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LOST IN SPACE
Breve storia dello spazio nei videogiochi


Alberto Iacovoni

 

Si è recentemente inaugurata, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, la mostra PLAY, dedicata alla storia dei videogiochi. L'allestimento della mostra è stato realizzato dallo studio romano ma0. ARCH'IT presenta il progetto espositivo 'PLAY. Un allestimento al limite' e 'LOST IN SPACE. Breve storia dello spazio nei videogiochi', il testo di Alberto Iacovoni (ma0), pubblicato nel catalogo ufficiale della manifestazione. 




A game is a system. General systems theorist S.W. Littlejohn defines a system as "a set of objects or entities that interrelate with one another to form a whole." The kings, queens, pawns, and other pieces on a chessboard are objects with definable relationships. (…) It is by playing the system of chess, enacting the interrelationships of the parts, that the whole emerges out of the parts. (…)

The rules of a game are the laws that determine what can and cannot happen in the game. The rules are a deterministic system, absolutely closed and unambiguous. To play a game, players voluntarily submit their behaviors to the limits of the game rules. Once play begins, players are enclosed within the artificial context of a game - its "magic circle" - and must adhere to the rules in order to participate.
(1)





Il contesto artificiale in cui entriamo dal momento in cui iniziamo un gioco è definito dall'interazione tra regole e medium proprio del gioco: le pedine e la scacchiera, un mazzo di carte, un gessetto per tracciare a terra delle geometrie, o semplicemente lo spazio che ci circonda per nascondersi, diventano di volta in volta gli strumenti, i media che costituiscono il campo di azione del gioco; ognuno di essi contribuisce insieme alle regole a definire uno spazio elettivo per il gioco, più o meno astratto, più o meno interrelato con uno spazio fisico che lo ospita, più o meno legato ad uno spazio reale che il gioco stesso simula.

[11may2002]
> PLAY. UN ALLESTIMENTO AL LIMITE
Ad un estremo abbiamo tutti i giochi di carte, dove lo spazio non esiste, o è ridotto se così si può dire ad un ordine gerarchico/combinatorio tra i valori delle carte; lo spazio è indifferente, si gioca a carte ovunque, basta un piano d'appoggio. All'estremo opposto abbiamo un gioco come il nascondino, dove le regole si applicano allo spazio che ci circonda, quello che c'è a disposizione, dove il medium del gioco coincide con lo spazio in cui si svolge. L'abilità è tutta nell''interpretarlo dinamicamente, ovvero nello sfruttarne le potenzialità strategicamente. Ed in effetti esistono spazi e luoghi più adatti di altri per questo tipi di giochi, spazi dove ci può perdere, dove si possono fare scoperte, dove insomma il campo da gioco può essere completamente reinterpretato dal singolo giocatore, e anzi le possibilità di vincere si misurano con la capacità creativa del giocatore nei confronti dello spazio.

NOTE:

(1) "Checkmate: Rules, Play and Culture!", Frank Lantz & Eric Zimmerman, Merge Magazine #5, 1999.
(2) "Il paradigma perduto. Che cos'è la natura umana?", Edgar Morin, Feltrinelli, 1994.
Ma esiste come accennato sopra un terzo genere di giochi, quelli in cui lo spazio d'elezione è un piano orizzontale, una scacchiera come una mappa, che rappresenta o simula in maniera più o meno stringente uno spazio reale o d'invenzione. Appartengono a questa tipologia tutti i giochi da tavolo, in cui il playground è una mappa, un percorso pieno di insidie ed opportunità da utilizzare dinamicamente e strategicamente, dove il movimento è dato dall'interazione tra le scelte dei diversi giocatori e il caso –i dadi–, così come i giochi dove il campo è una astrazione geometrica come gli scacchi o il backgammon.

Ciò che avviene negli anni '60 quando alcuni ricercatori del MIT programmano Spacewar il primo video-gioco della storia è l'irruzione nel mondo dei giochi di uno spazio completamente diverso, nonostante la semplicità delle sue regole, l'astrazione dello spazio che rappresentava, la scarsità di opportunità che offriva ad una interpretazione creativa e strategica delle regole e del campo di gioco. Spacewar, come i giochi che di lì a breve lo seguiranno, diventando negli anni che seguono un fenomeno commerciale di massa di tali proporzioni da fare da traino all'evoluzione tecnologica per applicazioni commerciali dell'informatica –pensiamo ad esempio alla vertiginosa successione di schede video sempre più potenti, pensate più per i giocatori di Tomb Raider che non per le applicazioni di rendering ed animazione professionale- introducono nel gioco una magia che ha segnato i primi passi di tutte le arti visive:

Per comprendere questa magia, bisogna riprendere il tema del "doppio" che è già emerso a proposito della morte. L'esistenza del doppio è attestata dall'ombra mobile che accompagna ciascuno, dallo sdoppiamento di sé che avviene nel sogno, e dallo sdoppiamento del riflesso nell'acqua, cioè l'immagine. Di conseguenza l'immagine non è una semplice immagine, essa porta in sé la presenza del doppio dell'essere rappresentato e permette, attraverso questo intermediario, di agire su questo essere; è questa azione che è propriamente magica: rito di evocazione attraverso l'immagine, rito di invocazione all'immagine, rito di possesso sull'immagine (sortilegio). (2)

Parlare di doppio riferendosi ai primi giochi in cui il giocatore doveva identificarsi con un piccolo triangolo dai contorni bianchi –l'astronave– su uno sfondo nero cosparso di puntini bianchi intermittenti –lo spazio profondo– o ancora con una barretta bianca in movimento –la racchetta di pong- può sembrare azzardato, ma le parole di Morin che riguardano i primi graffiti lasciati dall'uomo migliaia di anni fa spiegano in qualche modo lo scarto che i primi videogiochi, con tutti i loro limiti, operano nei confronti di tutti gli altri giochi: lo spazio di gioco è uno spazio tutto visuale, ed in movimento all'interno del quale, per la prima volta, è possibile far interagire il nostro doppio.

Eppure il contesto artificiale in cui entravamo nel momento in cui inserivamo il gettone nel coin-op o nel momento di accendere la nostra console era –ed è ancora- un contesto infinitamente meno complesso di quello di una partita di scacchi, o di un nascondino: un sistema di regole costrittive, una richiesta di performance tutta basata sulla velocità e precisione, uno spazio ed un percorso di gioco rigidamente prefissato, per di più quasi completamente privato, alla stregua di un solitario.


Tutankamen per Atari VCS.
Gli spazi di gioco hanno infatti una qualità, che appartiene a tutti i tipi di spazi elettivi delle differenti tipologie, che è la dinamicità, per la quale lo spazio di gioco è molto di più della semplice identità tra regole e medium del gioco, ma si costruisce sul combinarsi degli n gradi di libertà disponibili. Possiamo dire che con l'aumentare di questi gradi di libertà il gioco acquista complessità, diventando narrativo.

A game is a system of rules. But once the rules are activated, once humans enter the system, play begins - and play is something altogether different than rules. Play is the experience of a rule-system set into motion by the players' choices and actions. Within the strictly demarcated confines of the rules, play emerges and ripples outwards, bubbling up through the fixed and rigid rule-structure in unexpected patterns. A curious feature of games is that they embody a double-movement, at once fixed, rigid, absolutely closed Rule and its opposite: open, creative, improvisational Play. (3)

Il campo di gioco degli scacchi ad esempio, pur essendo estremamente schematico e astratto, offre una quantità di possibilità interpretative che solo attraverso l'utilizzo di elaboratori estremamente potenti si è riusciti a battere la capacità strategica, basata sull'interpretazione delle opportunità delle diverse configurazioni del campo di gioco, capacità creativa dell'intelletto umano. (4)

Ma per le macchine su cui giravano i primi giochi garantire questa complessità era impossibile: pochi k di memoria e schermi monocromatici con un obiettivo all'epoca apparentemente irraggiungibile: simulare uno spazio reale attraverso degli espedienti grafici e tecnologici per costruire, rappresentare sulla superficie piatta dello schermo, con un utilizzo estremamente creativo ed economicamente stringente delle risorse, un altro mondo in cui far agire il nostro doppio. "Programmers did the best they could, balancing the aesthetic needs with considerations of game play and frequently overwhelming technical constraints. Often the aesthetics came last." (5)

Tutti i primi giochi riproducono la stessa struttura spaziale: un campo da gioco piano, con il giocatore costretto a muoversi lungo una linea e la palla, o i nemici con i loro proiettili, che si avvicinano sempre più velocemente al giocatore, "gli spazi del gioco erano utilizzati meramente come sfondi per lasciare spazio all'azione. Come la scena di una piece, i personaggi del gioco erano soli in primo piano, piuttosto che interagire con i mondi che occupavano." (6)

(3) "Checkmate: Rules, Play and Culture!", Frank Lantz & Eric Zimmerman, Merge Magazine #5, 1999.
(4) E la famosa storia dei chicchi di riso sulla scacchiera può essere letta come una parabola sulla complessità che si genera su un sistema di regole che si materializzano in un campo da gioco.
(5) "Portrait of the Artists in a Young Industry" Noah Falstein, la quale aggiunge, ricordando i suoi anni di lavoro per l'Industrial Light & Magic di George Lucas: Try to visualize our annual company meetings. Held in a palatial 300-seat theater at Skywalker Ranch, each division of the company presented their year's achievements on the huge screen. The licensing division showed endless arrays of Star Wars and Indiana Jones items, bringing record profits to the company. Skywalker Sound (or its forerunner, Sprockets) would show clips from movies they had done post-production for, in full THX splendor. Then ILM would show 10 minutes of their best highlights from three or four films they had worked on over the year. Finally it was our turn, and the $47 million worth of state of the art special effects moviemaking faded from the 60-foot wide screen, to be replaced by a tiny projection of 16 color 320x200 pixel output from a Commodore 64.
(6) "Inhabited Gaming Environments", Jonah Brucker-Cohen, >.

Star wars Lucasfilm e Atari 1983.
Ed infatti sulle medesime tipologie si sviluppano giochi con ambientazioni diverse: le prestazioni richieste sono analoghe, il percorso obbilgato è lo stesso –in genere schivare colpi e spararne il più possibile–, ma il passo è fatto, siamo entrati in un campo da gioco che piano piano si fa sempre di più ambiente.

Appena le macchine lo permettono è il giocatore che inizia a muoversi: questo vuol dire per gli elaboratori dover prevedere una scena che si estenda ben al di là dei pochi pixels dello schermo. Lo spazio è pur sempre frontale, ma inizia ad acquistare una complessità grafica e narrativa sempre maggiore. E così, alla schematica equazione velocità=sopravvivenza=maggior punteggio si aggiunge un nuovo elemento, quello della scoperta. Arrivare in fondo al gioco diventa spesso entrare in spazi mai visti prima, incontrare nemici dalla potenza e dall'aspetto sempre più terrificante. Non solo: un altro espediente –quello di far scorrere due piani, uno in primo piano più veloce, un altro in secondo piano più lentamente, a simulare un effetto di parallasse– diventa uno dei primi strumenti per definire uno spazio tridimensionale dei videogiochi. 

Ma il salto più importante in questo processo di identificazione tra giocatore e spazio del videogioco avviene nel momento in cui si introduce la vista prospettica in soggettiva: accade in Night Driver, dove la meraviglia è tutta nel veder scorrere verso l'osservatore due file di quadratini bianchi che si ingrandiscono avvicinandosi, a simulare i catarifrangenti ai bordi di una strada di notte. È forse uno dei casi più eclatanti di economia grafica di un videogioco, ma il suo effetto è travolgente per le prospettive che apre, e che porteranno di lì a poco a stabilizzare alcune tipologie di spazi di gioco.

La strada più promettente per la definizione di spazi tridimensionali immersivi e sempre più complessi sembra essere ad un certo punto quella dei giochi vettoriali, in cui gli oggetti e gli spazi sono rappresentati definendone solo i contorni, con un risparmio notevole di risorse hardware e software: giochi come Battle zone, Tac Scan o Star Wars, prodotto da Atari e Lucasfilm, raggiungono un alto livello di complessità spaziale grazie ad una raffinata stilizzazione vettoriale.

Ma la produzione abbandona ben presto il vettoriale, troppo astratto, geometrico e sintetico rispetto ad un mezzo che puntava inesorabilmente verso la costruzione di ambienti verosimili: la ricerca si sposterà tutta verso la definizione delle superfici degli oggetti, attraverso la costruzione di patterns che, utilizzando i pixels come le tessere di un mosaico, porteranno nel videogioco le qualità cromatiche e tattili –rugose, liscie o scintillanti- dello spazio reale, simulando di volta in volta l'erba di un prato, o un muro di mattoni, o ancora, come nel caso di Savage Bees o Rockman (Capcom 1988) alla definizione di architetture modulari inedite, oppure ancora, come in Street Fighter II, alla definizione di fondali ricchi di particolari che non interagiscono in alcun modo con le dinamiche del gioco, se non per il fatto che ne strutturano un ambiente scenograficamente più suggestivo e realistico dei precedenti giochi vettoriali.


Savage Bees Memetron Inc., 1985.
In questo periodo si vanno contemporaneamente definendo le tipologie spaziali d'elezione dei vari generi di videogames: lo spazio in soggettiva su percorso obbligato, utilizzato da tutti i giochi di corsa –già definito da Night Driver, e che si va arricchendo continuamente di nuovi elementi scenografici, nonché di modulazioni nelle caratteristiche spaziali e morfologiche del percorso- , lo spazio tridimensionale in assonometria isometrica, su cui continuano oggi a basarsi molti giochi strategici e di simulazione (da Sim City fino ad Everquest) ma soprattutto lo spazio in soggettiva in un labirinto 3D (7), che diventerà uno degli spazi di maggior successo per l'ambientazione di molti videogiochi, per due ragioni: una di carattere di un ottimo rapporto spettacolarità/potenza di calcolo (il labirinto nasconde dagli spazi che sono al di là delle sue pareti, che dunque non devono essere calcolati dalla macchina e possono essere caricati in memoria per porzioni –quelli che nei videogiochi si chiamano livelli e che rappresentano dunque non solo l'avvincente successione di campi di gioco sempre più impegnativi) l'altra, strettamente connessa alla prima, per il carattere narrativo che lo contraddistingue: innanzitutto è possibile perdervisi, in una visione soggettiva che è una forma di rappresentazione non solo personale, ma parziale: noi non vediamo cosa o chi c'è dietro di noi, e il sapersi orientare nello spazio diventa un'esperienza ben più complessa e immersiva di quella bidimensionale, inoltre il labirinto come abbiamo visto è anche uno spazio dove fare delle scoperte: le munizioni, la chiave che ci permetterà di accedere al livello successivo, il nemico dietro l'angolo etc.

In genere si tratta di spazi chiusi, a volte nei giochi più evoluti già di epoca playstation con terrazza o finestre su sconfinati orizzonti esterni, ma comunque dei fondali, dove tra una scena e l'altra c'è sempre uno stacco, per permettere all'elaboratore di caricare la scena successiva. Rimane, come supporto, una visione schematica in pianta, per orientarvisi. È uno spazio complicato, non complesso, dove è vero ci si può perdere, ma dove il percorso è obbligato, gli spazi estremamente definiti.




Homeworld Relic Entrateinment 1999.
Il successo del labirinto si spiega dunque per le sue qualità percettive e narrative: è un buon compromesso nel tentativo di avvicinare il doppio sullo schermo al giocatore, è lo stratagemma del complicato per riprodurre il complesso che è al di qua dello schermo.

Contestualmente, ovviamente, le macchine continuano a progredire, a complessificare queste tipologie spaziali: aumentano i personaggi del gioco, le opzioni, le scene, ma soprattutto si procede inesorabilmente verso la definizione materica dello spazio di gioco: il pattern viene abbandonato e sostituito dalla texture:
le superfici dei materiali non sono più definite da approssimazioni grafiche di superfici reali, ridisegnate pixel per pixel come le tessere di un mosaico, bensì applicando sulle facce dei poligoni che definiscono gli elementi tridimensionali del gioco (il vettoriale ritorna rivestito di materia) un'immagine fotografica di un materiale reale o d'invenzione: assolutamente realistici da lontano, si sgranano inverosimilmente quando ci avviciniamo, come in Doom quando sbattiamo contro un muro: l'invalicabilità di quel limite si mostra in tutta la sua evidenza denunciando i limiti hardware e software nell'approssimare la realtà. Lo spazio in cui siamo immersi si sgrana, diventa illeggibile.

L'avvento della texture accentua comunque il carattere epidermico e corporeo che assumono con il tempo i videogames, che si rivela appieno in Tomb Raider, dove quella immersione totale in uno spazio tridimensionale diventa anche un'esperienza corporea: il rapporto con lo spazio di gioco non è più semplicemente dato da un percorso obbligato da attraversare nel minor tempo possibile evitando le insidie ed annientando il maggior numero possibile di nemici, ma anche e soprattutto comprendendo in che modo il corpo del nostro doppio può attraversare uno spazio. La ricerca della combinazione giusta in sequenza dei tasti necessaria per saltare ad esempio da un punto ad un altro del percorso simula dunque un'esperienza corporale dello spazio, rispetto alla quale il grande limite sembra oggi, forse più che la capacità di elaborazione delle macchine quello dell'interfaccia.

Fatto è che questa corsa verso la verosimiglianza tra spazio del videogioco e quello reale –sia esso di invenzione o basato su fatti accaduti o in luoghi reali- sembra tendere verso un punto di fuga a cui sembra sempre più avvicinarsi. La potenza di calcolo e le capacità grafiche dei pc o delle ultime consoles porteranno, prima o poi, ad esaudire questo desiderio di avere un doppio identico, e forse permetteranno finalmente ai videogiochi di librarsi in spazi e storie di cui ancora non conosciamo le potenzialità, lontani dalle gabbie della verosimiglianza –come possiamo già intravedere in Rez.

Ma un altro cambiamento radicale è avvenuto in questi ultimi anni nello spazio dei videogiochi: il trasformarsi da spazio privato a spazio pubblico. Se infatti per molto tempo il videogioco è stato essenzialmente un solitario, o come dice Zinnemann "a narcissistic mirror for the single computer user" (8) appena stemperato dalle modalità multiplayer, l'espansione dei giochi attraverso la rete, con la conseguente creazione di vere e proprie comunità che attraverso i ruoli temporanei che assumono in incontri/scontri su qualche asteroide di una galassia lontana, o tra le pieghe di vere e proprie città virtuali, ha mischiato tra di loro i due spazi fino ad allora messi in relazione da pochi bottoni e manopole su un joypad, lo spazio del privato è entrato in uno spazio pubblico doppio di quello reale, anche se multiplo e simulato, così come lo spazio pubblico reale creato dal gioco online –veri e propri rapporti nati intorno al gioco- si è mescolato allo spazio privato doppio di quello reale. I limiti si sfumano, si confondono.

E contemporaneamente, nelle ultime release dei giochi si sfumano i limiti dello spazio di gioco: sembrano infiniti in Homeworld, dove il giocatore è sospeso nello spazio interstellare nel quale può ruotare a 360 gradi e spostare il proprio punto di vista dalla soggettiva di uno dei caccia della propria flotta fino ai limiti dello spazio remoto, da cui arriveranno le flotte nemiche a distruggere il proprio pianeta, per iniziare un esodo verso spazi sconosciuti, oppure sembrano indefiniti come nel percorso iniziale di Silent Hill attraverso un bosco immerso in una fitta nebbia, dove veramente si ha l'impressione di potersi perdere, e il labirinto 3D chiuso e rigidamente definito si apre nella complessità della città, in GTA III, in cui possiamo vagare a lungo, ascoltando uno dei tanti canali dell'autoradio dell'automobile che abbiamo appena rubato, e uscire fuori strada, ritrovandosi raramente –è la testimonianza di un giocatore esperto- a ripercorrere la stessa strada, nelle stesse situazioni.

Le ultime barriere da superare infatti, oltre a quelle tecnologiche della verosimiglianza e dell'interfaccia fisica –ormai prossime ad uno definitiva maturazione-, perché lo spazio di gioco sia veramente il doppio dello spazio in cui viviamo da qualche migliaio di anni sembrano essere nei limiti del campo di gioco: la differenza che c'è tra un gioco e la realtà è indubbiamente nel sottoporsi ad alcune regole prima di entrare nel contesto artificiale del campo da gioco, e nel momento in cui potremmo praticare l'infrazione di queste regole, e degli spazi che le formalizzano –esattamente come lo possiamo fare nella realtà- nel momento in cui potremmo perderci ed uscire fuori dal percorso segnato, e dunque reintrodurre nel videogioco quella capacità creativa ed interpretativa che appartiene a tutti gli altri giochi, allora sarà veramente realizzata la magia di un doppio perfetto, e lo spazio del videogioco, liberato dall'ossessione della verosimiglianza, potrà finalmente divenire uno spazio narrativo: "linear spaces may be defined as those spaces in which from follows function. Narrative spaces are, instead, spaces like this playground, places of displacement". (9) 

…ultime scene del film (10), Truman è in viaggio con la sua vela oltre l'orizzonte all'interno del quale è cresciuto e ogni giorno dopo giorno gli eventi si sono succeduti implacabili, regolati da un principio di cui non può sapere, ma solo intuire attraverso il proprio desiderio di libertà. Ma l'orizzonte è una parete su cui sono dipinti cielo e nuvole, che ferma il suo viaggio e svela la finzione, indicando una necessità: quella di infrangere il limite e aprire una porta verso uno spazio imprevedibile, verso un'altra storia che sta iniziando proprio adesso.

Alberto Iacovoni

alberto.iacovoni@libero.it
(7) Tunnel runner, 1983 CBS inc. per Stella Atari.
(8) THE RULES OF THE GAME, Eric Zimmerman in If/Then 1.0: PLAY, Netherlands Design Institute, 1999.
(9) The Conscience of the eye, the Design and Social Life of Cities, Richard Sennet, Norton 1992.
(10) The Truman Show, Peter Weir.

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