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Intervista a Peter Cook

Alessandro d'Onofrio
[in english] ALESSANDRO D'ONOFRIO: Le sue architetture vivono di forti contrasti, sembrano portare al limite estremo le tensioni che vivono al loro interno, tale meccanismo da quali motivazioni è mosso e come viene controllato?

[20jul2003]
PETER COOK: Credo dipenda dal mio rapporto con la storia che è, nello stesso tempo, cinico e opportunistico. Non sono un contestualista che ama lasciare le cose come sono. Non mi sento a mio agio nei deserti (1), piuttosto preferisco i territori stratificati, su cui si è andata accumulando terra su terra; si tratta di luoghi che sono stati teatro di numerose battaglie, carestie e poi infinite piogge, qualche trascurabile evento, una politica stimolante e un po' di buona architettura, tutte azioni concrete realizzate da parte di individui intenzionati a fare qualcosa... Se prendiamo in considerazione la gran parte dell'Europa, certo non ci troviamo dinanzi ad un territorio primigenio (quello creato da Dio), ma piuttosto percepiamo l'idea di un enorme collage di atti, di eventi. Nei progetti –sia quelli del passato che i più recenti– mi interessa il nesso tra ciò che rappresenta la componente artificiale, ossia l'intervento, ed il valore della natura intesa come preesistenza. Nei miei primi progetti –sui temi di: the lump, the sponge, the landscape– inserivo pezzi di architettura High-Tech all'interno di qualcosa che a prima vista sembrava un bel paesaggio romantico. Mi ha sempre interessato l'idea del contrasto che si ottiene inserendo ciò che è estremamente sofisticato all'interno di un contesto naturale. Bisogna assumere un'ottica europea, questo vuol dire che un architetto può trasferire al di fuori del proprio ambito le sue idee, la capacità inventiva e logica, il senso estetico, la cultura e anche l'inclinazione all'eccesso.

ALESSANDRO D'ONOFRIO: Nell'attività di un progettista che ruolo può assumere l'impegno dell'insegnamento?



Berlin Breitscheidplatz.


PETER COOK: Il problema di molti insegnanti è che continuano a insegnare anche quando progettano, mentre io ritengo che, a volte, bisogna poter staccare dicendo semplicemente: "Al diavolo tutto quanto, voglio sentirmi libero". Probabilmente l'unica alternativa a questa attività, è lavorare insieme a persone che si conoscono, si stimano, hanno interesse reciproco: quello che succede sul tavolo da disegno è una sorta di dibattito. Ma alla fine penso che il massimo appagamento consista semplicemente nel dire: "Vediamo un po' cosa potrebbe andare bene qui" e poi realizzarlo. Dopodiché si può anche tenere una lunga lezione in merito; adoro la "dietrologia"! Ogni volta che tengo una lezione sui miei lavori, faccio sempre riferimento a qualcosa che ho pensato di recente, non proprio mentre stavo lavorando; ma ciò che ho pensato deriva certamente da quello a cui riflettevo mentre stavo lavorando. È come se l'idea non riuscisse a fermarsi, a partire dalla linea tracciata sul foglio ad arrivare quando il progetto è concluso ed è dinanzi a noi.

ALESSANDRO D'ONOFRIO: Secondo quali elementi o considerazioni (razionali o irrazionali) inizia ad avviare il processo progettuale? Parte da una suggestione o da dati chiaramente definiti?


PETER COOK: Se ho trascorso un bel week-end e ho passato una o due settimane a disegnare, ho una capacità critica perfetta, me ne accorgo; sono molto lucido e ottimista, faccio salti di gioia, divento anche più critico con gli studenti, dico loro: "Questo fa schifo", oppure, "Si, questo è interessante!". Non sono un accademico; ho bisogno della trama del disegno per poter chiarire a me stesso il mio pensiero. Non mi butto, per così dire, sui libri. Certo leggo anch'io, ma attualmente passo più tempo a scrivere che a leggere. Non mi interessa tanto la lettura quanto l'attività dello scrivere, che mi assorbe quasi totalmente. Non ho alcun interesse nel trarre particolari suggestioni da idee filosofiche, al contrario sono assai più stimolato da quello che per esempio posso notare accidentalmente su una parete. Sono sollecitato ad inventare una storia a partire da una osservazione... come uno scrittore. Mi sento più vicino al giornalista che all'accademico. Resto affascinato dal fenomeno dell'astrazione, ma non mi interessa. Se è necessario, ovviamente so stare al gioco e quindi so esprimermi in tal senso, ma, di fatto, l'astrazione mi annoia. Nell'accademia architettonica in cui mi trovo, sono circondato da gente che gioca con l'astrazione senza avere la necessaria capacità visiva, senza avere occhio. Hanno tutti un sistema di supporti dietro le spalle: grandi figure di accademici, i giusti titoli per insegnare architettura all'università, editori e tutta l'industria mitologica che, a mio avviso, ha poco a che fare con l'architettura. La mia è una visione vecchio stampo, ma so di avere ragione, so che tra venti o trent'anni un bel giorno, la gente si sveglierà e si chiederà: "Cosa diavolo hanno combinato alla fine del XX secolo? Quello che hanno fatto non aveva niente a che fare con l'architettura!". Proprio come succede a noi ripensando al dibattito tra Romanticismo e Classicismo alla fine del XIX –a cui si fa cenno spesso in modo divertito– o alle considerazioni sul Razionalismo o sulla nostra idea dell'Impero: riferendoci ad essi pensiamo: "Come hanno potuto essere così stupidi, in tali occasioni?".

ALESSANDRO D'ONOFRIO: Partendo dai suoi progetti –in particolare il suo Project Pfaffemburg– sembra emergere un concetto di città basato sulle relazioni tra le parti. Tale operazione si configura attraverso l'idea di "rete": una sorta di trama sottile e irregolare, una maglia che dal manufatto tende a dilatarsi fino ad investire l'intera area urbana.Tale idea di città può essere posta idealmente in continuità con l'esperienza di Instant City? Inoltre, ha senso parlare di città quando questa ha avuto uno sviluppo così eccezionale da perdere la definizione dei propri margini, dei propri confini; penso a città come Los Angeles, Tokyo, Città del Messico. Ritiene che l'architetto debba cercare di controllare lo sviluppo di una città o, al contrario, debba limitarsi ad intervenire per comparti, per ambiti circoscritti?



Moscowhawco House, Mosca
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Pfaffenburg Museum, Bad Deutsches Altemburg; Belvedere.
PETER COOK: Penso che l'aspetto più strabiliante delle città sia la loro capacità di assorbimento. Da un punto di vista sociologico si sceglie di vivere in città per incontrare gente più interessante. In campagna si è costretti a diventare parte di una società più circoscritta, più chiusa. La città, al contrario, è una sorta di grande collage di tipologie umane. Penso che le città più interessanti siano quelle che non badano alla coerenza e si dispongono in modo assolutamente ricettivo rispetto a ogni fenomeno dell'esistenza: eventi, atmosfere, edifici, gente... Mi si potrebbe obbiettare che una tale realtà, può determinarsi solo a partire da fondamenta salde e coerenti... ma non ne sarei così convinto e comunque dipendente dalla gente, dal loro contributo individuale. Mi piacciono le città-agglomerato, le città divertenti, le città in cui risulta marginale se siano pulite o meno. Tendo, comunque, a prediligere quelle che riescono a mantenersi in equilibrio tra attività produttiva e attività amministrativa, ed essere ad un tempo città della comunicazione e della cultura. In questo senso preferisco Anversa a Bruxelles, Milano a Roma, Glasgow a Edimburgo, Tel-Aviv a Gerusalemme. Londra, in questo momento, mi sembra quasi accettabile in quanto le mancano le industrie di un tempo e sta cominciando, assai pericolosamente, a diventare una città turistica, una città giocattolo (ossia una città che non riesce più a vivere come una vera città) ...comunque ciò che dico dipende dalla mia visione romantica.

Gli edifici che mi interessano sono quelli che esprimono una tensione inventiva, che puntano a rappresentare il progresso tecnologico, ad essere l'immagine della società che produce. Il problema delle città amministrative è che sono fondamentalmente borghesi, la gente ci vive soddisfatta, è conservatrice e perennemente innamorata del suo passato, dello status quo. Perciò, sempre generalizzando, ritengo queste città meno divertenti. Adoro Tokyo e Los Angeles. Quest'ultima è una delle mie città preferite; è intrigante, è una specie di enorme contenitore in cui vive una varietà umana assolutamente straordinaria. Essa ha in sé la tensione del sogno, dell'impossibile ed anche l'idea di una fuga continua; ciò è essenziale per la sopravvivenza del XX secolo. Non è un caso che sia la città del cinema e dello spettacolo, dell'arte computerizzata, della realtà virtuale, delle telecomunicazioni e della tecnologia spaziale. In tutto questo c'è sicuramente quel filo che si riallaccia al senso della fuga che ritengo sia l'essenza del tardo XX secolo. Sempre più spesso la sopravvivenza è un misto di realtà e teatralità. Le grandi città sono intrise di teatralità e mitologia; in questo momento ci troviamo, ad esempio, a Roma con il Papa dietro l'angolo (2) questo è il massimo della teatralità, che differenza c'è tra il Papa e Hollywood? Nessuna in sé, ma ne abbiamo disperatamente bisogno, perché una città troppo asettica non offre i giusti stimoli all'immaginazione. Questa è la mia concezione del rapporto –molto edonistico– con la città. Con la mia adorazione per Los Angeles, temo di essere una specie in via di estinzione, è probabile che sia innamorato di un'idea di Los Angeles che, di fatto, non esiste più.

ALESSANDRO D'ONOFRIO: L'immagine del futuro, o di città del futuro (Los Angeles ad esempio) sembra essere per lei rassicurante; ritiene di essere per natura ottimista?


Osaka Pavilion.


PETER COOK: Certo che sono ottimista! Non c'è alternativa all'ottimismo. Dal punto di vista della cultura, se non fossero esistiti gli ottimisti non avremmo scoperto l'America, l'elettricità, né tanto meno costruito gli aeroplani o scoperto medicinali. La gente avrebbe detto semplicemente: "Toh, lì c'è un oceano e, chissà cosa c'è oltre?". Sono gli ottimisti che costruiscono le navi... Credo che non esisteremmo senza l'ottimismo o almeno vivremmo in modo diverso: L'ottimismo è parte integrante della sopravvivenza e della civiltà, il pessimismo equivale al suicidio.

ALESSANDRO D'ONOFRIO: Nella sua visione di progresso sembrano convivere due interpretazioni differenti: da un lato è inteso come una possibilità di riscatto della conduzione umana, mentre dall'altro è oggetto di ironia.



Pfaffenburg Museum, Bad Deutsches Altemburg; Open Air Theater.


Pfaffenburg Museum, Bad Deutsches Altemburg; Museum Pavilion.
PETER COOK: L'idea di progresso si riallaccia a quella di ottimismo. È stata considerata una forma di progresso mettersi in mare ed andare a scoprire una terra all'altro capo del mondo chiamata America. Ciò ha consentito la sopravvivenza della civiltà europea. Non posso pensare cosa sarebbe successo all'Europa se l'America non fosse stata usata come valvola di sfogo per scaricarvi migliaia di persone. L'Europa avrebbe finito con l'esplodere, proprio come sta avvenendo con la Cina che ha avuto un glorioso passato, ma ora ha un misero presente.
Sono piuttosto cinico su tali argomenti, ma quello che è certo è che bisogno credere nel futuro.


ALESSANDRO D'ONOFRIO: Il mito della modernità vive una fase fortemente dicotomica: in Europa si esprime attraverso l'High–Tech, mentre negli U.S.A. attraverso il decostruzionismo almeno come pensiero; si tratta di due interpretazioni della realtà opposte, l'una tendente ad una supposta "oggettività", l'altra ad una presunta "soggettività".

PETER COOK: L'High–Tech mi interessa perché, in un certo senso si configura come un movimento a parte. Ciò che mi stupisce è come mai i principali paesi che fanno dell'High–Tech siano l'Inghilterra, che l' ha avviata e la Francia, che la sta sviluppando; in questi paesi, più o meno, ci sono gli esempi più importanti di tale architettura. Gli americani ci capiscono poco, i giapponesi un po' di più, ne fanno uso ma non l'approfondiscono. Il vero cuore del mondo High–Tech è tra Londra e Parigi. Mi affascina il fatto che si tratta di due paesi dalla lunghissima storia e, quindi, per logica, avrebbero dovuto essere sorpassati, conservatori. Invece entrambi hanno una grande tradizione creativa e innovativa ed anche ottimi tecnici; c'è molta gente che si impegna per trovare la soluzione migliore per ogni occasione, mentre in molti altri paesi mancano le idee. Credo che gli americani, di fatto, non siano progressisti, hanno il potere ma non sono, per natura, innovatori. L'High–Tech ha avuto inizio circa venticinque anni fa, in Inghilterra; è interessante che ora i giovani architetti francesi sembrano averla abbracciata, con più passione puntiglio dei giovani architetti inglesi. Una fusione tra Norman Foster e Jean Nouvel, è una cosa interessantissima. Però è buffo che ciò avvenga in questi due paesi tendenzialmente marginali.

ALESSANDRO D'ONOFRIO: Qual'è il rapporto tra l'High–Tech e la sua opera?



Plug-in-city
.

Paris Housing.
PETER COOK: La relazione tra High-Tech e la mia opera si riallaccia alla tradizione creativa; una tradizione di tecnici eccentrici che l'architettura ha saputo recepire positivamente . Ritengo che gli architetti più brillanti in entrambe i paesi (Inghilterra e Francia) siano dei tecnici. Nelle nostre città siamo stati molto fortunati perché a partire dagli anni Trenta c'è stato un flusso di esperti, alcuni dei quali scampati al nazismo, come pure un'intera collezione di curiosi personaggi. Ora abbiamo dei giovani specialisti molto brillanti. C'è anche chi ha avuto dei contatti di lavoro con la Germania, ad esempio con Frei Otto, intorno agli anni Cinquanta e Sessanta . Negli ultimi anni si è venuto a creare una sorta di grande ufficio esportazione, questi tecnici lavoravano in tutte le parti del mondo, sono sempre in viaggio, in movimento. Se prendiamo l'aeroporto di Kansai, l'idea dell'impianto può provenire da Genova o da Londra. Questo è potuto accadere per il fatto che il flusso principale dell'architettura ha perso la sua caratterizzazione; al contrario ciò che conta per la cultura è la presenza di un'architettura in grado di seminare valori. In un certo senso è una sfida al contestualismo! Un'idea può svilupparsi in un contesto e trovare luogo altrove. Ho un figlio piccolo e da lui imparo molto osservando i suoi giocattoli. Ad esempio, se ne esamino uno, mi viene da pensare che potrebbero essere stato fabbricato in Cina e il design del packaging progettato a Cincinnati o a Birmingham e poi prodotto negli USA o a Hong Kong e il marketing ideato a Los Angeles o a Parigi e, infine, distribuito a Dusseldorf. Il bambino stesso può trovarsi in qualsiasi parte del mondo.

La domanda che viene da porsi è:cosa rappresenta culturalmente tale oggetto? Dove è nata l'idea? Non possiamo affermare con certezza da dove provenga. Lo stesso accade per le automobili, gli edifici. È solo una questione di tempo e poi potremmo ritrovare gli stessi tipi di edifici in diverse parti del mondo. Il Centre Pompidou, in tal senso, è un esempio che ha già vent'anni. E' stato progettato da italiani e inglesi (i francesi non erano ancora abbastanza bravi all'epoca), tuttavia il Pompidou è una testimonianza di grande importanza per la Francia, è un monumento che appartiene alla cultura. Debbo aggiungere che mi piace moltissimo.

ALESSANDRO D'ONOFRIO: Nella sua opera ritiene che esistono dei punti di contatto con i decostruttivisti americani?


Hamburg Office, Amburgo. Sezioni trasversali e pianta.



Hamburg Office, Amburgo. Sezioni trasversali.


Hamburg Office, Amburgo. Modello di studio.


PETER COOK: Se esiste un rapporto, questo è dovuto al fatto che molti di coloro che appartengono al gruppo di origine degli architetti decostruttivisti (3), ossia che hanno esposto al Museum of Modern Art, sono mie amici; alcuni –come Zaha Hadid, Daniel Libeskind e Frank Gehry– li ho visti crescere. L'influenza di alcune idee filosofiche su certi lavori decostruttivisti, non mi interessa. Non ho studiato molto Derrida, ho letto tre pagine è mi ha subito irritato il senso di autocompiacimento che traspare dall'esposizione dal suo pensiero. Credo di conoscere molto bene gli architetti citati poco fa; con loro ho parlato spesso del lavoro e di come lo svolgono. Mi sembra che, nella sostanza, il Decostruttivismo sia una sorta di ideale prosecuzione dell'Espressionismo. Inseguire alcune idee filosofiche per recuperare un supporto alla propria creatività penso sia molto interessante, soprattutto per gli accademici e per tutti coloro che non hanno occhio, per altri penso che l'idea progettuale debba seguire un itinerario di svolgimento alquanto diverso. L'esplosione di Razionalismo e Costruttivismo ha avuto un significato importante; ma le persone particolarmente coinvolte, stanno cercando di tirarsi fuori dal dibattito, tentando, maldestramente, di riproposi come architetti pragmatici... pur non essendolo assolutamente. La vera questione è quella dei cicli di idee, della loro influenza in rapporto a ciò che si costruisce.

È sempre problematico in architettura dare una risposta al quesito: "Cosa si fa e come spiegarlo?"; soprattutto considerando il rapido processo di "consumo" della cultura. Neri paesi in cui non c'è un dibattito culturale molto sviluppato, o in paesi in via di sviluppo, avviene una specie di avanzamento a singhiozzo, se mancano cinquant'anni di dibattito, vuol dire che manca tutto in background. Oppure, come contro esempio, vi sono paesi saturi di dibattiti culturali in cui appena le cose funzionano, si passa subito ai "movimenti". Questo riguarda anche altri aspetti della vita quali: l'editoria, la televisione, etc. in cui si viene a determinare una sorta di dibattito continuo. Ad esempio Libeskind prende un aereo diretto in qualsiasi paese –mettiamo che stia una settimana in Islanda e la successiva in Africa– il dibattito che ha sviluppato è sempre presente, è con lui.

ALESSANDRO D'ONOFRIO: Contrariamente agli altri architetti, lei ha sempre collaborato con amici, gruppi di artisti, team; la ritiene una condizione necessaria per lo sviluppo della sua capacità espressiva?


PETER COOK: Penso di essere molto inglese, perché non lascio trasparire la mia eccitazione, pur essendo molto emotivo, e questa contrasto mi piace molto. Mi piace il mio sistema di lavoro, basato sulla calma; questo mi consente di essere una persona ricettiva e sensibile, inserita in sistema tranquillo. Ho scoperto che quando mi trovo in territori stimolanti, come ad esempio nel Mediterraneo, la mia capacità di agire risulta ridotta perché molta energia nervosa viene impiegata per la pura sopravvivenza e non ne rimane molta altra per il resto.

Penso anche di essere influenzato dalle persone, Christine Hawley ed io, abbiamo lavorato a lungo insieme perché condividiamo lo stesso senso dell'umorismo. In apparenza sembriamo molto diversi da come siamo in realtà. Ad esempio se lavoriamo a degli edifici, ci divertiamo ad inventare storie incredibili sui presunti inquilini, diamo loro dei nomi, delle professioni, creiamo degli intrecci. È un misto di ironia e di gioco. Nelle storie che ci vengono in mente, spesso assai curiose, il gioco è serio e l'invenzione diventa gioco. Ci piace che sia così. All'improvviso ci viene in mente di mettere qualcosa sotto la cesta del gatto, ne risulta una curiosa presenza che emerge dalla parete e proietta un'ombra strana che casualmente si trova in un dato punto geometrico collegato ad altro.


Dampstead Housing
.
Quello che voglio dire è che il punto di origine non è l'idea astratta, la filosofia, ma il gatto nella sua cesta. Apparentemente è un evento pragmatico, ma l'invenzione si basa su una situazione pragmatica del tutto casuale. Se ci sono due tizi che devono attraversare un fiume e hanno il problema di un amico grasso, ma hanno anche due tronchi d'albero può capitare che costruiscano un ponte. Dieci anni dopo un tale passa di lì e dice: "Guarda che bella idea!". Ma tutto era nato semplicemente dal fatto che quei due avevano un amico grasso e due tronchi d'albero e dovevano attraversare il fiume. Capitano alcuni eventi e da quel momento in poi si prosegue in un certo modo. Ritengo che l'architettura sia "merda" nel senso che è come un paesaggio disabitato che è esso stesso "merda". Noi pensiamo che il paesaggio sia terra coltivata, ma di fatto è influenzato dai fattori più svariati: da un inverno rigido, dal fatto che il secondo figlio del contadino è stupido. C'è sempre qualche imprevisto che si verifica.

Penso che l'architettura consista in questo: qualcuno costruisce una porta o una finestra perché gli è stata espressamente richiesta senza lasciare nessuna spiegazione scritta per le generazioni future; poi arriva qualcuno che cambia certe cose...allora, gli elementi che in precedenza costituivano l'unità dell'oggetto ora appaiono come dei frammenti. Prendiamo la colonna corinzia, nessuno sa con certezza che dovesse essere così per forza... Intendo dire che se gli edifici High–Tech sopravvivranno fino alla fine del XXI secolo, qualcuno vedendo un particolare pezzo di metallo lavorato in un certo modo dedurrà che facevano parte di un culto religioso che esigeva che fossero realizzati in quel modo. Ma questo è bellissimo, è lo stesso principio con cui si evolve la lingua. L'architettura è un misto di funzione, mitologia e coraggio. L'architettura è arditezza, questo è il suo fascino; altrimenti non si fa altro che ri-costruire, invece un bel giorno si presenta qualcuno abbastanza coraggioso da decidere di piazzare un tetto sopra la parete, questa è audacia. Insegno architettura e in questa mia attività incoraggio altri individui a buttarsi nella mischia e a cavare qualcosa dalla "merda". Non credo di essere strano, perché lo stesso avviene in letteratura, nel giornalismo, nella produzione delle scarpe, altrimenti avremmo un unico tipo di scarpe! La cultura è "merda", è bellissimo! Dico questo per essere volutamente provocatorio in queste mie affermazioni, o almeno lo spero. So che la maggior parte degli architetti, studenti, accademici, critici, gente che scrive di architettura, gente che costruisce edifici, vuole che ci sia un ordine; vogliono sentirsi dire che ciò che fanno è giusto; vogliono avere una formula, una chiave di accesso, un progetto chiaro. Se non fosse così, se fossero tutti pragmatici, probabilmente li criticherei lo stesso, ma è così... ...e poi a Roma c'è molta più roba classica che in qualsiasi altra parte del mondo e io mi sento indotto a dire la mia!

1. Peter Cook allude probabilmente alla poesia di Alvaro Siza, Hostaria de costruir no deserto do Sahara, pubblicata in "Quaderns", 178, luglio-settembre 1986; la trad. it. è riportata nell'articolo di Michele Costanzo, Alvaro Siza, La complessità del semplice e la semplicità del complesso, in "Rassegna di architettura e urbanistica", 80-81, Roma 1995.

2. L'intervista si è svolta sulla terrazza di Castel Sant'Angelo, che si affaccia sul Tevere, con lo scorcio sulla destra di via della Conciliazione e San Pietro.

3. Per gruppo di origine si intende quello formato dai sette architetti (Peter Eisenman, Frank Gehry, Zaha Hadid, Coop Himmelb(l)au, Rem Koolhaas, Daniel Libeskind, Bernard Tschumi) selezionati da Philip Johnson e Mark Wigley per la mostra del MoMA di N.Y., nel 1988.

Pubblicato originariamente su "Edilizia Popolare", 241, settembre-ottobre 1995. Per gentile concessione dell'autore.

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