Il
Coniglio è la nuova carne di manzo... Siccome abbiamo abiurato
l'utilitario ci siamo condannati ad una immersione perenne nell'arbitrario. Rem Koolhaas, Junkspace, 2000 Se negli anni Novanta vi era una diffusa consapevolezza che la forma architettonica si sarebbe dissolta all'interno dello spazio urbano e che di conseguenza l'idea di quest'ultimo avrebbe preso il sopravvento anche all'interno della disciplina stessa, il corso degli eventi recenti sembra smentire, in parte, questa ipotesi. L'immagine "monumentale" del crollo delle Torri Gemelle sembra aver inaugurato una nuova stagione di grandi e monolitici monumenti pubblici nei quali l'architettura non scompare affatto ma è letteralmente "gonfiata" fino ai suoi limiti estremi. Torri, Biblioteche, Teatri, Musei, grandi palazzi per Uffici, Auditorium, Stazioni che sembrano piccole città oppongono, smentendola, l'idea di città infinita e dispersa (o forse la confermano nel modo più tragico e parossistico). La "sagoma" dell'architettura vuole recuperare il suo spazio canonico nello skyline urbano, ma questa presenza, a giudicare dagli ultimi grandi landmark che adornano l'immagine della città contemporanea, è più che mai discutibile: da molto tempo, infatti, la critica e la disciplina in generale si ostina ad ignorare la questione più importante di questa "nuova" scala del progetto urbano: la forma architettonica. Le note che seguono vogliono essere un piccolo contributo per riaprire questa "vecchia" questione. [PVA] |
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Durante
una lezione sullo stato recente dell'architettura contemporanea Robert
Somol ha contrapposto il concetto di Shape (1) all'idea di Forma.
(2) Somol afferma che mentre ciò che d'ora in poi chiameremo Sagoma (Shape) è facile, vale a dire la sua costituzione non è il risultato di un cosciente processo generativo, bensì scaturisce dall'improvvisazione e dal caso, la Forma pretende di essere difficile, manifestandosi come un sofferto indice del proprio processo generativo. In altre parole la sagoma è una figura a bassa risoluzione, mentre la forma è l'indice della volontà di far diventare un oggetto l'impronta di un metodo cosciente e spiegabile. Dunque se la Forma, secondo Somol, deve essere ragionata, la Sagoma è arbitraria. Questa distinzione divide il panorama dell'architettura contemporanea in due categorie: gli Shapers, cioè coloro che fondano la propria strategia su l'istantaneità dell'apparenza formale e che, secondo Somol, stanno prendendo il sopravvento sulla scena architettonica, e i Movers, cioè coloro invece incentrano il loro lavoro sul processo generativo della forma a partire da dati esterni o algoritmici. L'operazione critica proposta da Somol è di grande interesse perché azzera una mitologia ricorrente nel discorso sull'architettura e sulla urbanistica e cioè il corredo teorico, sociologico, antropologico, tecnologico, geometrico e utopico -in una parola scientifico- con cui gli architetti tentano disperatamente di mascherare ciò che sta diventando sempre di più un mero paesaggio di sagome tanto grandi, spettacolari e simboliche quanto completamente racchiuse nella propria autoreferenzialità a scala monumentale. Al contrario della falsa coscienza dimostrata dalla cultura architettonica negli ultimi anni e fondata su l'ostinata negazione di questa realtà, Somol ribalta la situazione a favore di un nuovo ottimismo professionale nel quale gli architetti, finalmente liberi dal tabù tutto intellettuale del difficile e delle responsabilità verso il sociale, verso le risorse tecnologiche, verso il ricatto morale dell'utopia, verso il programma, possano legittimamente riappropriarsi del loro spazio, cioè di ciò che fino a ieri abbiamo considerato come superfluo. Per delineare meglio questo spazio, Somol traccia una genealogia che va dagli Architectonics di Malevich al Monumento Continuo di Superstudio, agli ultimi controversi progetti di John Hejduk fino all'ultimo lavoro OMA che da qualche anno sta spargendo per il mondo -dagli Stati Uniti alla Cina- gigantesche e monolitiche sagome ormai completamente affrancate dal carattere speculativo e urbanistico che aveva caratterizzato l'attività progettuale di OMA nei decenni precedenti. Queste nuove architetture-sagome, secondo Somol, non richiedono nessuno sforzo critico ermeneutico, geometrico, linguistico, formale, scientifico o metafisico per essere "create" e per essere "interpretate"; esse sono l'estrusione di un semplice gesto grafico, un gesto che comunica in modo, esplicito e veloce (e senza tante scuse) l'irresistibile sex-appeal, la grazia innata e soprattutto la presenza "cool" della nuova architettura sagomata. In fondo l'attitudine minimal che traspare da questo tipo di impatto della forma architettonica è ben diverso dall'idea di razionalismo che il termine minimal solitamente evoca nella nostra disciplina. Al contrario le nuove architetture-sagome sembrano recuperare la qualità originale della scultura minimalista così come essa fu stigmatizzata al suo apparire alla metà degli Sessanta: "Presentness is grace". 2. Nel costruire questa ipotesi critica Somol sembra infatti far riferimento, ribaltando però la conclusione, ad Art and Objecthood, la celeberrima stroncatura dell'arte Minimal scritta nel 1967 dal critico, storico e teorico d'arte Michael Fried. (3) Nel tentativo di salvare il formalismo modernista minacciato dall'ascesa dalla letteralità totemica, vuota e oggettuale dell'arte minimal, Fried accusò Donald Judd, Robert Morris e compagni di fare un'arte troppo facile, troppo letteralmente simile alla realtà esistente e per questo troppo teatrale e aggraziata. Per Fried, infatti, l'arte doveva sconfiggere il teatro, cioè l'affabulazione e il versismo di ciò che occupa lo stesso spazio della nostra esperienza corporale; l'arte, secondo il critico americano, deve concentrarsi sulle sue convenzioni formali, le quali sono suscettibili di essere rinnovate o distrutte ma, al tempo stesso, sono irriducibili alla realtà dell'esperienza quotidiana. In questo senso Fried affermava che la scultura minimal, che Clement Greenberg e Fried definivano letterale, si riduce alla riproduzione delle forme date dalla realtà, attraverso la riproduzione della loro spettacolare semplicità; una semplicità irrimediabilmente normalizzata, insufficientemente astratta, non costruita attraverso la verifica rigorosa delle convenzioni artistiche all'interno dello spazio astratto e atopico dell'arte, ma obliterata da situazioni realisticamente materiali e contestuali. Al contrario della critica corrente, soprattutto di quella che si occupa di architettura, che spesso confonde il minimalismo con uno stile vagamente purista, essenzialista e idealista, Fried vi scorgeva, invece, quel punto di non ritorno nel quale l'arte sarebbe stata fatta scendere definitivamente dal piedistallo e immersa completamente nello spazio dell'esperienza reale. Fried elaborò la sua critica in modo così accurato, molto più di quanto una normale stroncatura normalmente richieda, da trasformare la critica in una delle più penetranti e acute interpretazioni del minimalismo e in generale del "ritorno del reale" che ha segnato la cultura artistica negli ultimi quaranta anni. (4) In fondo neanche i minimalisti hanno mai smentito nei fatti questa sottile lettura del loro lavoro confermandola ampiamente nei loro scritti e nella loro opera. Basti pensare ai mapping fotografici di Dan Graham o ai materiali prosaici e di uso comune utilizzati da artisti quali Flavin o Judd (5) e alla spazialità dinamica e urbana delle opere di Richard Serra. Nella sua critica dell'arte minimal Fried affermava che quest'ultima era fondata sulla pura oggettualità delle cose (Objecthood) e, dunque, sul calco letterale della realtà, sulla presenza scenica, sulla teatralità. Per il suo tono risolutamente assertore e apparentemente dogmatico, il saggio di Fried suscitò numerose polemiche ma soprattutto fu oggetto di una sarcastica derisione per l'attitudine moralista e per l'anacronistica responsabilità estetica che si assumeva nel definire ciò che era arte e ciò che non lo era. Fried stimava profondamente la sfida dell'arte minimal come non solo importante e decisiva, ma anche come necessaria alla tradizione modernista dell'arte. La sua critica, per certi versi puritana, moderna e classicista, finiva per coincidere, comunque, con le stesse posizioni esplicite ed implicite espresse dal lavoro degli artisti stessi. Se da una parte Judd, Morris, Flavin e Andre operavano con una consapevolezza analitica di grande forza che si articolava -come notava lo stesso Fried- non come mero shock avanguardistico ma come consapevole scelta dei propri mezzi e dei propri principi formali, dall'altra questo sforzo appariva a Fried una mera "estetica del dubbio", un mero ritorno ad una sorta di cosciente automatismo naturalistico che si risolveva alla fine in una accettazione indiscriminata del reale. Somol sembra ripartire da questo punto lasciato in sospeso: dopo il ritorno al reale dei Minimalisti, così ben stigmatizzato dalla critica formalista di Fried, ma anche dopo l'amnistia al reale di Venturi e l'accettazione del Nothingness di Koolhaas non si può pretendere di arginare l'impatto del facile, del prosaico, dell'effimero, del triviale, del mercificato con i fantasmi ermeneutici di turno, dal Pop degli anni Sessanta, alla linguistica degli anni Settanta, allo storicismo degli anni Ottanta, al digitale degli anni Novanta fino al new commitment di questi giorni. Occorre invece liberare questa deriva inarrestabile dalle false rotte intellettuali e impegnarsi su ciò che realmente sta dando corpo alla nostra disciplina: mapping, blob, diagrammi, loghi, decorazioni high-tech, installazioni, allestimenti, software, graphic design e libri mattone. Occorre cioè -sembra suggerire Somol- rivelare la vera natura di questo universo di detriti significanti e allo stesso tempo senza una direzione precisa, occorre riconoscere il vero statuto di questa sorta di raffinato junkspace versione avanguardia, vale a dire il suo essere hollowcore dell'architettura e la spensierata entropia del suo linguaggio. Per rendere più incisiva l'immagine di questa situazione che, nel bene o nel male, oggi rappresenta la registrazione più lucida di ciò che sta accadendo nel mondo dell'architettura, e cioè lo spostamento dal feticismo analitico degli anni Novanta al nuovo feticismo formale degli anni Zero, Somol, parafrasando una famosa dichiarazione di Carl André, afferma "La sagoma è un buco in una cosa che non lo è", vale a dire che il valore delle nuove grandi Sagome dell'architettura contemporanea, come nelle sculture minimal, consiste nella loro assoluta superficialità,nel loro semantico nulla e dunque nella loro pervasiva vuotezza nella loro inesorabile condizione di bastare a se stesse, nel loro implacabile "esserci" invece di "essere qualche cosa". 3. Al di là della lucidità e dell'onestà intellettuale con la quale Somol riconosce il vero contenuto della situazione attuale e l'impegno critico nel dare un senso a ciò che altrimenti rischia di rimanere sepolto sotto le varie pretese contenutistiche e metaforiche, una posizione di questo genere (che è anche la posizione verso la quale Koolhaas sembra ormai lentamente ripiegare) si limita a riconoscere un fenomeno che esiste già e che, se non ha bisogno di ulteriori teorizzazioni, come lo stesso Somol ammette implicitamente, non è neanche una posizione suscettibile di essere criticata proprio in virtù della sua ostentata condizione di bastare a se stessa. Paradossalmente l'unico rilievo che si può muovere a questa posizione riguarda proprio il suo marcato carattere ideologico nel senso che Marx avrebbe dato, anche oggi, alla parola ideologia, e cioè la creazione di una (falsa) coscienza che sublima una situazione di fatto e la affranca completamente dal suo contesto materiale effettivo ed "empiricamente contestabile". Invece di affrontare ed eventualmente operare all'interno delle ragioni stesse che ci hanno portato a questa situazione, ragioni che riguardano l'idea di forma architettonica troppo a lungo negletta e trattata con stupida e arrogante negligenza, si crea l'ennesimo "fantasma ermeneutico" per rinviare la resa dei conti. Di fronte alla sconfitta di altre false coscienze come quella del Funzionalismo, dell'Organicismo, del Realismo, del Pragmatismo, del Supermodernismo del Minimalismo e del Populismo e dell'Utopismo non rimane che sublimare il residuo di tutto ciò, vale a dire l'universo autistico e autoreferenziale fatto di frammenti e balbettii alla deriva incapaci di senso; un universo alimentato da stanchi regimi di parole e significati che, al di là della loro manifesta "paranoia ermeneutica", non propongono assolutamente niente di nuovo. (vedi libri come Content di Koolhaas e tutto il flusso ininterrotto di decorazioni grafiche, tipografiche e contenutistiche che oggi viene spacciato per "ricerca" ma che, come afferma Somol, non rappresentano altro che l'apoteosi incontrastata del "facile"). Lungi dal sollecitare la partecipazione che Somol invoca come caratteristica fondamentale del carattere ludico e leggero delle nuove Sagome e la bassa risoluzione del facile è invece la naturalizzazione di qualcosa che purtroppo non ha più la stessa innocenza che aveva agli albori del paradigma della comunicazione. Oggi i simbolismi contenutistici del facile fanno parte di una economia dell'informazione che dietro le mitologie dell'accessibilità, dell'ordinario, della spontaneità e della auto-organizzazione nascondono una opacità ideologica e politica discutibile fondata sul fatto che ad un eccesso di contenuto corrisponde un deficit di senso. La superficialità delle Sagome non è altro che la solidificazione di questo eccesso di contenuti, metafore significati e simboli senza senso di cui la forma architettonica è spesso un calco letterale. Le Sagome sono un po' come i geroglifici: pur non più comprensibili, il loro carattere ostinatamente figurativo e simbolico "vuole dirci qualcosa". Per Fried l'oggettuale (objecthood) era la letteralità teatrale con la quale la scultura minimalista replicava le cose della realtà annullando la condizione delle aspirazioni inventive e generative dell'arte. Per quanto riguarda lo stato presente dell'architettura, possiamo affermare che il carattere contenutistico delle nuove Sagome consiste nella letteralità con la quale la forma architettonica replica la bassa risoluzione dell'informazione, cioè la nostra realtà, o quanto meno la forma simbolica di ciò che oggi chiamiamo realtà. Parafrasando Fried si può affermare che la maggior parte dell'architettura attuale, nelle sue forme più avanzate -Koolhaas, Herzog de Meuron, Nouvel, Ito, MVRDV e tutti i loro epigoni- è puro contenuto, contenthood nel senso letterale che Fried darebbe oggi a questo termine. 4. Ma da quale tipo di forma l'idea di Shape si vuole a tutti i costi emancipare e differenziare? Per far risaltare la propria facilità e immediatezza, la sagoma si contrappone alla forma intesa come l'indice della sua costituzione, cioè la sua elaborazione a mezzo di uno spessore ermeneutico di appoggio alla forma stessa. In questo senso la forma in sé non genera ma è generata e, dunque, ci costringe a percorrere a ritroso tutto lo spazio geometrico, filosofico, tecnologico, sociologico che il suo processo costitutivo ha attraversato. Per far ciò la forma diventa un indice nel senso che Rosalind Krauss ha dato a questo termine (6), ovvero la forma non è altro che il deposito delle tracce lasciate dal proprio referente. In questo caso l'architettura come un libro o un corpo tatuato deve essere letta nel senso che la sua funzione critica nel mondo è la difficoltà stessa della sua apparizione e la pretesa di meritare attenzione. (7) Se questa è la forma che Somol definisce come obsoleta, allora essa non è la forma in quanto forma-oggetto ma la forma in quanto forma-indice, cioè la forma post-moderna che è sempre un indice o la spia o l'emblema di un metodologia, di un fantasma metodologico. Dunque la "forma difficile", cioè quella che ha attraversato la teoria formale in architettura degli gli ultimi cinquanta anni -una teoria esemplarmente simboleggiata dalla sequenza Rudolf Wittkower, Colin Rowe, Peter Eisenman, Greg Lynn, Alejandro Zaera- è fondata sul fatto che per raggiungere la forma occorre costruire accanto alla sua evidenza un oggetto virtuale: il diagramma del proprio processo costitutivo. Limitando la vita della forma a questa tradizione, si esclude dallo spettro del formalismo non solo l'architettura che ha saputo instaurare delle forme in modo analitico e fenomenologico senza il ricorso agli estenuanti percorsi diagrammatici del "difficile" come, ad esempio le architetture e le teorie di Le Corbusier, Mies, Zevi, Kaufmann, Rossi, Stirling e dello stesso Koolhaas, ma anche i presupposti della vera teoria formale che nei suoi principi si è sempre fondata sull'immanenza della forma stessa e mai sull'applicazione di un metodo sulla forma. Nel fondare la "teoria del metodo formale" nell'ambito della letteratura, Boris Ejchenbaum, affermava che "fondamentale per i formalisti non è il problema dei metodi dello studio della letteratura, ma quello della letteratura come oggetto di studio. In sostanza non parliamo e non discutiamo di nessuna metodologia. Parliamo e possiamo parlare solamente di alcuni principi teorici, che non ci sono stati suggeriti da questo o quel sistema metodologico o estetico bello e pronto, ma dallo studio del materiale concreto nelle sue specifiche peculiarità". (8) Dunque l'idea di forma non si identifica per forza con un metodo inteso come spazio virtuale e trascendentale tutto intriso di tecniche notazionali applicate ed estranee alla logica stessa della forma così come essa si costituisce di fronte a noi. Una idea di forma in architettura non deve coincidere per forza con i diagrammi proporzionali di Wittkower, dove la scansione geometrica sostituisce completamente la massa oggettuale dell'architettura, oppure con le architetture di Greg Lynn e Zaera e di molti altri digitalisti per i quali la forma è "generata" da processi algoritmici la cui complessità spesso è completamente sproporzionata rispetto alla fenomenologia dello spazio reale o quanto meno a ciò che la forma architettonica può circoscrivere. In fondo la forma architettonica è come la merce così come quest'ultima era stata teorizzata da Piero Sraffa nel tentativo di demistificare, con rigore analitico (ma anche con passione politica) il valore stesso della merce determinato dallo spettro virtuale di ciò che oggi chiamiamo, con tanta naturalezza, il mercato. (9) Contrariamente alla mitologia di una determinazione data dalla curva della domanda che incontra quella dell'offerta come fondamento oggettivo del valore, Sraffa individuava quest'ultimo nel sovrappiù, cioè in ciò che è materialmente strumentalizzabile per mantenere il ciclo stesso della produzione affermando così che le merci si producono a mezzo di merci. Lo scenario economico in vacuo sviluppato da Sraffa non si limitava a disegnare un processo di produzione circolare ma a chiarire fino in fondo il ruolo che ha la merce come strumento di produzione e non come cosa in sé o peggio come feticcio del consumo. Nell'idea di Sraffa la merce era radicalmente astratta proprio perché si riferiva alla realtà intesa come necessità e concretezza materiale della cosa che produce la cosa. Dunque, la merce non ha significato né tantomeno è una entità autoreferenziale; essa semplicemente fonda, in quanto mezzo, il ciclo produttivo, vale a dire il principio di sussistenza dell'economia. L'austerità logica dello scenario Sraffiano è certo un modello, una ipotesi (nell'accezione più assoluta del termine) e non una descrizione sic et sempliciter della realtà, anche se di quest'ultima era una feroce e devastante critica. Proprio perché ipotesi e modello di senso, questa critica non si svolgeva sul piano del contenuto (se il mercato è giusto o sbagliato, che cosa è la merce...), bensì sul piano rigoroso e concreto della forma economica in sé, che per Sraffa era il processo di produzione e ridistribuzione attuata a mezzo di merci, cioè la forma nel suo senso performativo e non nel suo significato simbolico o informativo. La forma è un oggetto che l'architetto trova fatalmente sulla sua strada e solo in virtù di una oggettualità chiaramente fondata, affermata ed instaurata la forma è intellegibile, afferrabile, usabile, componibile e criticabile. (10) La forma possiede una assolutezza che è definibile soltanto a partire dalla sua stessa fenomenologia, cioè nel modo in cui è materialmente fabbricata e nella condotta operativa che ne costituisce l'ipotesi d'uso non solo come un "corpo" ma anche come espressione "piena" e "diretta" di un senso costituito dal suo fondamento logico e costruttivo. In questo senso la forma è sempre austera, ma la sua austerità non è un linguaggio formale o peggio uno stile. L'austerità è la precisione, è l'assunzione di responsabilità con la quale la forma è scelta, enunciata e costruita. La forma può assumere anche uno stile eclettico disponibile, realista, dimesso, ordinario, ridicolo, greve, tecnocratico elegante, moderno; ciò ha un valore importante nei confronti delle scelte personali ma relativo da un punto di vista teorico (ciò che la critica chiama architettura minimalista è semplicemente una caricatura semantica, peraltro estremamente noiosa e insulsa, dell'idea di austerità). La forma è sempre opaca nel significare, ma è sempre immediata e trasparente nell'instaurare. Ecco perché, nel momento in cui siamo immersi in una complessa e oramai problematica economia della comunicazione dove l'immediatezza dell'informazione corrisponde alla sua stessa opacità, occorre concentrasi sull'idea di forma determinandone ogni volta il senso specifico in modo da salvarla dalla sua ormai stanca deriva contenutistica e autoreferenziale. Pier Vittorio Aureli |
[01jun2004] | |||
NOTE: |
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