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ZAHA HADID/2

di Luigi Prestinenza Puglisi
1. Esordi | 2. Esplosioni | 3. Una nuova fase | 4. Due opere, un capolavoro | 5. Due anime
6. Una collana per Malevich | 7. Frammentazione e pixel | 8. Flussi
Qualche giorno fa è stato pubblicato, all'interno della sezione a cura di Luca Galofaro, nella collana di volumi de L'industria delle Costruzioni, il libro ZAHA HADID, scritto da Luigi Prestinenza Puglisi. ARCH'IT propone ai suoi lettori, in due puntate, la lettura integrale del saggio.



4. DUE OPERE, UN CAPOLAVORO

[in english]
Nel 1988 al MoMA di New York s'inaugura la mostra Deconstructivist Architecture. L'operazione, abilmente sponsorizzata da Philip Johnson, ha un'alta dose d'ambiguità che ne garantisce il successo. Lancia, infatti, in un panorama avido di novità, un'ennesima tendenza. E nello stesso tempo liquida, in nome del superamento delle mode, la nostalgia storicista e post-modern attraverso il recupero della tradizione moderna. A riempire di significati l'operazione, infine, il collegamento, suggerito dal nome -ma, nei fatti, molto problematico- tra la nuova architettura e le filosofie poststrutturaliste francesi, in particolare la decostruzione derridiana, avidamente frequentate dall'intellighentia newyorkese.

[15dec2001]
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Gli architetti, chiamati a esporre (Behnisch, Tschumi, Libeskind, Coop Himmelb(l)au, Koolhaas, Eisenman, Zaha Hadid, Gehry) in realtà hanno poco in comune, se non il fatto di essere tutti impegnati a cercare, attraverso scomposizioni, ibridazioni disciplinari e ricomposizioni, nuove direzioni per la ricerca architettonica. E particolarmente poco ha in comune la Hadid con il resto del gruppo, se si esclude Koolhaas, che, però, prosegue una propria e personale ricerca. La Hadid, oltretutto, con i suoi trentotto anni, è la più giovane e, al pari di Libeskind, non ha al suo attivo alcuna realizzazione significativa, essendo l'edificio dell'IBA ancora in alto mare (sarà completato nel 1993).

La mostra Deconstructivist Architecture, per il prestigio dell'istituzione che la organizza, fa acquisire all'Hadid una enorme notorietà, sancendone la statura internazionale. E contribuisce all'ottenimento di due commesse: il Moonsoon Restaurant a Sapporo, Giappone e la Vitra Fire Station a Weil am Rhein, Germania. Il Moonsoon Restaurant le è commissionato nel 1989 da Michihiro Kuzawa dello JASMAC, il costruttore che ha, nello stesso periodo, affidato ad Aldo Rossi il progetto per il Palazzo Hôtel a Kyushu. Si tratta dell'allestimento di un bar ristorante che occupa due piani del Kita Club, un night-club nel distretto di Susukino sul lungofiume di Sapporo.

Il progetto può essere interpretato secondo due diverse chiavi di lettura. La prima è metaforica. Il ristorante rappresenta il contrasto tra il freddo e il caldo, tra il ghiaccio e il fuoco. Chiari e taglienti come cristalli sono gli arredi del primo piano mentre caldi e morbidi sono quelli del secondo piano. Sapporo, d'altra parte, è una stazione invernale famosa per le statue di ghiaccio che sono scolpite all' aperto nei mesi invernali, mentre il fuoco è un riferimento ai focolari e agli spazi interni. 

La seconda chiave di lettura è formale. Si fonda su una tecnica che Zaha Hadid ha imparato all'Architectural Association da Rem Koolhaas, che la usa spesso nei suoi progetti. Giocare sugli opposti, aprendosi alla riflessione su pochi e selezionati concetti primari (freddo e caldo ma anche pieno-vuoto, opaco-trasparente, leggero-pesante, spirale-scatola), serve a evitare le minute regole di gestione della forma proprie della composizione architettonica. A porsi, cioè, in un territorio sufficientemente libero da vincoli e costrizioni disciplinari dal quale è possibile riorganizzare, partendo da zero, la progettazione dello spazio. Inoltre, nel caso della Hadid, il recupero del contrasto tra l'acuto del freddo e il morbido del caldo le permette di far confluire in un unico lavoro, due precedenti direzioni di ricerca, sinora alternative: le geometrie penetranti sperimentate con The Hong Kong Peak e le avvolgenti messe a punto nel progetto di ristrutturazione dell'appartamento al 24 Cathcart Road.

Giudicato barocco, il Moonsoon Restaurant solleva la reazione di alcuni critici. Il recensore del The Architectural Review (11/1991) parla di visioni post-suprematiste e di un eccesso che solo una società esuberante come quella giapponese può tollerare. Mauro Baracco su Domus (729/1991) ricorda gli strali di Maldonado contro "troppa recitazione e troppa ricerca di effetti teatrali". L'opera, insomma, lascia perplessi. E in particolare sconcerta l'oggetto-scultura in fiberglass che, a forma di spirale (ma per la Hadid è una Orange Peel, perché rassomiglia alla buccia di un'arancia che, dopo sbucciata, si avvolge su se stessa), collega i due piani. In realtà è proprio questa spirale il cuore della composizione. Perché immette, all'interno della rigida bipartizione dei piani, un elemento dal forte effetto plastico e cromatico che media tra l'acuto del piano inferiore e il morbido del superiore e, nello stesso tempo, realizza un effetto ascendente che permette alla metafora del freddo e del caldo di trovare realizzazione in un disegno unitario.

Se il ristorante di Sapporo suscita perplessità la stazione dei pompieri del Campus Vitra (1990-93) è accolta entusiasticamente. Joseph Giovannini su Architetture (09/93) scrive: "questo edificio stimola nell'occhio e nel corpo la sensazione di una velocità einsteniana". Ziva Freiman su Progressive Architecture (08/1993): "una costruzione dinamica, eseguita con precisione, che ispira contemplazione". Michael Mönninger su Domus (752/1993) ne parla come di una tra le " pietre miliari nella storia dell'architettura".

L'edificio ha dimensioni modeste: 800 mq. su due piani per ospitare cinque automezzi e un massimo di 24 pompieri che devono vigilare sulle attrezzature produttive e i depositi dei mobili della Vitra, altamente infiammabili. L'incarico nasce da una serie di coincidenze. Rolf Fehlbaum, il direttore della Vitra, a seguito di un servizio apparso su Vogue, contatta la Hadid per realizzare dei mobili. Da qui un suo viaggio a Londra a visitare lo studio dell'architetto, ricambiato da una visita di quest'ultima in Svizzera. Dopo qualche mese, invece, arriva la proposta di realizzare il piccolo edificio. Nato per scopi utilitari, quale appunto la prevenzione antincendio, sarebbe occasionalmente servito anche come locale per attività espositive, di promozione e di incontro.

Obiettivo: realizzare un edificio di notevole valore architettonico che avrebbe affiancato la fabbrica progettata da Grimshaw e il museo di F. O. Gerhy, in corso di costruzione (gli edifici di Siza e Ando sono successivi).

Eseguita in cemento armato, e costata 2.6 milioni di marchi (un costo del tutto ragionevole, per il mercato tedesco), la stazione è stata paragonata agli aerei starfighter, ai motoscafi, a un ponte sul punto di crollare, a una astronave in procinto di esplodere. Ma l'immagine più convincente la suggerisce la Hadid: è una struttura che vibra come la campana di allarme dei vigili, nel momento in cui entra in funzione. 

Completamente dissimile dal Moonsoon, tanto da sembrare disegnata da un'altra mano, la stazione Vitra, in realtà presenta una medesima sensibilità scenica, anche se questa volta proiettata verso l'organizzazione degli spazi esterni. L'edificio, infatti, funge insieme da recinto verso l'esterno e da quinta rispetto alla viabilità interna che riorganizza spazialmente attraverso curvature, slanci, cambi di prospettiva. 

Vi è, inoltre, una medesima logica compositiva fondata sull'evidenziazione dell'incontro-scontro di principi opposti. 

Innanzitutto tra l'unità della composizione e la molteplicità degli elementi costitutivi; ciascuno dei quali è evidenziato e trattato con cura specifica. Spiccano, in particolare, tre elementi longitudinali che sembrano essere originati dalla vibrazione -verso destra, verso sinistra e verso l'alto- di un unica massa lineare e la tettoia che riorizzontalizza la composizione, bloccandone il movimento ascendente ma aprendo l'intera costruzione verso ulteriori direzioni.

La seconda opposizione è tra volume e piano. L' edificio come nota la Hadid: "è più che una composizione di linee; è un gioco di volumi che si intersecano l'uno con l'altro". Ma i volumi, se si osserva bene, sono ottenuti dalla piegatura di piani, che per quanto ammorsati, svirgolati e tormentati, non perdono mai le loro caratteristiche planari, cioè, in ultima istanza, il loro dinamismo.

Una terza opposizione è tra la rigida struttura antincendio particolarmente connotata dal punto di vista funzionale e formale e il flessibile spazio per attività di scambio e incontro nell'autorimessa, una volta parcheggiate all'esterno le autobotti.

La quarta opposizione è tra pesantezza del cemento armato, grave, materico, scultoreo e la leggerezza di un'energia immateriale. Che è resa possibile proprio a partire dalla caratteristica fondamentale del calcestruzzo che è quella di eliminare le duplicazioni tra struttura e rivestimento. E quindi di attivare una poetica della sottrazione, in cui i segni siano ridotti alla loro pura essenzialità con conseguente scarnificazione dei volumi a pure linee forza. Da qui un atteggiamento laconico che si estrinseca attraverso l'essenzialità del segno e la riduzione dei colori al grigio del cemento e ai pochi colori tenui dell'interno ovvero, come afferma la Hadid, a "una assenza del particolare che, poi non è altro, che una attenta cura del dettaglio". Cioè una riduzione del rumore a pochi suoni privilegiati secondo un'impostazione progettuale opposta a quella perseguita,con eccessi tattili e cromatici, nel Moonsoon Restaurant. E quindi un avvicinamento alla poetica di Mies a cui, come ammette la Hadid, è accomunata dall'amore per la precisione, la leggerezza, la luce e, infine, dal desiderio di connessione tra spazi interni e esterni, operata attraverso la scomposizione dei volumi in piani.



5. DUE ANIME

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Il Music Video Pavilion di Groningen (1990), come il Moonsoon Restaurant e diversamente dalla stazione Vitra, è un oggetto multicolorato, frammentato da una pluralità di segni, caotico sino alla confusione. Ma è anch' esso scisso tra due metà: una chiusa, rivestita in metallo e dilaniata da una finestra dalla quale fuoriescono sghembi nastri con figure triangolari; e una aperta, risolta con una filiforme struttura di esili pilastri e travi nel cui interno si intravedono plastici volumi.

È inutile, suggerisce la Hadid, optare per l'uno o l'altro termine delle innumerevoli coppie di opposti insiti nella dinamica delle forme; occorre, invece, accettarne la compresenza, esaltandone i contrasti. Sino a proiettarne l'irriducibile dualismo alla scala esistenziale più privata. Per esempio quella dell'abitazione unifamiliare, un settore dove, invece, predominano le idee convenzionali e scarseggiano proposte radicalmente innovative. Avviene con il progetto per The Hague Villas (1981), uno studio per la realizzazione di otto unità unifamilari da localizzare vicino alla Capitale olandese. 

La Hadid propone due tipi: la cross house, derivata da un principio generatore lineare e la spiral house fondata sull'opposta matrice della curva. La cross house è caratterizzata dall'intersezione di due prismi uno negativo, l'altro positivo. Il primo, al piano terreno, è un parallellepipedo sottratto al volume dell'abitazione circostante: quindi un vuoto. Il secondo, al primo piano, è lo stesso parallellepipedo, questa volta pieno, ma quasi perpendicolare al vuoto sottostante e completamente sventrato per ospitare gli ambienti di soggiorno. Ne risulta una abitazione che al piano terreno è racchiusa intorno a una corte interna mentre al piano primo si apre verso il paesaggio: contemporaneamente introversa e estroversa, in un dualismo che esprime sinteticamente il dilemma dell'architettura contemporanea sempre in bilico tra la brick house, cioè la casa caratterizzata dal muro perimetrale a difesa dell'interiorità, e la glass house, in cui le superfici vetrate proiettano l'interno verso la natura circostante.

La spiral house nasce, invece, dall'opposizione tra il cubo dell'involucro e la spirale della rampa sulla quale si svolgono gli ambienti. Dall'incontro delle due geometrie si sviluppano sorprendenti viste interne e "inaspettati canali di comunicazione e di interazione". Ma anche si attiva una progressione che -dal pesante al leggero, dal chiuso al trasparente- conduce verso l'alto.

Non è difficile, anche per questi progetti, intravedere corrispondenze con la ricerca di Rem Koolhaas, del resto più volte dichiarate: "il mio rapporto con l'Office for Metropolitan Architecture -afferma la Hadid in una interista apparsa su El Croquis- è più intenso di quello che avremmo se lavorassimo gomito a gomito. Tra di noi c'è una sorta di dialogo non visibile...". Il tema della casa, contemporaneamente introversa e estroversa, è stato indagato da Rem Koolhaas nel complesso residenziale Nexus World a Fukuoka, Giappone (1991) e sviluppato in numerosi progetti sino alla recente villa a Floirac in Francia (1998), dove si combinano un piano terreno a patio e uno superiore vetrato e aperto al paesaggio. Mentre il tema del contrasto tra scatola e spirale è stato affrontato, in particolare, nella Kunsthal a Rotterdam (1993). 

A fronte di queste innegabili corrispondenze, vi sono però due approcci diversi che possiamo forse ascrivere alla differenza tra l'anima orientale e femminile della Hadid e quella calvinista e maschile di Koolhaas. Approccio energico e sensuale nella Hadid sino quasi a rischiare la bulimia. Intellettualistico e freddo sino all'anoressia in Koolhaas. Per l'artista irachena infatti è nella ricchezza del segno e nella potenza dell'immagine che contrasti e tensioni trovano la loro sintesi formale. Mentre per il progettista-teorico olandese è solo estenuando le forme nel tavolo operatorio della ragione e nell'interminabile sequenza dei procedimenti logici -a volte analitici, a volte apodittici- che è dato fare architettura. E non è un caso, alla fine, che l'una si ispiri alla ricchezza compositiva dell'avanguardia russa, mentre l'altro tragga la sua poetica dal quasi nulla miesiano, cioè, in fin dei conti, da quell'ineffabile disciplina intellettuale attraverso cui si veicola il desiderio dell'ascesi e della scomparsa della forma.



6. UNA COLLANA PER MALEVICH

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Nel 1992 si inaugura al Guggenheim Museum di New York la mostra The Great Utopia, dedicata ai maestri del suprematismo e del costruttivismo. È l'occasione -confessa la Hadid- per verificare la forza tridimensionale dell' astrazione di Malevich e della sua cerchia. L'allestimento ne viene di conseguenza: con l'installazione della Tatlin Tower al centro dell'atrio del museo e una serie di episodi paralleli ciascuno dei quali dedicato a un tema spaziale. Che può essere concretizzato dall'opposizione tra le costruzioni del quadro Red Square di Malevich e il Corner Relief di Tatlin; dall'estrusione attraverso pannelli di una composizione di Malevich tracciata lungo il pavimento; dalla raffigurazione di una tempesta geometrica che trascina lungo un angolo i quadri suprematisti; dal flottare in aria dei quadri adagiati lungo trasparenti supporti in perspex; dal gravitare delle sculture suprematiste lungo un'orbita che emerge dal pavimento dirigendosi verso il soffitto.

L'architettura, insomma, non può -come vorrebbero molti curatori e artisti indispettiti dalla forte caratterizzazione di molti allestimenti museali- essere uno spazio neutrale fatto di pareti lungo le quali disporre in bell'ordine una sequenza ordinata di opere. Deve, all'opposto, coinvolgere, indicare interpretazioni, diventare un testo. 

Insomma, essere il risultato di una autonoma ricerca artistica che, per verificare i propri assunti, può, anzi deve, entrare in conflitto con il sistema delle aspettative. Da qui un rapporto difficile con la committenza, che procura alla Hadid non poche delusioni.

È il caso del Düsseldorf Art and Media Center, una costruzione per uffici e spazi da destinare ad attività tecnologicamente avanzate il cui concorso viene vinto nel 1989. Nel 1991 si trovano i primi investitori, nel 1992 si elaborano i disegni per i permessi comunali. Ma pochi scommettono su un edificio dalle forme così inusuali, fatto da lame che si incastrano secondo angoli scorciati per permettere inaspettate visuali del porto. Risultato: le prenotazioni non sono sufficienti a fare iniziare i lavori e il progetto si arena.

La seconda delusione è legata al concorso per la Cardiff Bay Opera. Il concorso, bandito per ospitare la Welsh National Opera, è organizzato in due fasi. Una preliminare aperta a tutti con quattro finalisti e una seconda dove oltre ai quattro vincitori della prima si invitano altrettanti gruppi scelti dagli organizzatori. Dopo la proclamazione della vittoria della Hadid (settembre 1994) si registrano però i primi ripensamenti. Si accusa il progetto di essere troppo complesso, di non rispondere alle esigenze della committenza, di non essere facilmente gestibile. La Cardiff Bay Trust commissiona così due ipotesi alternative allo studio Foster e a Manfredi Nicoletti. E poi spunta fuori un ulteriore progetto, redatto dalla giapponese Itsuko Hasegawa. La prassi, come notano molti, è vergognosa. Lesiva della dignità di uno dei più interessanti architetti contemporanei, fatto vincere in una regolare competizione e poi trattato come un inaffidabile dilettante. Interviene anche il Royal Institute of British Architects, imbarazzato per lo stravolgimento dei risultati del concorso. Alla fine, ipocritamente, si decide di affidare definitivamente l'opera alla Hadid. Tanto la realizzazione sarà silurata per mancanza di fondi.

Il progetto della Cardiff Opera House è un capolavoro di creatività e di ingegno realizzativo. È una corte aperta, nata dalla piegatura di un corpo longitudinale, su cui si innestano numerosi volumi architettonici che occupano parzialmente lo spazio interno. La Hadid la paragona a una collana su cui si innestano gioielli preziosi. Sono la sala dell'Opera e le sale per le prove. 

Due e semplicissimi i criteri compositivi: dare aria e luce agli ambienti e legare il complesso alla città e, in particolare, al porto.

Per ottenere il primo la Hadid immagina grandi superfici vetrate che rendono trasparente l'edificio e consentono ai passanti di poter vedere anche dalla strada il funzionamento della macchina operistica e, in particolare, le prove dell'orchestra. A collegare l'edificio alla città provvede una piastra -la Hadid la chiama bubble, cioè bolla- al piano terreno dove il pubblico "può fare esperienza del luogo e partecipare a esibizioni, recital, scuole di danza e programmi educativi o semplicemente godere della vista della baia di Cardiff". La stessa piastra in copertura, diventa uno spazio aperto sul quale librano i pilotis delle costruzioni sovrastanti. Mentre stridenti colori caratterizzano gli spazi più importanti che, quasi come forme scultoree, fanno da contrappunto alle grandi pareti vetrate.



7. FRAMMENTAZIONE E PIXEL

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Nel 1995 la Hadid, su incarico della Milstein Properties, partecipa a un concorso ristretto per la riqualificazione di una delle aere più pregiate e frequentate di New York, in prossimità di Times Square, tra la 8th Avenue e la 42th Street. Gli altri concorrenti sono la Marriot che ha affidato l'incarico a Michael Graves e la Disney Corporation con la consulenza di Arquitectonica, che risulterà vincitrice. La Hadid prevede nei due isolati altrettante piastre commerciali sormontate rispettivamente da un grattacielo di 22 piani e uno di 45. I due grattacieli, entrambi adibiti a uso alberghiero, hanno un differente valore figurativo. Il più basso è caratterizzato da un involucro semplice, quasi elementare, e si inserisce, come elemento di ordine, all'interno del contesto urbano. Il più alto ha, invece, una forma frammentata, data dall'alternarsi di pareti vetrate e pareti opache su cui possono inserirsi i luminosissimi schermi e cartelloni pubblicitari che caratterizzano Times Square. Le prime -cioè le pareti vetrate- caratterizzano le funzioni residenziali mentre le seconde -cioè le opache- gli spazi di servizio, quali aule per conferenze, le sale per banchetti, la palestra, la piscina, che sono gestibili anche con la luce artificiale. 

La frammentazione in blocchi dell'edificio, oltre a permettere l'elegante alternarsi di vetri e insegne pubblicitarie, si riflette nel vertiginoso atrio interno a tutta altezza. Su questo, infatti, affacciano, in un disordine controllato, spazi privati e pubblici ricreando così all'interno dell'edificio la vitalità dei flussi di persone e attività che, all'esterno, caratterizza l'ambiente urbano newyorkese.

La medesima strategia adoperata per 42nd Street Hotel, di scomposizione della forma in unità elementari e, poi, ricomposizione in un nuovo organismo tipologicamente innovativo, la Hadid la applica nel progetto per la Boilerhouse Extension del Victoria and Albert Museum (1996) e, poi, nel progetto per il Contemporary Arts Centre a Cincinnati (1998, in preparazione la fase esecutiva).

Con la differenza che in questi lavori le unità elementari vengono assimilate ai pixel, cioè a quei minuti frammenti di luce che componendosi e ricomponendosi permettono agli schermi dei televisori e di produrre un interrotto flusso di immagini. L'idea di generare attraverso l'alternarsi di unità minime un "fluido, adattabile e flessibile reso possibile da componenti modulari estremamente leggeri" ha radici antiche. Risale alle sperimentazioni di Cedric Price e degli Archigram, cioè agli anni Sessanta. E a una tradizione, che si interseca sovente con l'insegnamento alla Architectural Association, che passa per le teorizzazioni di Reyner Banham e i progetti della scuola High Tech: da Rogers a Foster. Ma Zaha Hadid la riprende con un'attenzione tutta particolare al valore dello spazio architettonico, caratterizzato da tre ulteriori invenzioni formali: la flessibile e ampia piazza coperta che accoglie i visitatori (urban carpet), la varietà degli spazi espositivi sospesi in aria, in modo da offrire, con i loro strani incastri, inusitate prospettive (jigsaw puzzle) e un doppio sistema di facciate che realizza uno strato-cuscinetto tra interno e esterno che può avere insieme il valore di membrana, di interfaccia, ma anche di forma in sé e per sé autonoma (skin/sculpture).



8. FLUSSI

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Se i progetti che abbiamo appena esaminato, indagano il problema della scomposizione e successiva ricomposizione, altri lavori rifiutano la fase scompositiva per giungere direttamente alla sintesi. Sono i progetti per i ponti, il Landesgartenschau 1999 a Weil am Reihn e il Centro per le Arti Contemporanee a Roma.

L'Habitable Bridge sul Tamigi a Londra (1996) trasforma la tipologia del ponte in un doppio sistema di linee forza, concretizzate da cluster di elementi longilinei posti sui due versanti del fiume. Questi, ospitando attività commerciali e culturali, generano tra di loro una intensa attrazione che mette in collegamento fisico e ideale le due parti di città altrimenti separate. Nello stesso tempo i percorsi, disposti su varie quote e orientati secondo mutevoli direzioni, offrono nuove aperture allo spazio naturale e allo skyline artificiale.

Attività simile di interconnessione, ma questa volta tra edifici universitari separati da arterie stradali, svolge l'University of North London Holloway Road Bridge caratterizzato da passerelle attrezzate con sistemi di comunicazione elettronica per fornire agli studenti le informazioni, video e audio, sulla vita del campus. Dove però i flussi si concretizzano in massa muraria diventando essi stessi architettura è con il Landesgartenschau 1999 a Weil am Reihn, un edificio realizzato per ospitare eventi e mostre legati al gardening show del 1999. 

Gli spazi costruiti, infatti, emergono dalla geometria del sistema di percorsi pedonali del parco. E tre di questi si intersecano per formare l'edificio. 

Le linee del Landesgartenschau 1999 ricordano quelle fluide che si incontrano in natura. E il lavoro risente non poco dell'influsso dell'ultimo Eisenman e delle teorie sulla morfogenesi elaborate dal critico Jencks.

È una strada questa che sarà presto abbandonata dall'architetto iracheno che, come Koolhaas, è più affascinata dalla metropoli che dalla natura, dal ragionamento astratto che dalle empatie organiche. L'occasione è data dal concorso per il Centro di Arti Contemporanee a Roma. Tema: una macchina culturale localizzata su un'area di 3 ettari all'interno del quartiere Flaminio, che ospiterà strutture museali e per esposizioni temporanee, spazi sperimentali multimediali, un settore educativo e attività indipendenti e extraistituzionali. La Hadid propone "un campo quasi urbano, un mondo nel quale tuffarsi, piuttosto che un edificio come oggetto firmato". Il campo viene navigato dai visitatori attratti dalle diverse distribuzioni di densità che si registrano all'interno della struttura. Gli elementi di circolazione verticali e obliqui sono collocati nei punti di confluenza, interferenza e turbolenza. Attraverso la riduzione dell'oggetto a una molteplicità di direzioni, dove scorre un ininterrotto flusso di energia, la prassi architettonica si affianca a quella artistica contemporanea.

E si evoca una linea di ricerca "che si allontana dall'oggetto e dalla sua correlata santificazione, verso campi di associazioni multiple, anticipatrici della necessità del cambiamento". Vengono in mente i recenti lavori di Toyo Ito con i quale, attraverso immagini fluide, si cerca di dare forma alla sempre più immateriale civiltà elettronica. Ma osservando gli elaborati della Hadid, in cui lo stesso disegno dei prospetti è oramai considerato superfluo, vengono alla mente anche le parole premonitrici di Peter Cook, personaggio di punta degli Archigram, che nel 1966 proponeva di pensare alla città non "come una serie di edifici, ma come una trama di avvenimenti che si intrecciano all'infinito".
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