificio per uffici di Kurfürsterdamn 79 a Berlino oggetto di analisi è lo stratificarsi dei piani. Il progetto (1986) nasce su un lotto quasi impossibile di 2,7x16 metri. Si sviluppa in altezza su 7 piani e a sbalzo lungo la strada adiacente per guadagnare una larghezza minima accettabile di circa 5 metri. Data la posizione obbligata dei collegamenti verticali, che rientrano entro la striscia di 2,7 metri di larghezza, l'edificio si struttura secondo la logica del sandwich, cioè per una serie successiva di strati: scale, setto strutturale, open space, facciata. Questi, grazie a un accorto gioco di variazioni e di scavi, garantiscono all'interno una pluralità di sequenze spaziali che si sovrappongono lungo il prospetto laterale, concepito come una ennesima ma sintetica sezione trasversale, per evidenziare anche all'esterno la stratificazione interna. Il prospetto longitudinale, curvo e più uniforme, è, infine, segnato da perentorie incisioni.

Estremamente vario pur nella limitata dimensione degli spazi a disposizione, l' edificio di Belino afferma la centralità dello spazio interno, cioè del vuoto. Nello stesso tempo, però, con il suo esterno, da un lato curvo e dall'altro frastagliato, si pone come uno snodo plastico all'interno del contesto urbano. È una strada questa contrapposta a quella praticata negli anni ottanta dai neorazionalisti e da Leon Krier che la Hadid aveva avuto al terzo anno come professore alla Architectural Association (dirà in una intervista: Leon Krier who I still like a lot but who I disagree with completely). Ed è una strada diversa dal recupero, anche nostalgico, dei tessuti urbani perseguita dall'IBA a Berlino. Sarà tuttavia sotto l'egida di questo organismo che nel 1986, Zaha Hadid avrà possibilità di costruire in Germania la sua prima opera.

Tema: abitazioni e negozi da realizzare in un isolato che, per regolamento edilizio, ha caseggiati di cinque piani. Approfittando del carattere sperimentale dell'iniziativa, la Hadid impone una interpretazione estensiva del regolamento e propone un edificio con la stessa densità ma dal profilo frastagliato, formato da un corpo a un piano di negozi sormontati da 11 alloggi duplex disposti in linea e da una torre di sette piani. Afferma: in un contesto disordinato come quello della periferia berlinese, una costruzione rispettosa delle altezze sarebbe stata senza senso. Priva dell'energia che, invece, lo scatto della torre suggerisce. 

L'edificio è stato notevolmente manomesso in fase di esecuzione. Gestito da un architetto locale imposto dall'IBA e rallentato dai tempi della burocrazia, il cantiere si trascinerà sino al 1993. 

A giudicare dai disegni di progetto, i tre volumi costitutivi l'edificio, cioè il corpo dei negozi, i duplex e la torre, si sarebbero dovuti staccare e, poi, intersecare con maggiore vigore. Dove l'opera si riscatta è nello skyline e, in particolare, nella torre sghemba e incombente come la prua di una nave il cui profilo tagliente è ottenuto dall'accostamento di due superfici. La prima, piena e pesante, è la parete rivestita da fasce di metallo anodizzato che inquadrano, avvinghiandole, le bucature delle finestre che vi si affacciano. La seconda, leggera e trasparente, è formata da un curtain wall continuo, dalle vetrate del quale i soggiorni degli appartamenti guardano sulla città. 

La Hadid considererà il progetto di Berlino come un'occasione perduta, ma non lo rinnegherà. Seppur malamente eseguito nei dettagli e nei colori, bene rappresenta il suo approccio nei confronti dell'urbano fondato su una forte direzionalità: l'edificio dell'IBA è stato paragonato a una freccia, a un segno cioè che sposta l'attenzione, indirizza l'energia. 

Se si osserva, poi, la struttura tipologica, si noterà che è organizzata sul principio dell'accostamento di elementi diversi in una sorta di disordine programmato. Il metodo è ripreso da Rem Koolhaas e in particolare dal progetto per il blocco residenziale dell'IJ PLein a Amsterdam (1980-89), dove negozi e abitazioni in schiera, linea, ballatoio sono sovrapposti e ibridati nel tentativo di rivitalizzare il tessuto urbano. 

Il capovolgimento rispetto all'esclusivismo accademico degli anni ottanta, fatto proprio dai Grassi, Rossi, Krier, Ungers e proteso, invece, alla ricerca della integrità e della purezza tipologica è radicale. Anche perché l'edificio della Hadid spiazza il contestualismo mimetico per proporre un approccio contemporaneo che non esita a ripescare frammenti della tradizione moderna e razionalista. Lo dimostra il recupero, inconsueto per il tipo di edilizia nel quale si colloca, del tema del tetto giardino che si sovrappone al piano dei negozi e ai duplex. Sommandosi come un ulteriore strato nella "'geologia" delle forme dell'edificio, ne arricchisce le modalità d'uso. Nello stesso tempo, attraverso il richiamo alla poetica del transatlantico di Le Corbusier, rende concreta l'immagine della torre-prua, che altrimenti si sarebbe risolta in un semplice artificio formale. Mentre il concreto richiamo all'energia del gioco dei bambini, giustifica la forma a freccia dell'intero edificio che, altrimenti, sarebbe stata solo la rappresentazione metaforica di un'astratta, quanto generica, energia urbana.
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